LA SINISTRA SENZA IDENTITÀ di Luciano Cafagna, da Mondoperaio 4, aprile 2010
24 maggio 2010
Nella valutazione dei risultati di elezioni di medio termine nei vari paesi gli osservatori tendono generalmente ad assumere come punto di riferimento relativo alla valutazione dei motivi di comportamento elettorale o il giudizio sulla gestione del governo in carica, oppure una relazione con eventi di ampia portata. Per gli eventi elettorali di questi anni è piuttosto generale il riferimento alla crisi economica mondiale: si è detto per lo più che di fronte alla crisi gli elettori tenderebbero a votare preferibilmente per chi sembra dare maggiore affidamento di governabilità.
Il che non escluderebbe, comunque, che con l’avanzare della crisi e dei suoi effetti, gli elettori possano essere progressivamente influenzati dal giudizio sulle capacità del loro governo di fronteggiare o meno, con misure appropriate ed efficaci, gli effetti della crisi stessa.
Possiamo assumere questo rapporto con la crisi come punto di riferimento per la valutazione degli esiti elettorali della consultazione regionale e amministrativa del 28-29 marzo scorso? Lo avevamo già fatto, a suo tempo, per le elezioni europee del 2009, di fronte alle quali l’elettorato italiano agì sicuramente sulla base di una valutazione che considerava più rassicurante e attendibile il compatto governo di centrodestra anziché la coalizione dispersiva e insicura del centrosinistra. I mesi che separano la nuova consultazione da quella hanno certamente portato con sé la maturazione della crisi, il dispiegarsi dei suoi effetti e la formazione di opinioni relative al comportamento del governo nel fronteggiare quegli effetti: la disoccupazione è cresciuta, le difficoltà aziendali si sono aggravate, non pochi dissesti economici si sono manifestati, e la situazione della finanza pubblica è peggiorata.
A suo tempo ci capitò di dire che gli oppositori politici del governo in carica non potevano certamente augurarsi che la crisi si aggravasse al punto da mettere il governo in difficoltà drammatiche, perché il dramma sarebbe stato il dramma stesso del paese. Neanche oggi siamo arrivati a questo punto, nonostante tutto, e dobbiamo ancora augurarci che non si arrivi a tanto. Il comportamento dell’elettorato alla fine del marzo 2010 non sembra contenere in ogni caso giudizi di tipo drammatico. Si ha l’impressione che la maggior parte dell’elettorato italiano – a differenza, per esempio, di quello francese - continui a considerarsi meglio difeso dagli effetti della crisi da un governo di destra di tipo rassicurante, e che quindi non abbia ancora intenzione di “giudicare” il comportamento del governo di fronte alla crisi.
Alcuni osservatori ci fanno anche notare che soprattutto il partito leghista, nelle regioni a più fitta densità d’impresa, avrebbe saputo avvalersi abilmente delle manovre tremontiane di utilizzo del meccanismo degli ammortizzatori sociali. E’ un fatto, comunque, che le elezioni regionali e amministrative di fine marzo 2010 hanno sì recato qualche miglioramento relativo al centrosinistra rispetto alle precedenti elezioni europee, ma che sono state generalmente considerate, dall’una come dall’altra parte, una sconfitta: nella sinistra perché, nella sostanza, hanno deluso un’aspettativa che si era creata da questo lato; nella destra hanno dato conferma a quei timori che si erano accumulati.
Anche il fenomeno dell’assenteismo elettorale, considerevolmente cresciuto, non sembra possa essere giudicato come manifestazione di una stanchezza generica verso la politica. C’è, nell’assenteismo di questi tempi, qualcosa di attivo ed espressivo, come una polemica positiva nei confronti di una determinata politica e in favore di un’“altra” politica. Del resto le piazze delle manifestazioni sono affollate, le riunioni politiche sono numerose e lo share dei talk show è alto. Bisogna dunque stare molto attenti a non prendere fischi per fiaschi perché, appunto, gran parte dell’astensione dal voto è un’astensione “attiva”. Specialmente quella di sinistra.
Il sentimento che ha avuto il maggior peso nel determinare un risultato elettorale sostanzialmente favorevole alla destra piuttosto che alla sinistra, è ancora quello della paura. E’ un sentimento “a medio termine” e non meramente congiunturale. Il fenomeno dominante, nella realtà italiana, è ancora quello della trasformazione dell’Italia da paese d’emigrazione a paese d’immigrazione. In pochi anni gli italiani hanno visto arrivare fra loro ben quattro milioni e mezzo di stranieri: una cosa alla quale non erano minimamente preparati. Chi dice che questo sia un arricchimento e non un problema ha ragioni da vendere, ovviamente; ma ciò non toglie nulla al fatto che il fenomeno sia vissuto come uno choc dalla gran parte della popolazione: non capire questo è, su un altro versante di problemi, altrettanto grave che lasciarsi prendere da paure razziste.
Questo grande mutamento sociale che domina la realtà italiana sta praticamente al fondo sia del cambiamento degli equilibri fra destra e sinistra che degli stessi spostamenti interni dei due grandi schieramenti. A destra il fenomeno leghista, iniziato 20-30 anni fa, continua a crescere e non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente.
A sinistra, poi, appare quasi incredibile il fatto che non sia più aggettivabile nell’alveo della tradizione “socialista” la formazione politica più rappresentativa di quel campo, proprio come se la questione sociale del paese non abbia più le caratteristiche che erano state proprie di un intero secolo e più. E, nell’ordine del giorno della politica nazionale, sembra paradossalmente che una “questione settentrionale” abbia sostituito la “questione meridionale” che era pur stata per tanti decenni, sia pure senza grande successo, al centro dell’ordine del giorno della politica italiana.
L’identità della destra italiana, prima di questo recente risultato elettorale, pareva rappresentata dal berlusconismo, cioè da una singolare forma di populismo un po’ sudamericano. Non è affatto detto che questo modello non possa avere ancora fortuna, ma nel frattempo la formula leghista sembra improvvisamente avere addirittura delle possibilità di sopravvento. Tutti sono concordi nel dire, almeno, che la struttura politica del leghismo appare assai più solida e duratura di quella, per tanti aspetti molto improvvisata, del berlusconismo. La terza componente della destra (o se si preferisce del centrodestra), una componente-ombra, è rappresentata potenzialmente dall’incerta scelta politica dell’elettorato cattolico: un protagonista importantissimo della nostra vita politica, le cui incertezze sono sicuramente uno dei fattori fondamentali di quell’interminabile crisi italiana che stiamo vivendo dagli anni di Tangentopoli.
È difficile pronunciarsi, in questa situazione, sulle prospettive della sinistra.
Nell’idea, che pareva prevalente al tramonto della cosiddetta “prima Repubblica”, di una fisionomia bipolare se non proprio bipartitica del sistema politico, era implicita la convinzione che la sinistra, o il centrosinistra, fosse un sicuro partito (o coalizione) di governo in organica e strutturale capacità d’alternanza con lo schieramento opposto.
La cosa che più colpisce, nella crisi che sta attraversando attualmente il sistema politico italiano, è invece proprio il fatto che si stia formando addirittura il dubbio sull’esistenza di un’identità per questa alternativa strutturale. E questa è certamente una cosa pericolosissima per la democrazia stessa di questo paese. Sembra giunta al pettine l’inconsistenza di quel travaglio catto-berlingueriano che era sfociato nella singolare formula del partito “democratico”, un’aggettivazione praticamente sconosciuta all’area politica europea e che difficilmente poteva richiamarsi al troppo diverso mondo politico statunitense.
(Mi viene sempre in mente, quando sento nominare il “partito democratico” l’esclamazione di un caro amico comunista: “Io non voglio finire demo-sinistro!”).
La costruzione della identità del partito di sinistra, centrale per un sistema politico bipolare in Italia, è questione interamente aperta e non può essere risolta da una variante qualsiasi di fusione fra i protagonisti opposti della prima Repubblica. Sarebbe forse ora di cominciare a pensare, con un po’ di realismo, al modo di denominare e identificare anche in Italia quel tipo di formazione politica europea, che da noi non c’è mai stata: cioè un partito la cui definizione potrebbe essere quella di “laburista”, espressione, cioè del mondo del lavoro e delle aspirazioni di questo in quella forma complessa, più pragmatica che ideologica (ma non priva di questo afflato), che si è venuta storicamente formando nella variegata ricchezza del mondo politico europeo.
C’è, in Italia, un “welfare state” tutto da costruire e un “welfare state” tutto da restaurare: ce ne dovrebbe essere abbastanza per attirare e impegnare progressisti laici di buona volontà e cittadini religiosi capaci di rispettare le libertà di scelta degli altri.