LA SINISTRA ETÀ DELL'ORO, di Riccardo Nencini, dall’Avanti! della domenica N.7, 27 febbraio 2011
11 marzo 2011
Inizio da Fausto Bertinotti, che da tempo non percepivamo così attento ai destini della sinistra italiana. La sua convinzione nella necessità di un big bang, una deflagrazione come unica via per far nascere nuove idee e nuove coalizioni ci trova in parte concordi ed è la riprova che le alchimie antiberlusconiane tout court provocano più disastri che benefici.
Non possiamo dire che Silvio Berlusconi si sia rafforzato negli ultimi mesi (scende in Italia, sale nel mercato parlamentare), anzi ha dimostrato ampiamente di avere esaurito l’energia che lo ha reso protagonista (quasi) assoluto dell’ultimo quindicennio di storia italiana; ma, paradossalmente, nel momento di maggiore difficoltà emerge con altrettanta chiarezza che un’alternativa oggi, se c’è, è molto debole. Sto parlando di un’alternativa credibile e vincente, di un progetto per il futuro in cui gli italiani possano riconoscersi.
Dunque non è cosa fuori dal mondo che solo uno scossone, un terremoto che scomponga e ricomponga il quadro dell’attuale opposizione possa dare nuovo slancio a una coalizione che cerca un centro di gravità permanente.
I punti di contatto con Bertinotti, però, finiscono qui, perché l’ex leader comunista continua nell’errore che, dal ‘94 ad oggi, ha impedito al centrosinistra di accreditarsi davanti agli elettori come una credibile forza di governo. La malattia della sinistra è l’‘oltrismo’, il voler andare oltre senza mai fare i conti con la propria identità e la propria storia. Ciò ha impedito che si verificasse qualcosa di analogo a una Epinay, ovvero un momento di ricomposizione sotto un unico tetto dei riformisti.
Bertinotti, e tanti con lui, non parla mai di socialismo italiano; va oltre; parla confusamente e indistintamente di socialismo europeo, ma sposta la frontiera in una terra di nessuno. Lo schema di un partito di ispirazione social-liberale alleato con il cattolicesimo democratico è il nucleo di un progetto riformista di governo che i socialisti italiani già intravidero negli anni ‘80. Da lì in poi, con Tangentopoli e la fine del PSI, è iniziata una traversata nel deserto infinita, l’albero di Bertoldo.
Dobbiamo partire da un’idea di centrosinistra in grado di cambiare l’Italia e da valori che possano scaldare i cuori della gente, non da un’irritante guerra per la leadership di una nave senza timone e senza rotta. Il rischio, sempre più evidente, è che lo strumento delle primarie diventi un cappio al collo che pian piano si stringe.
Con l’unica eccezione degli Stati Uniti d’America, nelle grandi democrazie il leader che aspira al governo è colui che guida il partito più grande. Così è per un semplice assioma: sono i partiti a selezionare la classe dirigente, a formarla e a scegliere i migliori per la leadership. L’anomalia italiana si rinnova e ritarda il processo di modernizzazione di una sinistra che si domanda se deve allearsi con l’ex missino Gianfranco Fini o con il giacobino Antonio Di Pietro. Domande che farebbero rabbrividire qualsiasi progressista francese, inglese o tedesco da noi diventano temi in cima all’agenda.
Le domande a cui dobbiamo rispondere, invece, sono quelle dei precari senza possibilità di pianificare la propria vita oltre l’arco temporale di un anno, dei lavoratori costretti a misurarsi con più doveri e meno diritti, degli studenti che scendono in piazza con il pretesto di una riforma sbagliata, ma soprattutto contro partiti e istituzioni incapaci di ascoltare le loro ragioni.
In attesa dell’età dell’oro, c’è il rischio di perdere la fiducia dell’Italia migliore.