LA SAGRA DEL NON DETTO (E DEL NON PENSATO) NELLA SINISTRA ITALIANA di Alberto Benzoni da Il Riformista del 17 marzo 2012.
03 maggio 2012
C'è oggi nella sinistra italiana- e in particolare nel Pd- un certo imbarazzo nell’affrontare il tema “elezioni”. In una dimensione nazionale, questo atteggiamento è facilmente interpretabile. Ci sono difficoltà politiche irrisolte; a partire dalla definizione della piattaforma con cui ci si presenterà all’appuntamento del 2013, in un contesto in cui il vecchio collante antiberlusconiano non potrà più fungere da panacea universale e in cui non esiste un comune sentire rispetto allo stesso Monti (traghettatore “a tempo”? guida? o magari “alieno non identificabile”?). Ci sono le incertezze sul sistema di voto. E, per dirla tutta, ci sono i veleni sparsi, direttamente o indirettamente, sulla nostra democrazia dal populismo terrificante della Lega, dalle esercitazioni catastrofiste della sinistra parolaia e, più generale, dal discredito profuso a piene mani sui partiti, sul parlamento e sulla idea stessa di “classe politica”.
Il fatto è, però, che questo stesso imbarazzato silenzio circonda le manifestazioni della “sovranità popolare” in altri paesi europei. Parliamo della Grecia che, almeno in linea di principio (e qui i principi contano eccome! ) non è stata né poteva essere commissariata; e in cui le prossime elezioni rischiano di tradursi in una irrimediabile crisi sistemica.
Parliamo della Spagna in cui il conservatore Rajoy, in nome del mandato popolare appena ricevuto, si è affrettato ad annunciare di non essere in grado di rispettare le strategie di riduzione del deficit appena fissate dall’ “Europa”.
Parliamo dell’Irlanda che si appresta a sottoporre a referendum il “fiscal compact”. E, soprattutto, parliamo della Francia, dove la Merkel interviene (una prima in assoluto) a sostegno di Sarkozy e dove Hollande annuncia l’intenzione di rivedere gli accordi testé raggiunti.
Una Francia, sia detto per inciso, dove, comunque vadano le cose, esiste una larga maggioranza contraria al “modello europeo” così come è stato costruito nel corso dell’ultimo decennio. Una Francia il cui scontro politico è stato sempre seguito con attenzione, magari anche eccessiva, dalla sinistra italiana e che oggi, invece, è oggetto, appunto, di imbarazzato silenzio.
Politicamente, un atteggiamento comprensibile; e, se vogliamo, in qualche modo giustificabile. Ci si trova di fronte a rivendicazioni di sovranità nazionale, in qualche modo in contrasto con un progetto europeo non accettabile da gran parte dell’elettorato. E, allora, se non si può negare solidarietà a molti partiti fratelli che questo progetto dichiarano di voler modificare, non si può nemmeno schierarsi contro un’Europa che, da decenni, è diventata punto di riferimento obbligato dell’internazionalismo della nostra sinistra di governo. E, allora, meglio tacere. E aspettare gli eventi.
Siamo allora di fronte a una specie di sagra del “non detto”. Bersani, e i suoi amici cripto socialdemocratici, sostengono Hollande in nome della solidarietà Pse; ma si guardano bene dall’esporsi sulle sue proposte di politica economica (contribuendo così ad avallare l’idea che si tratti di pura propaganda). In quanto poi all’area veltroniana, il suo “euromontismo” incondizionato dovrebbe portarla a sostenere Sarkozy, ma si guarda bene dal farlo apertamente.
E, allora, il “non detto”, magari tatticamente giustificato, nasce, in definitiva, dal “non pensato”. E, in particolare dalla, volutamente, mancata riflessione sui rapporti tra Europa, stati sovrani e democrazia.
Ora, questa riflessione dovrebbe partire da una fotografia. E da una fotografia che, a differenza di quella di Vasto (che, dovunque la si collochi, nel cestino, nel cassetto, oppure sul muro, appartiene al contingente), segna e in modo permanente la storia di questi ultimi sessant’anni. Siamo agli inizi degli anni Cinquanta. E vediamo un piccolo gruppo di baldi giovani del movimento federalista intenti a rimuovere le barriere alla frontiera italo-francese. Ma anche dell’altro: ci sono i rappresentanti delle autorità dei due paesi che guardano compiaciuti all’operazione.
E, dunque: apparentemente un’Europa che nasce come movimento di popolo, contro il sistema delle sovranità nazionali; e, conseguentemente, un sistema che cresce in proporzione alla riduzione del ruolo degli stati. In realtà, una costruzione che, passo dopo passo, è stata realizzata attraverso il consenso degli stati; in una fotografia sempre aggiornata, in cui il ruolo del popolo è stato accantonato a garanzia della stabilità delle regole e delle istituzioni comuni; e che oggi, in modo apparentemente paradossale, attribuisce un ruolo sempre più rilevante ai governi nella costruzione dei percorsi futuri.
In tutto questo, attenzione, non ci sono stati complotti internazionali o manovre oscure contro la democrazia. Tutto è avvenuto alla luce del sole e seguendo la logica delle cose. Perché l’Europa che conosciamo (la più importante e riuscita costruzione politica della seconda metà del ventesimo secolo) non poteva realizzarsi se non attraverso la tutela delle sue regole e delle istituzioni dall’interferenza delle opinioni pubbliche nazionali; e perché un’Europa che oggi si appresta a diventare politica- e cioè espressione di un progetto, interno ed internazionale- non può che appoggiarsi, in questo faticoso passaggio, al concorso decisivo degli stati sovrani, unici titolari di una qualche legittimità democratica.
E questa Europa abbiamo, oggi, di fronte a noi: non quella “delle banche”, cara alla sinistra parolaia; ma nemmeno quella indiscussa e indistinta, anzi indiscussa perché indistinta, propria della vulgata della sinistra di governo. Un sistema in cui protagonisti della “cessione di sovranità” non sono gli organismi comunitari ma gli stessi governi nazionali destinati ad esserne vittime.
Di qui una serie di problemi e di non poco conto. Problemi, insieme, di linea politica e di legittimazione popolare. Nel quadro generale di un giuoco ancora a somma zero, in cui la diminuzione degli spazi della politica e della democrazia a livello nazionale appare ancora lungi dall’essere compensato da una loro affermazione a livello europeo.
Nel quadro dei rapporti tra Stati c’è poi, come sempre, chi è “più eguale degli altri”. E, per quanto ci riguarda, chi lo è di meno. Da una parte la Germania, intenta a costruire una unione a sua immagine e somiglianza. In un contesto in cui viene a godere di due grandi ulteriori vantaggi: quello di poter sottoporre i comportamenti altrui ad una costante verifica, in nome dei valori e dei principi che essa stessa ha formulato, senza nessuna richiesta di reciprocità; e, soprattutto, quello di poter far valere, in linea di principio e di fatto, e in ogni circostanza, i vincoli delle proprie istituzioni e della propria opinione pubblica. Con un comportamento che, se posto in atto da qualsiasi altro paese europeo (vedi proposta di referendum greco), verrebbe invece considerato come espressione di leggerezza politica poco meno che criminale.
Non che la Merkel condivida i rigurgiti della “Bild” e i relativi mali di pancia della pubblica opinione tedesca contro i meridionali “mangiapane a ufo”, o che faccia sue le perplessità dei banchieri ultraortodossi. Il fatto è però che può farli valere a sostegno dei suoi ripetuti “non possumus” in materia di modifiche delle regole di politica economica e finanziaria; mentre tale facoltà è negata, in linea di principio, ad altri. Si è insomma creata (senza che ce ne accorgessimo?) una sorta di compenetrazione/identificazione tra forza e virtù, tra prassi e principi; e contestualmente, tra debolezza e vizio, con pericolose ricadute in termini di legittimazione democratica. Ai due estremi, l’opinione pubblica tedesca, punto di riferimento insuperabile e quella dei paria mediterranei, non degna nemmeno di essere ascoltata.
Che fare allora? Il materiale prodotto dalla sinistra italiana è, allo stato, abbastanza irrilevante, se non peggio. Ci sono i cultori del catastrofismo da salotto, all’insegna dello slogan “oggi ad Atene, domani a Roma”. Ma c’è anche chi non riesce a sottrarsi ai dogmi di un europeismo tutto ideologico e che si affida a Monti perché faccia rientrare l’Italia nel “salotto buono”, così da mutarne atteggiamento e orientamenti in senso a noi favorevole (una ipotesi, questa, più corretta di quella dei catastrofisti; ma, almeno a parere di chi scrive, in buona parte inadeguata).
Naturalmente, “modificare i paradigmi” (ché di questo si tratta) è operazione complessa e difficile. Ma è un’operazione che, in ogni caso, si può impostare in termini corretti. In primo luogo misurandosi, senza complessi, con la realtà della Europa degli Stati; sino a rivendicare sino in fondo l’esercizio dei poteri che in materia istituzionale, economica e sociale (chi paga il prezzo della crisi? Quale Italia emergerà dopo il suo superamento?) appartengono a pieno titolo alla nostra sovranità. Per altro verso, introducendo, nel futuro processo di costruzione europea, quella dialettica democratica che oggi è praticamente assente.
Domani, trasformando le elezioni europee da vacuo sondaggio di opinione come sono oggi, in un confronto tra diverse posizioni politiche sul futuro dell’Unione. Oggi, più semplicemente, prestando un minimo di attenzione a quello che dice e promette di fare il compagno Hollande: una diversa politica economica in Francia e, soprattutto, una generale rinegoziazione degli accordi europei, sotto il segno della priorità alla crescita e allo sviluppo dell’occupazione.
E questo è uno dei tipici casi in cui l’onere della prova è tutto sulle spalle di chi questa attenzione non intenda prestare. Con argomenti, almeno sinora, inconsistenti. Perché il Nostro sarà anche Vecchio, a capo di un partito Vecchio, intellettualmente un po’ inconsistente, prodigo di promesse irrealizzabili e sentimentalmente girellone; ma potrebbe anche diventare il capo di uno Stato, come dire, di “importanza centrale”. E, allora, sarebbe il caso di offrirgli, da oggi, una qualche sponda; almeno per non dover continuare a oscillare penosamente tra l’ “euromontismo” incondizionato e il “valsusismo rivoluzionario”.