LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE CENT’ANNI DOPO di Francesco Bochicchio

01 novembre 2017

LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE CENT’ANNI DOPO di Francesco Bochicchio

Nell’89 con la caduta del mero di Berlino e nel ’91 con la caduta del regime sovietico il comunismo dell’Est si è dissolto. Sono caduti tutte le realtà ad esso riconducibili, tranne Cuba, che rappresenta una situazione particolare, la Cina, che in economia ha imposto il più ferreo capitalismo. e la Corea del Nord, che rappresenta una situazione inquietante.

E’ fallito in chiave economica, ma anche politica, realizzando un regime oppressivo e che ha trattato in modo deteriore proprio quei ceti deboli e lavorativi che voleva proteggere, a fronte di un’”elite” di privilegiati oppressiva e senza contrasti, se non interni per ragioni di potere. E’ un fallimento che va oltre la singola esperienza storica: è il fallimento di un modello se non  addirittura di un’idea. L’unico comunismo tuttora in forza è, come detto, quello cinese che tutto è tranne che comunista.

Ed allora occorre andare  alla rivoluzione d’ottobre, alla sua grandezza, unica al mondo, ed anche al suo fallimento. Della rivoluzione d’ottobre va riconosciuta la caratteristica principale, di un grande e geniale atto volontaristico, che ha realizzato l’utopia con l’autoritarismo e la tirannia.  La sinistra marxista aveva smesso da tempo, prima del crollo di fine Novecento, di credere nella stessa come modello. Per spiegare razionalmente la circostanza -per un marxista la Storia non ha mai torto, e Marx disse, pressappoco, “Noi consociamo una sola scienza, quella della Storia”, si è data la responsabilità (prima a Stalin, ma ciò è durato poco, senza per questo sostenere la continuità tra i due, come si vedrà “infra”. poi) a Lenin per preservare Marx e il marxismo, in un’ottica, scientificamente inammissibile se non addirittura deleteria, di creare una zona sacra intorno a Marx (Lucio Colletti) o indietreggiare di fronte all’autorità di Marx (Norberto Bobbio).

Lo scrivente, mai leninista ma “luxemburghiano” e della sinistra socialista, aveva sempre creduto in tale versione, volendo sostenere la possibilità di un marxismo diverso, ma ora deve fare autocritica e riconoscere che i vizi erano già tutti presenti in Marx, privo di una teoria politica e sostenitore di una teoria della rivoluzione volontaristica, in contrasto con il suo materialismo storico e  con la sua scienza dell’economia e con la sua a scienza sociale. Lenin si è posto quindi in termini di assoluta continuità rispetto alla parte meno vitale di Marx, quella politica, ma non rispetto a quella più vitale, sociale ed economica. Lo scrivente deve così, ad estremo malincuore, riconoscere che è riduttivo considerare Rosa la vera erede del marxismo escludendo Lenin dall’eredità. Il rapporto è più complesso, anche se è da respingere il tentativo di Lelio Basso, di trovare un contemperamento tra i due, con Rosa per la rivoluzione nel capitalismo avanzato e Lenin negli anelli deboli. Ma su ciò si rimanda ad “infra”.

Lenin, per realizzare la rivoluzione in anticipo rispetto a quanto emergente dalla realtà economico-sociale, rinnega i principi fondamentali del marxismo, in primo luogo realizzando la rivoluzione negli anelli più deboli del sistema e non nella parte quelli più avanzata, tanto è vero che Gramsci definisce la rivoluzione d’ottobre quale “una rivoluzione contro il Capitale”, per essere chiari non contro il capitale quale entità rappresentativa dei rapporti di produzione e così del capitalismo,  ma contro il Capitale scritto da Marx. In secondo luogo, ha realizzato la rivoluzione non dei soli operai, ma anche dei contadini e dei soldati un‘ottica chiaramente non classista: del resto nel suo capolavoro sull’imperialismo Lenin aveva evidenziato la mancanza di natura  rivoluzionaria della classe operaia nei Paesi capitalistici maturi, soprattutto per quanto riguarda l’aristocrazia operaia in grado di usufruire del beneficio da sfruttamento dei Paesi deboli.  Infine, realizzò le premesse per la rivoluzione in un solo Paese, a danno dell’internazionalismo: ciò non solo per ragioni contingenti, dovute all’accerchiamento dell’Unione Sovietica da parte dei Paesi capitalistici; ma anche perché Lenin, per attaccare il sistema negli anelli più deboli, sfruttò la prima guerra mondiale e la sua ottica di divisioni nazionali che avrebbero preso il posto delle divisioni di classe, come notò con grande acume Rosa Luxemburg, che, in polemica con Bernstein –il quale fu il vero artefice del voto favorevole della socialdemocrazia  al finanziamento dei crediti di guerra, gli disse che da allora  l’operaio tedesco non avrebbe più combattuto il padrone tedesco ma l’operaio francese, in virtù dei diverso colore della divisa (il concetto fu poi immortalato da Fabrizio De Andrè in “La guerra di Piero”). Con la prima guerra mondiale furono poste le condizioni per sostituire la lotta tra nazioni alla lotta di classe.

Lenin diede impulso così ad una socialismo nazionalista che avrebbe smentito la sua funzione: non fu solo realismo, per smussare gli estremi dell’internazionalismo come quello di Rosa che si oppose all’autonomia della Polonia proprio per la sua ortodossia internazionalista, ma fu tale da arrivare ad un’ottica completamente opposta, senza un correttivo, compatibile con l’internazionalismo, come quello di gli “Stati uniti socialisti d’Europa” di Otto Bauer e dell’austro-marxismo.  Il socialismo in un solo Paese fu poi realizzato definitivamente da Stalin ma anticipato da Lenin.

Il nesso con Stalin è complesso ed occorre respingere ogni lettura di continuità tra i due, lettura ormai purtroppo consolidata (esempio emblematico è rappresentato dalla ricostruzione storica del comunismo di Lenin e di Stalin ad opera di Andrea Graziosi), ma sono in molti –basti pensare, in via solo esemplificati8va,  agli scritti sul centenario apparse sul “Corriere della Sera” e sul “Sole 24 Ore”- ad accedere tale ricostruzione, con l’eccezione di chi è ancora leninista). Lenin era un sincero marxista che puntava alla rivoluzione proletaria, ma a causa della sua tendenza all’ineluttabilità rivoluzionaria ed a seguire il dettato politico marxista non esitò a bruciare le tappe.  Si sarebbe certamente accorto se non fosse morto nel ’24- delle disfunzioni e delle degenerazioni del sistema e del fallimento del modello  ed avrebbe tentato correttivi come con  la Nep ed anche inversioni di tendenza. Stalin, invece esaltò le disfunzioni senza distinguerle dalle  atrocità e realizzando un socialismo nazionale ed imperialistico rispondente alla sua vera indole.

La rivoluzione russa ha fallito in quanto il movimento operaio scelse la strada propria del capitale, il nazionalismo, di natura imperialista (sul nesso tra nazionalismo o ed imperialismo si rimanda ad altri scritti, che saranno a presto inseriti in un lavoro sistematico).

Fallito il modello e con esso fallita la rivoluzione, in quanto il modello russo spinse a non tentare soluzioni operaiste e gradualiste, il capitale ha vinto la sfida e, crollato il sistema sovietico ,ha tirato fuori il proprio volto  vero ed ha reso impossibile anche ogni ipotesi riformista: addirittura ha smantellato quelle conquiste sociali importanti che la socialdemocrazia pur non più marxista gli strappò sulla base dello spauracchio dell’URSS, addirittura fino a quando questi era ancora in piedi, sia pur come gigante di sola argilla.

La rivoluzione bolscevica, ruotante intorno al  tentativo fallito di Lenin, dimostra che Lenin è stato l’unico, in campo marxista, ad impostare il problema dell’autorità, irrinunciabile e non superabile con i soli rivolgimenti economico-sociali: se la tirannia è rovinosa e non porterà mai al socialismo, non per questo occorre dimenticare e trascurare che il capitale non consentirà mai soluzioni democratiche conflittuali e resisterà, anche con violenza o comunque in modo illecito,  nonostante la sua natura rovinosa.

L’autorità è necessaria  per incidere sugli aspetti sociali e può essere compatibile la democrazia.

Di Lenin rimangono la grandezza e la comprensione dell’autorità, essenziale per il socialismo ma anche per la democrazia.

Nell’avviarsi alla fase conclusiva, per tracciare un bilancio finale, la rivoluzione bolscevica, nonostante le tante disfunzioni, rappresentò un tentativo grandioso ed andava, almeno all’inizio,  appoggiato dai sinceri democratici ed in ogni caso dai sinceri democratici socialisti –come Rosa, e come, nonostante forme di “distinguo”, anche l’austro-marxismo, l’unica eccezione rilevante fu quella di Rudolf Hilerding-.

Ma, parafrasando Battisti, c’è “qualcosa che non scordo”, Kronstadt, vale a dire un tentativo consiliare di ribellione al bolscevismo, stroncato, nel sangue, da Lenin e Trotskij, per la precisione dal secondo con il beneplacito del primo.su ordini j.

Una recente lettura originale di Gramsci, fuori dall’asse con Togliatti ed anche da quello con Croce, ad opera di Noemi Ghetti, segna  una differenza profonda tra Gramsci e Lenin: il primo fu sincero nei suoi amori, anche in modo anticonformista, in un’ottica di continuità tra privato e pubblico, mentre Lenin si trincerò dietro al perbenismo, creando una censura tra i due momenti.

Evidente il confronto di Gramsci con Rosa che rifiuto di rifugiarsi a Zurigo nei moti di Berlino del ’19, pur da essa stessa considerati prematuri, votandosi alla morte per mano dei “Frei-korps”, gruppi di ex militari di estrema destra al servizio della socialdemocrazia.  Arthur Rosenberg, grande storico di Weimar, e grande ammiratore di Rosa, criticò tale scelta, in quanto un “leader”, secondo al sua concezione,  deve avere il coraggio di salvaguardarsi e di non sacrificarsi: ed infatti, la  sua scomparsa può avere conseguenze nefaste, come l’ebbe a Weimar, dove senza Rosa, unico  grande personaggio politico della sinistra,  il disastro  fu inevitabile.

Viene da concludere in modo amaro: con il modello di Lenin e seguendo le regole ferree della politica, si realizza una rivoluzione degenerata, seguendo il modello di Rosa e Gramsci non si fa la rivoluzione. Per sfuggire a tale conseguenza, non è sufficiente una sintesi, prendendo il meglio dell’uno e dell’altro modello. Il modello migliore è quello di Rosa non disposta, per fare la rivoluzione pur da lei perseguita fino in fondo, a quei grandi cedimenti fatti propri da Lenin, e che a differenza di Gramsci ha sempre mantenuto fermo il marxismo come scienza, con profonda diffidenza verso ogni lettura umanista

Il vero nodo è rappresentato dal vedere la rivoluzione non come atto od anche come azione ma come processo, e di non fondarla sulla conquista del potere, che al contrario deve venire esclusivamente come conseguenza di una trasformazione economico-sociale. Su tale aspetto, che è quello fondamentale, la scelta, univoca e senza condizioni,  è per il modello di Rosa, in cui  è profonda la differenza con Gramsci: in cui lo blocco storico e l’egemonia economico-sociale restano ricondotti ad una logica volontaristica e soggettiva, mentre in Rosa nessun cedimento vi è su tale punto, in quanto la scienza di classe è sempre legata all’idoneità delle forze produttive a sostituire  i rapporti sociali esistenti con altri che si pongano in termini di maggiore razionalità. Il momento soggettivo in Risa è fondamentale ma sempre in funzione di quello oggettivo.

Ovviamente inconciliabile è il modello di Rosa rispetto alla socialdemocrazia di Bernstein e Kautski, ll primo che rinunzio non solò alla rivoluzione ma anche alla lotta di classe, il secondo che non rinunziò mai alla rivoluzione ma solo in termini nominali, rimettendola ad un evoluzionismo senza rotture, in virtù della sola democrazia parlamentare.

Poi, è sul modello di Rosa, integrato, tra gli altri (non si possono dimenticare Bucharin, geniale correttore di Lenin, e i socialisti di sinistra italiani Riccardo Lombardi e Lelio Basso), dall’austromarxismo e da Hilferding -al momento in un’ottica gradualista per la verità non molto congeniale a Rosa- che si può e si deve inserire il realismo di Lenin, con la autonomia della rottura rivoluzionaria e dell’autorità  rispetto al momento economico-sociale, ovviamente in un’ottica democratica e non totalitaria.   


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