LA RICERCA DEL SENSO DEL POPOLO (DA UN PEZZO) PERDUTO di Paolo Borioni da “il Riformista” del 12 febbraio 2012.

14 marzo 2012

LA RICERCA DEL SENSO DEL POPOLO (DA UN PEZZO) PERDUTO di Paolo Borioni da “il Riformista” del 12 febbraio 2012.

Non c’è dubbio che l’avvenimento politico mondiale di questa prima parte dell’anno saranno le elezioni presidenziali francesi, a cui stiamo dedicando costante attenzione. Esce ora, non a caso, da Gallimard, un saggio che discute in modo profondo una delle principali questioni che la sinistra francese dovrà pure affrontare, se intende vincere e cambiare il corso d’Europa. La questione, recita il titolo, è ritrovare Le sens du peuple. Per l’autore, Laurent Bouvet, la gauche, per convincere, deve assolutamente ricalibrare la propria cultura politica riconsiderando in profondità che cosa ne è stato del suo rapporto con il popolo nell’ultimo trentennio.
Per riuscirci deve comprendere cosa, negli ultimi 30 anni, si sia guastato nella sintesi fra socialismo e etatisme repubblicano che aveva condotto alla grande vittoria del 1981. Quella della “rottura con il capitalismo”. Un guasto che ha portato i socialisti a perdere voto popolare ed operaio in favore dei populisti. Ovvero di Le Pen padre, e ora della sua erede e figlia, candidata di un Fronte Nazionale divenuto il primo partito operaio di Francia.
Nel 1981 il 70% circa della classe operaia-salariata votava per il Ps e il suo principale alleato il partito comunista di Marchais.
Nel 2002, quando al secondo turno andarono Chirac e appunto Le Pen, fra operai e altri salariati Jospin ottenne un misero 25%. Nonostante i comunisti fossero ormai già minimali. Di ciò si sono giovate a vario titolo le destre: Le Pen raccolse il 27% del voto operaio, e nel 2007, quando Sarkozy riuscì a rappresentare sia la destra populista/securitaria, sia quella neoliberale (come Berlusconi), il voto dei ceti meno abbienti ed istruiti lo sospinse alla vittoria. Ma soprattutto se ne è giovata l’astensione. E qui è chiaro che comprendere il populismo e i varchi ad esso lasciati dalla sinistra implica un ragionamento sulla democrazia, ovvero su quale democrazia la sinistra debba incarnare.
Perché astensione e voto populista delle classi popolari significano qualcosa di perspicuo: che le classi popolari si sentono escluse dall’offerta politica, e che a volte, con l’astensione, usano l’opzione di uscita, altre, col populismo, votano contro ciò che è comprensibilmente percepito come elitizzazione. L’esito di “uscita” è quanto il bipolarismo all’americana ha prodotto, e che solo Obama ha interrotto. Ma per motivi (“epidermicamente” potremmo dire) evidenti, e non replicabili. Nemmeno da Obama se non riformerà (come pare dall’ultimo discorso sullo stato dell’Unione) il capitalismo Usa. A poco servirebbero focus groups e isteria sondaggistica.
Su questo vanno riflettendo anche altri nei network del socialismo europeo. Il seppellimento della “terza via” vi sta avvenendo anche sui temi della distinzione e dell’autenticità socio-politica. Si racconta come Steve Jobs diffidasse delle ricerche di mercato per direzionare l’innovazione. Raccontava che il presidente Hayes, quando gli fu presentato da Bell il telefono, rispose: «Bella cosa, ma chi se ne vorrà mai servire?» Insomma, sondaggi e focus groups non possono scoprire granché di nuovo,e inducono la politica ad essere meramente reattiva, e non autentica. E' infatti ovvio che adattandosi ad ogni (presuntissima) suggestione “popolare” individuata, tramite marketing, partiti e leader non possono rappresentare un’identità politica credibile, e tantomeno fornire identità politica e obbiettivi di fondo ai rappresentati. La proposta populista è del resto anche questo: offrire identità forti laddove le élites lesinano quelle razionali (ma non perciò poco coinvolgenti).
La sinistra, allora, deve rimanere riformista, ma coerente con precisi interessi e valori fondamentali da rappresentare. Associabilissimi, peraltro, alle classi medie. Tanto più oggi che emerge inconfutabilmente l’insostenibilità dell’ideologia neoliberale. E si palesa la virtù economica (non solo morale) dell’uguaglianza, nonché della crescita programmata e regolata. Oggi l’elettorato si chiede, piuttosto, come mai chi più per sua stessa natura avrebbe dovuto impedire tutto questo (la socialdemocrazia) abbia passato il tempo a molestare con focus groups chi non poteva dire nulla in proposito. Se il socialismo europeo fosse invece in tempo tornato alla propria funzione storica oggi (proprio come i Verdi tedeschi quando l’esplosione di Fukushima ne ha illuminato la coerenza storica) sarebbe già pronto a determinare il cambio di fase. La ricetta proposta da Bouvet (più sovrastrutturale di quanto saremmo noi) è in tre concetti di cui il primo (narrazione) è inteso non come “spin”, ma come «un rapport intime et sincere entre ce qu’est le candidat (sa vie, sa carriere, les valeurs qu’il a toujours poitées) et ce qu’il propose».
Gli altri due concetti sono “la rappresentanza” (con al centro i ceti popolari e una politica redistributiva), e “l’incarnazione”, intesa come credibile consustanzialità, ampia/profonda con la Storia nazionale.
Bouvet, infatti, fa risalire il declino nel voto popolare al 1983, anno in cui la gauche abbandona la riforma del capitalismo e si converte a culture “liberali”, di generico “progressismo borghese” (come il Pds e il Pd del 1998). Ciò compromise la creatura teorica di Jean Jaures: l’idea di promuovere l’idea socialista attraverso uno Stato Repubblicano, quello Stato che nel 1981 nazionalizza per attuare la cogestione, e che opera appunto per quei presupposti del consenso democratico che sono crescita sostenibile, eguaglianza e piena occupazione. Il Mitterrand del 1981 era stato insomma la socialistizzazione di un repubblicanesimo più antico, quello che con l’azione dello Stato aveva un tempo recuperato (da second comer dello sviluppo) il ritardo dall’Impero britannico.
Lasciato senza difese di fronte ai mercati, Mitterrand nel 1983 arretra. Da allora la costruzione di Jaures, che con l’azione dello Stato aveva consentito al socialismo di equilibrare libertà e eguaglianza (la fraternità consegue) s’inclina forte verso la libertà: mercatistica, ma anche dei diritti individuali. La Republique comincia allora ad essere percepita distante dai ceti operai. Così, il Ps rappresenta i lavoratori del settore pubblico, certo, e specie gli insegnanti, che esercitano il lato formativo della missione repubblicana. Ma per il resto è intriso di libertà post-materiali incubate nel ‘68: vietato vietare, diffidenza per la democrazia strutturata, che avrebbe “tradito” nel Maggio in specie nello sciopero di Billancourt. O lascia spazio ad un ecologismo allora più “stile di vita”, e non ancora “industrializzazione verde”. E si occupa soprattutto di diritti individuali, azioni positive per le minoranze, difesa delle identità (ma non sociali!), differenze di genere, movimenti anti-razzisti. E narra un europeismo solo di trattati e lotta all’inflazione (a cui Fabius reagisce, schierandosi con il NO referendario del 2005, che vinse in Francia e Olanda).
Alcune cose ottime, altre assai meno. Ma che anche nel migliore dei casi non sedimentano da sole cultura politica distinta ed autentica, bensì causano centrismo del politicamente corretto ed esclusione popolare, o generica “radicalità” studentesca in qualche circostanza (una mal caduco, peraltro). Senza un uso socialista della Republique, che garantisca l’unione liberte-egalité, il Ps rimane indeterminato, non rappresenta interessi fondamentali, e lascia inascoltati i ceti popolari, disponibili così al populismo e all’astensione. E del resto l’azione contro la discriminazione (femminile ad esempio) vince solo sospinta da crescita e alta occupazione non precarizzante, l’unico elemento che rafforza davvero i ceti deboli e non garantiti.
Altrimenti le azioni positive funzionano solo per, poniamo, donne o immigrati ben posizionati. Con esito vieppiù negativo sulla mobilità sociale. Proprio quanto è avvenuto. In queste settimane rappresentanza (sociale) ed incarnazione (nazionale) sono aspetti cruciali per Hollande. Uno dei modi in cui il Ps ha trascurato “il proprio popolo” (del lavoro nella banlieu) cercandone un altro (quello cosmopolita “dei nuovi diritti” che abita in centro) è stato il culto di Maastricht. Delors con il suo Libro Bianco voleva rimediare, aggiungendo ai parametri un’azione pubblica forte per la crescita. Me fu sconfitto. Oggi Hollande sa che per vincere deve uscire dal “centrismo cosmopolita” e narrare un’Europa diversa, per riprendere il discorso del 1981 interrotto, perché solitariamente francese, nel 1983. E sbaglia chi cita fino alla noia i crediti di guerra del 1914 come limite invalicabilmente nazionale della socialdemocrazia. Oggi è infatti il rigore neoliberale a stroncare indecentemente ogni sovranità. Come sostiene Milward, l’Europa nacque come “salvataggio dello Stato-nazione”: comunità europee per la crescita che rendessero più margini alla politica negli Stati membri. Oggi Hollande attaccando l’austerità ideologica, e “Merkozy”, può vincere. Tanto più (l’ha dichiarato uno stretto collaboratore del presidente in carica) se la Kanzlerin continuerà a fare propaganda per Sarkozy.

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