LA REPUBBLICA DEI CACICCHI, di Giuseppe De Rita, da Mondoperaio 3-2010

30 aprile 2010

LA REPUBBLICA DEI CACICCHI, di Giuseppe De Rita, da Mondoperaio 3-2010

Che il vecchio sistema politico si stesse “sfarinando” lo disse una volta Rino Formica commentando l’ennesima crisi di governo. Trent’anni dopo sembra che si stia sfarinando anche il nuovo. I governi, per la verità, sono stabili, e le maggioranze solide. Ma il potere è talmente parcellizzato da sfuggire al controllo di qualsiasi leadership, carismatica o plebiscitaria che essa sia. Per cui oggi è la stessa nozione di politica che rischia di sfarinarsi.

Da quando, all’inizio degli anni ’90, si ruppe con fragore l’equilibrio politico ed istituzionale che ci aveva governato per i precedenti quarantacinque anni, si ruppero con altrettanto fragore i partiti che quell’equilibrio avevano creato e coltivato. Scomparvero i due grandi partiti della maggioranza di governo (DC e PSI), scomparvero i partiti piccoli ma significanti della stessa maggioranza (PRI, PSDI, PLI); si fece più fluida, nel consistente sfarinamento ideologico, la galassia dell’estrema sinistra; resistette solo il vecchio partito comunista attraverso chiare ed ambigue rivisitazioni.
Fecero il deserto e lo chiamarono “seconda repubblica”, avrebbe detto Tacito; ma l’ansia collettiva non era propensa a ragionare sulla crisi della politica come responsabilità di orientamento e governo della società; si concentrava piuttosto sul “deserto”, cioè sul vuoto lasciato dal venir meno dei fondamentali riferimenti politici. Ed allora tutti si misero a inventare nuovi partiti, o almeno nuove forme di partecipazione e organizzazione partitica: abbiamo avuto puri cambiamenti di nome (con l’illusione che dessero l’impressione del “nuovo”); abbiamo avuto partiti-azienda; abbiamo avuto partiti personali; abbiamo avuto scissioni e fusioni in un opaco giuoco di smontaggio e montaggio; abbiamo avuto partiti faticosamente preparati (si pensi alla lunga e articolata gestazione del PD) e partiti nati sul predellino di un’auto, quasi improvvisati (si ricordi la nascita del PDL); senza contare la straordinaria mobilità strutturale a sinistra (dalla Rosa nel Pugno a Sinistra Ecologia e Libertà). Se di qualcosa l’Italia è stata patria e laboratorio è proprio della sperimentazione accelerata, e forse disperata, di varie “forme-partito”.
Un tale fenomeno, peraltro, è avvenuto in presenza di una conclamata e superba vocazione bipolare e bipartitica, che avrebbe per natura dovuto promuovere una concentrazione della dinamica politica in due grandi schieramenti, se non addirittura in due grandi partiti. Il che sta a dimostrare che non è facile andar contro la realtà con un coraggioso primato della volontà politica: se la società è articolata e policentrica (nei suoi interessi reali come nelle sue correnti d’opinione) è molto difficile che poi essa si esprima in modo semplificato, concentrandosi sulla dinamica di due grandi partiti; e quando anche i grandi partiti ci fossero, i loro quadri intermedi giocano all’articolazione, con scissioni verso l’estremo ed ancor più con “cordate” interne.
Non c’è mai stato policentrismo della politica come ora che vige, a parole, il primato della concentrazione decisionale e organizzativa.
Ma come e dove tende ad esprimersi tale crescente policentrismo della politica, sotto la coltre dei partiti azienda e dei partiti personali? Devo rifarmi, per rispondere a questa domanda, a un mio recente articolo sul Corriere della Sera dove, riflettendo su cosa è successo nella preparazione delle prossime elezioni regionali, segnalavo che ci troviamo di fronte a “una inattesa novità: vincono i cacicchi, capi e capetti locali, quelli che lo sono già effettivamente e quelli che pensano di aver abbastanza carisma per diventarlo. I leaders nazionali abbozzano, visto che anche quando cercano di contrastarli con candidati alternativi devono battere in ritirata (capita a Bersani come a Berlusconi) rivelando una congenita debolezza delle opzioni centrali rispetto al potere espresso dalla periferia”.
Continuavo nel ragionamento dicendo che “non è una dinamica destinata a rientrare. Quando fra un anno le forze politiche cominceranno a pensare come presentarsi alle elezioni del 2013, si troveranno di fronte alla prospettiva di dover puntare più su una confederazione di leaders locali che su una compatta immagine e macchina di partito nazionale. Dovranno cioè costruire le loro macchine da guerra mettendo insieme governatori regionali forti, sindaci forti, battitori liberi forti (se farà scuola il caso Bonino). Certo una figura di riferimento unitario dovranno garantirsela (a sinistra devono trovarla, e a destra forse pure) ma sarà solo una figura di marchio, brand, logo: non sarà un capo-partito tradizionale; non potrà esercitare una leadership di vertice; avrà un potere più relazionale che gerarchico; gestirà un collettivo politico non un apparato organizzativo.
Servirà solo uno che ci metta la faccia e che sconti la frustrazione di non poter essere un comandante”.
Identità nazionale a rischio
Naturalmente un cambiamento così radicale della forma-partito, non essendoci un’altra onda di nuovismo, ha delle connessioni profonde con la realtà sociale ed anche istituzionale del paese:
- è anzitutto un cambiamento che dà sbocco politico ad un localismo che è stato per quattro decenni rampante sul piano economico e per due decenni aggressivo sul piano del movimento leghista, ma che non ha mai avuto la forza (e la cultura) per tentare una forte rappresentanza politica;
- è in secondo luogo un cambiamento che tende a creare (forse con non consapevoli ambizioni) un nuovo orizzontale coagulo sociopolitico intermedio visto che non è possibile oggi ovviare alla crisi profonda dei tradizionali soggetti intermedi (partitici, categoriali, associativi);
- è in terzo luogo un cambiamento che è ispirato da (ed ispira) una precisa volontà di combattere la verticalizzazione e la concentrazione del potere politico: potrà cioè essere disinnescata la tentazione populista di far coesistere leadership personalizzata e moltitudine senza giunture.
Anche se non vanno trascurate le tentazioni al potere personale (di voto o di carisma) dei cacicchi odierni e futuri.
Si tratta quindi di un cambiamento non banale, che andrà seguito attentamente: dagli osservatori esterni, quale io sono, come dagli addetti ai lavori. Specialmente da questi ultimi, perché in esso si muovono tre dinamiche politiche precise, una operante sul piano organizzativo della nuova configurazione partitica; l’altra sul piano del suo significato istituzionale; e l’ultima sul piano dei pericoli per la complessiva identità nazionale.
Non c’è dubbio infatti che sul piano organizzativo la nuova configurazione partitica richiederà una struttura, più leggera che nel passato, che abbia un doppio ruolo: quello di sostenere la rete relazionale dei capi periferici, facendone il veicolo per le opportune convergenze programmatiche, nazionali e internazionali; e quello di elaborare linee di cultura collettiva (servono, anche nella generalizzata crisi delle ideologie) in cui le realtà locali possano riconoscersi. E’ infatti nell’ordine delle cose che chi farà da riferimento unitario ai cacicchi locali (magari potrebbe essere addirittura uno di loro, come talvolta avviene negli USA) dovrà evitare di apparire troppo coinvolto dai radicamenti territoriali. Così come non c’è dubbio che sul piano istituzionale le varie vicende degli ultimi venti anni hanno fatto da detonatore di un passaggio davvero radicale: dal partito organico e totalizzante al partito nei fatti federale.
Per una delle sommerse ironie attraverso cui evolve spesso questo paese stiamo cioè facendo maturare non uno stato federale ma dei partiti confederali; e i secondi renderanno probabilmente superato il primo. Il che ha naturalmente un riflesso per ora ancora opaco sul problema della complessiva identità e unità nazionale: se si è visto un pericolo nell’articolazione federale dello Stato, quali più complessi pericoli possono corrersi con il tendenziale rampantismo di una confederazione di cacicchi?
Qualche dubbio, come si vede, è legittimo; ma è altrettanto legittimo prendere atto di quel che avviene. Troppe volte siamo portati a sottovalutare ciò che accade per favorire ciò che pensiamo e/o vogliamo; in questo caso, per le varie considerazioni che ho fin qui svolto, la tendenziale crescita di una forma-partito confederale è una prospettiva da non trascurare.
Potrebbe alla fine risultare un altro degli ennesimi esperimenti del laboratorio politico-partitico che siamo stati e siamo; ma il suo radicamento sul territorio non ne fa certo un ulteriore ripresentarsi del “nuovo che avanza”.

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