LA QUESTIONE SOCIALISTA E IL RIFORMISMO MILANESE – di Tomaso Greco da “il Riformista” del 20 ottobre 2006
17 novembre 2006
E' difficile a Milano ipotizzare una via riformista per una sinistra che non ha voluto fare i conti con il passato e allo stato attuale sembra reticente a farli anche con il futuro. Si è infatti recentemente concluso il valzer della segreteria milanese diessina, fotografando un dibattito avvitato sulla opinabile prospettiva riformista nel partito democratico. La tesi prevalente suona più o meno così “le culture tradizionali del riformismo milanese sono inadatte e incapaci di leggere le grandi trasformazioni economiche e sociali del capoluogo lombardo” il che è propedeutico a una “discontinuità per costruire una nuova identità democratica”. Un nuovo soggetto ha bisogno di nuovi interpreti, infatti all'ombra della quercia milanese è cresciuta una generazione di nuovi quadri che auspica fortemente la trasformazione in partito democratico. In realtà il passaggio tra il nuovo e il vecchio sembra più un avvicendamento anagrafico tra ex comunisti e post comunisti, stante il fatto che nessuno ha compiuto una severa analisi storica, soprattutto dell'atteggiamento ambiguo e forcaiolo tenuto nel biennio in cui contribuivano a consegnare la città alla Lega di Bossi e creavano una frattura non ancora sanata tra la sinistra e importanti settori della società milanese. Il partito democratico diventa così un annacquamento di vecchie identità mai riformate che giustifica la somministrazione della minestra allungata della liaison catto-comunista. In tutto questo c'è un fraintendimento imbarazzante sulla funzione stessa del riformismo ambrosiano. Se il loro riformismo significa moderatismo, genericismo buono per non scontentare nessuno e per non dover scegliere mai, se partito democratico si deve intendere come pragmatismo non strategico ma d'affari, dove enti pubblici acquistano e vendono azioni per esigenze che poco hanno a che vedere con servizi di pubblica utilità, ricorda più il laburismo inglese d'antan, quello delle nazionalizzazioni, che Tony Blair. In sostanza il problema non è solo quello di non aver fatto i conti con qualsivoglia socialismo milanese, che sia quello di Craxi, Tognoli, Aniasi o Lombardi, ma di non riuscire neppure a parlare di riformismo socialista, preferendo usare formule scorrette e un po' farsesche come “tradizione liberal-progressista” per riferirsi alle amministrazioni socialiste di Milano e ai loro innegabili risultati. I problemi hanno origini antiche e un'agenda attuale, sono gli stessi motivi che fecero optare i comunisti per la svolta democratica di sinistra anziché per la costruzione, con i socialisti, di un partito del socialismo democratico a vocazione maggioritaria, che furono determinanti, negli anni, per l'affossamento della candidatura, vincente, di Umberto Veronesi e che hanno contribuito pesantemente alla sconfitta di Bruno Ferrante. Sono gli stessi nodi irrisolti che spingono oggi a ipotizzare un partito democratico senza aver fatto i conti con il socialismo italiano e con quello europeo, perdendo l'opportunità di creare una casa comune per laici, socialisti e cristiano sociali che guardi a Londra, a Berlino, a Madrid piuttosto che a Orvieto. Gli spazi per aprire una discussione seria ci sono e passano necessariamente per quelle scelte qualitative che non hanno mai avuto il coraggio di fare. C'è da riconsiderare il rapporto lavoro-impresa nell'area metropolitana, affrontando con decisione la questione di un nuovo ruolo del sindacato, che dovrà necessariamente muoversi costruttivamente in un contesto di dinamicità e di nuovi diritti da tutelare. Altro tema a mio avviso strategico è la partecipazione dei cittadini alla politica, se è vero che la forma partito tradizionale è oggi inadeguata, vecchia e buona per pochi nostalgici, è altrettanto vero che un partito leggero, istituzionale, vale a dire “di eletti”, perde la funzione fondamentale di strumento di selezione di individui capaci di fare la politica e non di subirla. Concretizzando: un partito vero può vivere di meccanismi democratici, un partito di cartapesta, di facciata, non può, dovendo costantemente dipendere da valutazioni contingenti. Terzo punto, è necessario guardare al futuro. Una considerevole parte del tradizionale elettorato riformista milanese vota e ha votato la Casa delle Libertà, anche una consistente parte di dirigenti riformisti si è orientata, in varie forme e modi, verso quella collocazione. Il paradosso è che i riformisti, presenti sia di qua che di là, finiscono per non essere davvero incisivi da nessuna parte. Tutto il ciclo, ormai giunto all'autunno, della Seconda Repubblica, ha visto i riformisti e in particolare il socialisti riformisti in una posizione di subalternità, costretti al silenzio e marginalizzati. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta di rinunciare al mito dell'unità e dell'identità “contro” qualcuno o qualcosa, per delimitare con convinzione la proposta riformista e creare veramente una formazione capace di unire i riformisti e governare il cambiamento, un partito socialista e democratico come ovunque nel resto d'Europa. Rinunciare definitivamente al togliattismo significa rinunciare al brocardo Shmittiano per cui “il nemico del mio nemico è mio amico” e ripensare l'azione politica in termini costruttivi e di governo. Si tratta quindi di scartare la scelta di un matrimonio conservatore contraibile tra un partito democratico e cristiano in salsa ulivista e la sinistra demagico-movimentista. Bisogna avere il coraggio di scegliere guardando al rinnovato riformismo milanese (rinnovato e non nuovo perchè non c'è nulla da rinnegare o da cui segnare una discontinuità) e costruire un cartello di proposte che siano allo stesso tempo pragmatiche e strutturali, immediate e lungimiranti. E' altrimenti impensabile allargare il consenso da parte di una sinistra che deliberatamente tiene in ombra e quasi esorcizza la presenza socialista, che pure a Milano esiste non solo come testimonianza culturale, ma come presenza attiva, come dimostrato dal contributo determinante, tra gli altri, non solo quantitativamente al risultato della Lista Ferrante (seconda formazione della sinistra a Milano). Nel futuro la linea di divisione della politica non sarà auspicabilmente più tra chi sta con Berlusconi e chi viceversa non ci sta, quanto una più moderna e salutare divisione tra progressisti (liberalsocialisti) e conservatori (popolari). Scelgano loro dove meglio collocarsi.
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