LA POLITICA DEMOCRATICA SECONDO MACRON di Alberto Benzoni
03 aprile 2017
Siamo
nella primavera del 2012. Hollande, sta per vincere le elezioni presidenziali,
facendo il pieno dei voti di sinistra e circondato da grandi aspettative.
Quella del giovanissimo Macron vola molto in alto. Ed è quella che si ponga
mano, una volta per tutte, ad una sorta di rifondazione delle basi stesse della
politica democratica.
Finora, questa è stata del tutto incapace di guardare al futuro e di pensare, in modo nuovo e originale, alle grandi questioni del nostro tempo. Perché tutto la spinge verso il quotidiano, il particolare, l’interesse di breve periodo, l’annuncio, l’accumularsi di decisioni, spesso improvvide, in una risposta, quasi pavloviana, di fronte a contingenti stimoli esterni. Intorno ad essa il mondo cambia velocemente, senza controllo e con esiti imprevedibili e potenzialmente distruttivi. E la stessa democrazia rischia, se non trovasse le risposte adeguate, di essere la prima vittima del processo di cambiamento.
Macron
esamina questa realtà senza infingimenti. E le vie d’uscita che propone sono
tutt’altro che banali.Specie se le paragoniamo a quelle che segnano, proprio
nello stesso periodo, l’entrata in campo di Renzi.
Per dirla in sintesi, se quest’ultimo è, in tutto e per tutto, per la
“democrazia decidente” Macron sembra collocarsi sul versante esattamente
opposto. Quello della “democrazia coinvolgente”. Un modello che, curiosamente,
assomiglia molto più ad una “democrazia parlamentare realizzata” che ad una
“democrazia presidenziale”, anch’essa sviluppata sino alle sue estreme
conseguenze.
E allora niente “un leader, un popolo un programma”. Uno schema che favorisce l’annuncio, l’affastellarsi di decisioni contraddittorie dettate dalle esigenze del momento, le divisioni ed, ebbene sì, un pragmatismo senza principi. Semmai “un dibattito permanentemente acceso”; che è poi “la doppia virtù del parlamentarismo e della democrazia sociale” (quella dei corpi intermedi N.dA) e, soprattutto, il “ritorno dell’ideologia”; perché “ogni discorso politico non può essere un discorso tecnico che detta misure. Ma (deve rappresentare) “un’idea della società e della sua trasformazione”. In conclusione “responsabilità, deliberazione e ideologia”devono essere alla base di una “reivenzione” della politica democratica.
Questa
è, almeno la speranza che Macron nutre nella primavera del 2012. E che, come
dire, rassomiglia molto di più ai principi enunciati dai costituzionalisti
difensori del “no” nel referendum che a quelle dei sostenitori del disegno
renziano.
Nel concreto il Nostro non ha, invece, nulla a che fare con quel sistema che
allora propone di consrvare, aggiornandolo. E in tutti i sensi.
Non è un politico e, tanto meno, un’espressione del mondo dei partiti.
Piuttosto un rappresentante fatto e finito della tecnostruttura privata e
pubblica, giunto a soccorrere, nella qualità di ministro dell’economia la
presidenza Hollande, a garanzia della svolta liberista della seconda metà del
suo mandato. E fonderà, successivamente, il suo progetto di scalata alla
presidenza sulla contestazione esplicita di un “sistema dei partiti” con il
quale dichiara costantemente di non avere nulla a che fare (così le
valanghe di adesioni che gli verranno da parte dell’establishment socialista
saranno sempre considerate come adesioni a titolo individuale).
Allo stesso modo, è sì cultore dell’ideologia; ma su basi che rifiutano
esplicitamente la secolare divisione tra destra e sinistra. Nella sua ottica,
centrale, invece, la distinzione tra due visioni dello stato e della società
francese. Da una parte una nazione “sistema”, che si definisce per la sua
capacità di reggere la concorrenza internazionale nell’era della globalizzazione.
Dall’altra la nazione “comunità”, regolata dai principi di solidarietà e di
lotta alle disuguaglianze. Inutile, forse, sottolineare che, per l’attuale
candidato alla presidenza della repubblica la variabile indipendente è la
prima, magari integrata da qualche elemento della seconda.
Ci troviamo così di fronte a un’apparente contraddizione: il contestatore del
renzismo diciamo così teorico nel 2012 che porta, all’atto pratico, ai suoi
limiti estremi il disegno politico praticato, nel concreto dallo stesso Renzi.
Quest’ultimo, infatti, pur seguace della dottrina della rottamazione, si è,
almeno sinora, guardato dall’estenderla al discrimine destra sinistra e alla
attuale validità del sistema politico-partitico, passo invece compiuto
dal suo collega d’oltralpe.
Ci si
potrebbe obbiettare che, in ogni caso, il sistema esistente in Francia (come
altrove…) aveva comunque bisogno di uno choc, di una sfida esterna per
cambiare; e che Macron, la sua candidatura, il suo progetto di liberismo
compassionevole, il suo riferimento diretto alla società civile rappresentava,
appunto, questa sfida. Tanto se fossero accompagnate, come è molto probabile,
dalla sua elezione.
Personalmente nutriamo qualche dubbio in proposito. Primo perché il Grande
Disegno ammesso che ci sia, è stato favorito in modo decisivo da due eventi
traumatici quanto imprevisti, tali da mettere (temporaneamente?) fuori gioco i
protagonisti di sempre del confronto bipolare: la sinistra, segnata dalla
spaccatura verticale tra un gruppo dirigente sedotto da Macron e un popolo
tornato a fare quadrato a difesa dei principi e dei valori tradizionali; il
centro-destra classico distrutto dalle inchieste giudiziarie.
E, per altro verso perché la politica democratica ha bisogno di riflessioni
comuni e di consenso; mentre il futuro presidente rappresenterà una cultura
politica (quella del liberismo internazionalista) e un blocco sociale
fortemente minoritario; e in radicale contrasto con il sentire comune dei
francesi.
E forse, allora, il rinnovamento della politica, la sua capacità di aggregare e di guardare lontano non hanno bisogno, per maturare né di salvatori della patria né di choc esterni. Forse…
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