La pace unilaterale di Alberto Benzoni da La Gazzetta Politica del 21 maggio 2004

31 agosto 2004

La pace unilaterale  di Alberto Benzoni da La Gazzetta Politica del 21 maggio 2004

La linea del ritiro appartiene ai pacifisti che puntano a sgretolare la coalizione. Per la “sinistra di governo”, la proposta di ritiro si regge con argomenti insensati che sono in contrasto con la linea seguita nel passato Signor boia, per favore, ancora un attimino. È il sussurro disperato della Marchesa Du Barry davanti alla ghigliottina, nel 1794. Potrebbe essere, oggi, l’invocazione collettiva del Triciclo, davanti ad un’altra scadenza, attesa, anch’essa, con timor panico. Di quale scadenza si tratta? Apparentemente, quella della "svolta" in Iraq; da realizzare pena il ritiro del contingente italiano. Ma, se così fosse, il ruolo della povera Marchesa spetterebbe al governo di Silvio Berlusconi. Il quale, però, potrebbe legittimamente invocare una, sia pur breve, sospensione della sentenza (politica, s’intende, non giudiziaria…). "C’è un termine fissato nella risoluzione delle Nazioni Unite", potrebbe dire, "ed è il 30 giugno. E quella sarà l’occasione per verificare se la svolta c’è stata, o no. Che senso ha, allora, anticipare di continuo la data - fine giugno, metà giugno, addirittura 20 maggio - come fate voi dell’opposizione?" Il terrore del Triciclo Già: che senso ha? Nessuno, se ci riferiamo alla situazione irachena: dove la, necessaria, svolta deve essere valutata nel suo insieme e non può essere appesa a scadenze del tutto cervellotiche (perché mai il 20 maggio nel pomeriggio e non il 6 giugno a mezzogiorno?). Ma molto, moltissimo, se ci riferiamo alla nostra politica interna. È in questo quadro che la metafora del 1794 si ripropone pienamente. C’è il Triciclo, terrorizzato come la sventurata ex favorita di Luigi XV. C’è il procuratore-boia, nelle vesti del popolo pacifista. E c’è la scadenza-ghigliottina: in questo caso le prossime lezioni europee. Ma c’è anche, a differenza di allora, la possibilità di patteggiare con il boia: trasformando la temuta sentenza materiale (leggi, sconfitta elettorale) in sentenza morale (leggi, rinuncia alla propria posizione politica). Ed è, dunque, di fronte a questa alternativa che la lista di Romano Prodi ha cercato a lungo rinvii e dilazioni ("ancora una settimana, signori pacifisti"); ma per arrendersi, poi, negli ultimi secondi dell’incontro e cioè nell’ultimo tempo utile per evitare il linciaggio elettorale. E, allora, in parole povere, la scadenza del 20 maggio significa questo: è l’ultima data per chiedere il ritiro prima della sospensione dei lavori parlamentari. E questo ritiro verrà chiesto, contro il parere (ampiamente motivato) dei massimi dirigenti della lista, sapendo perfettamente che non verrà accordato; e, allora, con l’esclusivo obbiettivo di non esporsi agli ulteriori attacchi delle formazioni pacifiste. Risparmiamoci, a questo punto, le prevedibili indignazioni morali. Proclamare questo o quello a fini elettorali non è il massimo della politica; ma è stata, ed è tutt’ora, pratica costante. Né del resto l’attuale governo, la cui presenza in Iraq si colloca in una logica peggio che subalterna, del tutto passiva, è in condizioni di dare lezioni a chicchessia. Quello che ci preoccupa, piuttosto, è l’indigenza intellettuale della posizione assunta. A partire dal vero e proprio capovolgimento logico rispetto alle precedenti (sino all’altro giorno si minacciava il ritiro per ottenere la svolta; oggi si liquida la svolta per avere il ritiro). Intendiamoci; tutto si può sostenere. E, nel caso del ritiro, con eccellenti argomenti. Ma a condizione che questi siano coerenti con la propria linea, e cultura, politica. Così la linea del ritiro appartiene, non solo emotivamente, ma anche politicamente, ai no-global in particolare ed al popolo pacifista in generale. Per i primi, si tratta di una tappa importante nello sgretolamento e nella sconfitta della coalizione e degli Stati Uniti. Sconfitta che rappresenterebbe una battuta d’arresto per la logica imperiale della globalizzazione e della sua variante più aggressiva rappresentata dai neocon. Per i pacifisti "chiamarsi fuori" è, insieme, una condanna della guerra che determina solo disastri e una dichiarazione di "pace unilaterale" da parte del nostrio paese, nella sicurezza che verrà certamente contraccambiata. Per la "sinistra di governo", invece, la proposta di ritiro si regge con argomenti che non stanno in piedi; o che comunque sono in aperto contrasto con la linea che è stata seguita nel recente passato. La richiesta di una svolta Abbiamo sostenuto, se non promosso, l’intervento in Kosovo e in Afghanistan, diverso nelle circostanze ma non nel principio ispiratore rispetto a quello del marzo 2003; e, se abbiamo contestato quest’ultimo, non l’abbiamo fatto soltanto per ragioni di principio (mancato consenso dell’Onu); ma anche e soprattutto per ragioni di merito (giusto combattere il terrorismo, anche con la forza, e democratizzare il Medio Oriente, ma, a questo fine, la guerra all’Iraq sarà del tutto controproducente), ragioni, per inciso, ampiamente e drammaticamente confermate da quanto sta avvenendo. È in questa logica che si inserisce, dunque, la richiesta di svolta, sia pure con le ambiguità e le pericolose forzature in essa contenute (tipo affidare all’Onu la responsabilità per la sicurezza). E ora si molla improvvisamente la presa; proprio quando la svolta è all’ordine del giorno. E la si molla, sostenendo, con toni inutilmente burbanzosi (vero Rutelli?), che il cambiamento è impossibile: perché c’è la guerra (ma scatenata da chi?); perché gli americani sono stati restituiti dalla scoperta delle torture al tradizionale ruolo di cattivi; o addirittura (troppa grazia) per colpa di Berlusconi servo sciocco dei medesimi. Un atteggiamento che svilisce obbiettivamente le posizioni precedenti; che le fa apparire come un povero espediente per guadagnare tempo ("siamo anche noi per il ritiro, ma non subito"; insomma "ancora una settimana, signori pacifisti"). E apre, nel contempo, prospettive comunque disastrose; proprio nell’ottica di una sinistra di governo. I dirigenti della lista Prodi, guarda caso, si guardano bene dall’estendere agli americani ed agli inglesi l’invito al ritiro così pressantemente rivolto al contingente italiano. E si guardano bene dal farlo perché sanno benissimo che si tratta di una richiesta che non può avere corso. E perché sanno che, se così avvenisse, il ritiro generalizzato non solo aprirebbe la strada, in Iraq, alla guerra civile ed alla catastrofe, ma sarebbe anche percepito, in tutto il M.O. e nel mondo islamico, come una vittoria di bin Laden e dei fanatici islamici di ogni risma; e nella guerra da essi dichiarata all’Occidente ed ai regimi arabi esistenti. Per altro verso, il "chiamarsi fuori" dell’Italia accentuerebbe il carattere americano del conflitto, stortura che si era dichiarato di voler correggere. E con due possibili esiti. O con una stabilizzazione ragionevolmente democratica della situazione, con il concorso politico dell’Onu e della maggioranza, sinora ridotta al silenzio, degli iracheni e (soprattutto!) con la sconfitta militare degli islamofascisti alla bin Laden ed alla Sadr. Oppure con un caos sanguinoso e generalizzato che porti, alla lunga, gli stessi americani al disimpegno. Dobbiamo chiedere... Nel primo caso, a vincere saranno l’amministrazione Bush ed i suoi alleati. Nel secondo, quanto c’è di peggio nel mondo islamico. Nell’un caso e nell’altro, a perdere saranno l’Europa e le forze democratiche. Considerazioni ovvie. E persino banali. Sicuramente presenti a tutti i leader della lista Prodi. Non a caso (quasi) tutti subiscono la richiesta di chiamarsi fuori come una necessità. Ma, al tempo stesso, ammettono di non condividerla. A scoprire apertamente il giuoco è stato Il riformista. Quando ha affermato, in sintesi: "dobbiamo chiedere il ritiro; ma siamo ben contenti che la nostra richiesta venga respinta". Il "dobbiamo" non appartiene né all’etica della convinzione né a quella della responsabilità. Appartiene, piuttosto, all’aritmetica elettorale. Al timore di esporre il triciclo alla perdita ulteriore di consensi in direzione delle varie formazioni pacifiste. I sondaggi preoccupano. Siamo più vicini al 30% che al 35%. E questo rischia di bloccare la "spinta propulsiva" dell’operazione Prodi. Meglio, dunque, rinunciare alle proprie posizioni: si tratta di prendere il maggior numero possibile di voti, così da affrettare la crisi del centro-destra; dopo, si vedrà. Il paradosso è, dunque, questo. Quello di una aggregazione la cui ragione sociale è il riformismo. Ma che, per avere successo, vi rinuncia nel concreto. Oggi, nella questione internazionale; ieri e domani nella politica economica, sociale o ambientale. Colpa dei dirigenti? La sensazione è che il male sia più strutturale. E profondo. E che consista nel fatto che, a sinistra (della destra, meglio non parlare…) il riformismo è, ad un tempo, cultura fragile e debole e opzione politicamente minoritaria. Si tratta, naturalmente, di una condizione antica. Che gli attuali dirigenti hanno ereditato; e di cui, quindi, portano una relativa responsabilità. La loro colpa, semmai, è di non darsene carico. Di finger di ignorarla. Sino a presentare come soluzione miracolosa del problema una equivoca operazione elettoralistica - appunto, il Triciclo - che è, invece, una parte del problema stesso.

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