LA LEGALITÀ DI SCIASCIA NON ERA GIUSTIZIALISMO, di Luca Mastrantonio, da Il Riformista del 2 dicembre 2009
21 gennaio 2010
A distanza di settimane pubblichiamo un’interbusta di Macaluso sempre di grande attualità.
EMANUELE MACALUSO. L’ex senatore Pci sta scrivendo un libro sull’intellettuale siciliano: «È bene riproporre il suo pensiero, specie per la sinistra che oggi non ha più un’idea della giustizia e delega all’Anm e a Di Pietro».
Siamo alla Città del libro di Lecce, a Campi salentina, cuore di quella Puglia dove nacque Carmelo Bene e dove Nichi Vendola sta cercando di non morire, politicamente. Macaluso passeggia tra gli stand in cerca di volumi su Sciascia.
In questi giorni impazza il dibattito su politica e giustizia, sui professionisti dell’antimafia. Temi e formule che ci rimandano a Sciascia.
A me interessa che Sciascia venga riproposto nel suo pensiero, non come simbolo, e dovrebbe farlo la sinistra, perché il problema che questa sinistra oggi ha è non avere un pensiero sulle questioni della giustizia.
La sinistra sembra agire per delega? Ai magistrati, agli scrittori come Saviano che addirittura qualcuno vorrebbe candidare.
Da un canto la sinistra delega all’associazione magistrati, qualche volta addirittura a Di Pietro,che è la negazione della giustizia, del giusto processo. Saviano è uno scrittore che rispetto moltissimo, ha fatto una battaglia di grande civiltà e spessore, con grande efficacia. Ma non bisogna cercare sempre questi simboli. Non voglio che Sciascia sia un simbolo, penso che bisogna andare nel suo pensiero, nella sua battaglia sulla giustizia e capirla: lui pose sempre, anche nella lotta alla mafia, come asse portante il rispetto della legge. Qualsiasi evasione a fin di bene, come si dice, è un aiuto che si dà alla mafia. Se tu dici che si evade la legge per combattere la mafia, la mafia poi usa questa diserzione. Questa è stata la battaglia di Sciascia.
E la polemica sui professionisti della politica?
Io difendo questo articolo. A parte il titolo, che fece il direttore del Corriere della sera. Si disse che attaccò Borsellino. Non era vero. Pose al Csm una questione: il Csm aveva promosso Borsellino procuratore in rapporto al suo impegno nei processi di mafia, scavalcando però quelli che avevano più anzianità di lui. È un criterio. Ma è un criterio che confutava il criterio sempre rispettato dal Csm: l’anzianità. Criterio che fu rispettato nei confronti di Falcone, che non diventò giudice istruttore di Palermo, perché gli preferirono uno che non aveva mai fatto un processo di mafia, Meli, ma era più anziano di lui. L’argomento di Sciascia era: “Badate, dovete essere coerenti, non si possono fare eccezioni, perché poi le eccezioni alle regole fanno di questo stato uno stato di eccezioni, non uno stato di diritto, e la mafia si combatte e si vince solo con lo stato di diritto, la fermezza della mafia”. In questo, Leonardo è stato maestro. Se lo stato devia da questa regola, allora non è più in grado di avere autorevolezza per combattere la mafia.
E con il terrorismo, c’è chi ha parlato di equidistanza per Sciascia.
C’è uno scritto in cui Sciascia dice: “Se c’è una persona contraria alle Br sono io”. Mi riferisco alla polemica con Amendola. Non è vero che Sciascia era equidistante tra lo stato e le Br. Si chiedeva: “Questo stato impigliato in tutte le questioni dei servizi segreti deviati, le stragi, … che autorevolezza ha per seguire la fermezza? ?” Io ero di opinione diversa dalla sua, lo sono ancora, ritengo che in ogni caso bisogna dare una sferzata. Però non si può considerare un cedimento suo. Non era un cedimento.
Un irrigidimento? Una forma integralista?
Sì, se lo stato non ha le carte in regola, non può fare nulla. Non c’è dubbio. Sulla legalità Sciascia era un integralista. Questa è la questione su cui sto lavorando nel libro.
Com’è che dall’integralismo vigilato di Sciascia siamo finiti al giustizialismo di oggi, di Di Pietro?
C’è stata un aderiva della sinistra…
E quando si è rotto l’ormeggio?
Prima di Tangentopoli… nel Pci questa questione è sempre stata contraddittoria. C’era una tradizione che aveva ereditato un po’ dallo stalinismo: il pugno il pugno di ferro… E c’era un’altra tradizione, quella che Causi aveva dato alla Sicilia. Causi era stato tanti anni in carcere, un grande siciliano… disse: “La lotta alla mafia va fatta con un aparola d’ordine chiara: né Mori né mafia.” Mori era il procuratore di ferro, che usò metodi durissimi. Questa linea significa legalità, affrontare la lotta alla mafia come lotta sociale, politica, culturale. Con la legge. Poi c’è invece uno stato un tralignamento di questa cultura del terrorismo politico, con le leggi speciali, il pugno di ferro negli anni del terrorismo mafioso. Sbagliando, secondo me.
Poi, c’è stata Tangentopoli.
Lì, secondo me, prevalse una linea di furbizia, di lotta politica deteriore… Avviene la deriva. Non è un caso che io sono stato aggredito quando scrivevo sul Manifesto a proposito del processo Andreotti. La federazione di Palermo mi attaccò dicendo che io obbiettivamente mi schieravano contro la procura e con la mafia, per la mafia… io li querelai e fecero una ritrattazione… Perché? Io avevo fatto il discorso al Senato sulla questione Sindona, sulle responsabilità politiche di Andreotti. Ma era una responsabilità della Democrazia cristiana, non solo diAndreotti. Era di Fanfani, di Gioia, di Lima che prima di essere andreottiano era fanfaniano. Anche Moro non ha maifatto un solo discorso sulla mafia in Sicilia. La Dc, nel blocco del’48, inglobò il sistema mafioso. Quindi le responsabilità di Andreotti c’erano, ma erano dentro un sistema. E allora tu devi fare lalotta politica sul sistema.
Oggi alla sbarra mediatica che fu di Andreotti c’è Berlusconi?
Berlusconi ha ereditato il blocco sociale e politico che era stato della Dc e di pezzi del partito socialista, di gruppi liberali…deviati. Lui ereditò non solo questo, evidentemente. Però quando un partito riesce ad avere il 100%dei parlamentari, come fu a Palermo, è chiaro che ha inglobato tutto il sistema. E quindi la battaglia anche qui ha dimensione politica. Si tratta di un blocco sociale, politico, dentro cui c’era la mafia. Un blocco ereditato da Berlusconi. Ma non puoi sostituire la battaglia politica e culturale con quella giudiziaria. Sarai sconfitto, se non sei in grado di fare un battaglia politica, sociale e culturale contro questo sistema, contro questo blocco sociale. Per questo bisogna tornare a Sciascia. E lo deve fare soprattutto la sinistra. Il libro a cui sto lavorando focalizza proprio sul rapporto tra Sciascia e il Pci, un rapporto travagliato, fatto di raffreddamenti e riscaldamenti, dalla sua candidatura all’elezione del ’75 al consiglio comunale di Palermo, fino alle dimissioni. Io ho conosciuto Leonardo Sciascia a Caltanissetta, nella cellula comunista, clandestina, e l’ho visto il giorno prima che morisse, a Palermo. Sciascia non fu mai un iscritto, dopo la Liberazione. E già nel suo racconto La morte di Stalin c’è la critica sui funzionari di partito. Nel ’79 si candida con i radicali e molti hanno scritto che era diventato anticomunista. Lui non è stato né comunista né anticomunista. È stato Leonardo Sciascia, con le sue posizioni e le sue opinioni, e la grande coerenza nel porre il rapporto tra la giustizia e la verità al centro del suo pensiero.