LA GUERRA DURERA’ ANNI di Alberto Benzoni del 9 aprile 2022
09 aprile 2022
A dirlo Stoltenberg, segretario generale della Nato. E il presidente americano Biden.
Allo stato, una esternazione individuale. Ma anche un auspicio.
Si contempla, insomma, in totale tranquillità, la prosecuzione, e nell’arco di anni, del conflitto in Ucraina, con tutte le catastrofiche conseguenze che ciò comporterà. Convinti che queste conseguenze possano essere tenute sotto controllo, e sopportate, dalla propria coalizione e senza particolari problemi; e che la prova si concluderà con la vittoria dell’Occidente e con la resa di Putin e della stessa Russia.
Alla base di questo convincimento la constatazione di un dato reale. E cioè del fatto che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia sia stata non soltanto un crimine ma un atto di pura follia. Tale da risultare del tutto incomprensibile, nei suoi scopi e nelle sue modalità, non solo all’opinione pubblica mondiale ma anche ai suoi stessi cittadini. E da tradursi, in questa prima fase, in una totale sconfitta: militare, politica e di immagine.
Si ipotizza, a questo punto, che questo processo di autodistruzione possa anzi debba proseguire in futuro: incapacità di prendere atto la propria sconfitta; inacerbirsi del conflitto e del suo contenuto distruttivo accompagnato da un rafforzamento continuo delle capacità offensive dell’esercito ucraino; sanzioni sempre più pesanti e insopportabili per il popolo russo; crescente isolamento del paese; e alla fine, anche se in forma non a caso del tutto imprecisata , la riproduzione, in una dimensione infinitamente più ampia, dell’operazione Kosovo. Con Putin nel ruolo di Milosevic.
Un disegno riproposto, in versione apocalittica, da Zhelensky: scioglimento dell’Onu per manifesta inutilità; messa alla gogna dei pusillanimi governi europei; armi offensive sempre più devastanti. E, alla fine, un nuovo processo di Norimberga, con la creazione di un Tribunale speciale da parte dei vincitori.
Un osservatore cinico potrebbe osservare che, a trarre vantaggio da questo scenario sarebbero soltanto gli Stati Uniti e la Nato: i primi perché senza sparare un colpo e correre alcun rischio, troncherebbero definitivamente i rapporti tra Europa e Russia, con noi al loro fianco e l’altra cancellata dal novero delle grandi potenze; la seconda, perché potrebbe dettare legge in materia di politica estera e di difesa.
Chi, come noi, fosse fedele alla cultura dell’internazionalismo socialista, potrebbe invece denunciare i disastri presenti e futuri, non solo umani e materiali, ma anche intellettuali e morali, legati alla pratica e alla cultura della violenza, in un clima di guerra permanente. Se, a poco più di due mesi dall’inizio del conflitto, siamo già, almeno in Italia, al “non possiamo permetterci fibrillazioni” dell’ottimo Fassino, il futuro che ci aspetta è quello del “credere e obbedire” di Mussolini buonanima. Ossia di vivere in un paese dove la politica, il conflitto e il dissenso sono sospesi sino a nuovo ordine minando così, i fondamenti stessi della democrazia liberale.
Chi, infine, fosse dotato soltanto del ben dell’intelletto giudicherebbe lo scenario sognato da Biden e Stoltenberg non solo gravido di pericoli ma anche altamente improbabile.
Improbabile, in primo luogo, perché presuppone che lo zar, oramai preda della sua follia, punti sull’invasione e l’assoggettamento dell’intera Ucraina, aumentando a dismisura l’intensità e la ferocia del conflitto. Mentre tutti i segnali annunciano che i russi si stanno muovendo verso Est, in vista del controllo dell’intero Donbass.
Improbabile perché lo stesso Zhelensky non potrebbe accettare che il suo popolo, uomini, donne, bambini, luoghi cari da sempre come simbolo dell’identità ucraina venga usato come cavia nella lotta tra Bene e Male, così cara al presidente americano. Certo, si potrebbe prendere in considerazione l’idea di far partire milioni e milioni di persone, di svuotare le città, per lasciare campo libero allo scontro tra gli eserciti. Ma sarebbe una scelta estrema; e comunque praticabile solo in una prospettiva a breve termine, segnata dalla vittoria di Kiev. Scenario, questo, del tutto irreale.
Improbabile perché l’ipotesi di un conflitto permanente si urterà e ben presto con l’ostilità o, comunque, con la non collaborazione, degli Altri. Leggi dei governi e magari anche dei popoli dell’America Latina, dell’Africa, del Medio oriente e dell’Asia. Inizialmente, con la non adesione al meccanismo sanzionatorio; in prospettiva con il sempre più diffuso rifiuto di sottostare alle ingiunzioni di Washington e con la conseguente messa in campo di meccanismi finanziari che non comportino l’uso del dollaro.
Improbabile, infine, nel suo assunto principale. Basato sulla convinzione che gli effetti del meccanismo del le sanzioni e delle contro sanzioni risultino, alla lunga, insopportabili per i russi ma non per gli europei. Mentre è vero esattamente il contrario. E per due fondamentali ragioni.
La prima attiene alla funzionalità stessa del sistema. Per gli americani, un vero e proprio mantra. Perché, a differenza dell’intervento militare diretto, colpisce l’Altro senza alcuna conseguenza negativa per se stessi. E perché corrisponde in pieno alla loro Missione: individuare i malvagi e colpirli. E non certo per redimerli; ma perché calvinisticamente parlando, irredimibili.
Nel concreto, peraltro, l’effetto delle sanzioni è stato quello di: accrescere a dismisura le sofferenze dei popoli; incarognire i loro governanti; e distruggere, economicamente e politicamente, l’altro ieri in Iraq, ieri in Libia. Libano, Siria, Iran e Afghanistan, oggi e domani in Russia, le “borghesie illuminate” esistenzialmente interessate all’apertura alla liberalizzazione delle loro società e all’apertura all’Occidente. Effetto reso ancora più pesante nel nostro caso, dove a finire sotto accusa non è solo Putin ma, più in generale, la Russia in quanto tale.
La seconda ha a che fare, con la reazione delle rispettive opinioni pubbliche. Quella russa, condizionata se non soffocata dal regime, avvezza per memoria storica ai sacrifici e comunque portata a schierarsi a fianco del suo leader se e in quanto oggetto, assieme a lui, di un’aggressione esterna. Le nostre che non potranno reggere a lungo all’impatto di una crisi economica e sociale e quindi politica di proporzioni devastanti e che l’Europa di Bruxelles non sarà in alcun modo in grado di affrontare in modo adeguato; mentre l’Europa emergente, quella baltica, la farà pagare, tutta intera, al nostro paese. E crisi cui i popoli occidentali reagiranno in modo scomposto e imprevedibile; ma comunque non consono alle aspettative di Stoltenberg e di Biden.
E qui dobbiamo fermarci. Perché, in data odierna, abbiamo sentito due esternazioni individuali. Voci dal sen fuggite. Mentre attendiamo le reazioni collettive dei paesi europei. E magari di quelli che, in sintonia con i loro popoli, hanno strettamente connesso la denuncia e la condanna dell’aggressore, la solidarietà con il popolo ucraino e l’urgenza di porre fine al conflitto. Con un accordo i cui possibili contorni - ritiro delle truppe, neutralità garantita, accantonamento della questione della Crimea e del Donbass - sono chiari a tutti.
Per loro, è il momento di agire. Se non ora, quando?
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