LA GUERRA DI DARIO E SILVIO, di Luca Ricolfi da La Stampa, 16 marzo 2009

07 aprile 2009

LA GUERRA DI DARIO E SILVIO, di Luca Ricolfi da La Stampa, 16 marzo 2009

A giudicare dai sondaggi, il segretario del partito democratico Dario Franceschini piace agli elettori del Pd e non dispiace al resto della popolazione. Secondo una recente indagine di Mannheimer la maggior parte dei sostenitori del Pd pensa che il nuovo leader abbia sufficiente carisma e che condurrà il partito in modo «del tutto diverso» dal suo predecessore, riuscendo così a portare nuovi consensi. E’ realistica questa immagine di una luna di miele fra il nuovo leader e l’elettorato del Pd? Secondo me sì, per almeno tre buoni motivi. Il primo è che, nonostante il suo volto sia ormai noto da qualche anno, Franceschini non è percepito come un vecchio notabile della sinistra, come accade invece a tutti quanti i politici di lungo corso dei Ds e della Margherita: Massimo D’Alema, Romano Prodi, Piero Fassino, Walter Veltroni, Francesco Rutelli, Anna Finocchiaro, Giuliano Amato, Rosy Bindi, Franco Marini, Pier Luigi Bersani, Livia Turco, Luciano Violante. Fino a cinque anni fa la stragrande maggioranza dei comuni cittadini non sapeva chi fosse Dario Franceschini, né conosceva il suo aspetto, quella faccia da bravo ragazzo che - a dispetto dei suoi 50 anni - aiuta a differenziarlo dal resto dell’establishment democratico, fatto di gente visibilmente corrosa dalle fatiche della politica. Il secondo motivo per cui Franceschini piace è che è veloce: decide, prende posizione, polemizza, è tagliente, non gira troppo a lungo intorno alle questioni. Adriano Celentano, inventore della dicotomia rock/lento, avrebbe detto di lui che è «rock»: tutto il contrario dello stile ellittico e sospensivo con cui da dieci anni i «lenti» leader democratici hanno affrontato (o meglio eluso) i nodi politici fondamentali della sinistra. Ma il motivo vero, il motivo più importante, per cui Franceschini piace è che ha cominciato a curare la più grave delle malattie della sinistra: il linguaggio oscuro, criptico, involuto, astratto, lontano dal senso comune. Franceschini usa parole che tutti possiamo capire, fa proposte di cui riusciamo a immaginare gli effetti, è quasi sempre concreto. Insomma si preoccupa innanzitutto di arrivare alle persone normali, e solo in seconda battuta di lanciare messaggi in codice agli addetti ai lavori. Sul piano della comunicazione, è il leader più simile a Berlusconi che la sinistra post-comunista abbia avuto finora, e proprio per questo funziona. Penso che ciò sia un bene, per l’Italia e per la sinistra: farsi capire, rivolgersi all’elettorato prima che al Palazzo è una virtù, indipendentemente dai motivi più o meno nobili per cui lo si fa. C’è un piccolo però, tuttavia. Per quel che abbiamo sentito in queste prime settimane, Franceschini assomiglia a Berlusconi anche da un altro punto di vista: la sua stella polare è il consenso, non la modernizzazione dell’Italia. Se osservate attentamente le azioni dei due leader, è piuttosto evidente che entrambi amano le mosse demagogiche o populiste, ed evitano accuratamente le scelte coraggiose, che farebbero bene al Paese ma potrebbero mettere a repentaglio la stabilità del governo o il potere dell’opposizione. È stata demagogica la soppressione integrale dell’Ici attuata dal governo, visto che i poveri erano già stati sgravati (da Prodi) e gli effetti sulla propensione al consumo non potevano che essere trascurabili. È demagogica la richiesta di Franceschini di aumentare l’aliquota Irpef per i redditi sopra i 120 mila euro, vista la modestia del relativo gettito e visto che la stragrande maggioranza dei redditi alti non vanno in dichiarazione, in quanto tassati alla fonte con aliquote decisamente convenienti, di gran lunga inferiori a quella massima (un punto opportunamente richiamato dal professor Uckmar giusto ieri sul Corriere della Sera). Ma ancor più delle scelte, sono significative le non scelte. Destra e sinistra hanno paura di liberalizzare i servizi pubblici locali, perché distruggerebbero decine di migliaia di poltrone negli enti locali. Il governo non vuole ammortizzatori sociali di carattere universalistico (assegno di disoccupazione automatico, per tutti i settori e tutti i contratti di lavoro) perché sa che uno strumento del genere ridurrebbe fortemente il potere discrezionale della politica. L’opposizione, per bocca di Franceschini, propone sì l’assegno di disoccupazione per tutti, ma rifiuta di coprirne i costi riformando le pensioni, una patata bollente che anche il governo non ha la minima intenzione di toccare sul serio. Visto da quest’altra angolatura, il nuovo corso di Franceschini appare assai meno nuovo di quanto poteva sembrare a prima vista. Certo, alcune idee meriterebbero di essere valutate attentamente, come l’abbinamento del referendum elettorale alle elezioni Europee, o la riduzione al 20% dell’anticipo Irpef di giugno. Ma complessivamente la direzione di marcia prevalente sembra riproporre schemi vecchiotti: visto che al centro non si riesce a sfondare, spostiamo il partito (un pochino) a sinistra per recuperare voti fra i delusi, i nostalgici di Prodi, i dipietristi arrabbiati, i laici doc, i girotondini, gli anti-berlusconiani in genere. Insomma, la priorità delle priorità è evitare che le Europee si trasformino in una Waterloo per il partito democratico, a costo di interrompere - per l’ennesima volta - il cammino riformista timidamente iniziato tanti anni fa. È una scelta sociologicamente comprensibile, perché basata sull’istinto di sopravvivenza da cui nessun apparato burocratico è immune, anche quando proclama ideali ben più alti della mera conservazione di sé stesso. Il dubbio, semmai, è se una scelta così conservatrice sia veramente efficace per salvare il Pd da un declino irreversibile. Pensare sempre, come Ds e Margherita hanno fatto negli ultimi anni, esclusivamente all’immediato futuro - le prossime elezioni, il prossimo congresso, le imminenti primarie, la stabilità di un governo amico - può rallentare il declino, ma forse non è il mezzo più adatto a invertire una tendenza. D’altronde, per invertire una tendenza, ci vorrebbero partiti vivi, in cui minoranze combattive lottano per affermare una nuova visione politica, per contrastare un gruppo dirigente, e infine per sostituirlo con una nuova élite. Se questo non accade, e in Italia non accade più da tempo in nessun partito, è inutile aspettarsi qualcosa di più di quello che il buon Franceschini sta facendo per il suo sfortunato partito. Se mai qualcosa di nuovo apparirà sotto il sole, con ogni probabilità verrà da fuori

Vai all'Archivio