LA FRANCIA BRUCIA. E NOI PURE - di Francesco Robiglio, 13 Novembre 2005

18 novembre 2005

LA FRANCIA BRUCIA. E NOI PURE - di Francesco Robiglio, 13 Novembre 2005

La Francia brucia. Qualcuno parla di Novembre francese, rievocando il Maggio francese. Nelle analisi emergono, con ripetizione, le denuncie di fallimento del modello francese di integrazione sociale; ci si sofferma anche sugli effetti del modello urbanistico francese; oppure si rievoca il tema dello scontro di civiltà. Eppure, c’è qualcosa di più importante e di più inquietante, che riguarda tutti noi europei e che si sintetizza nella domanda che tutti noi ci stiamo facendo in questi giorni: se tutto ciò possa succedere anche da noi. Noi italiani, tedeschi, o olandesi, o altro ancora. E da questo interrogativo ne discende un altro: perché è successo e perché potrebbe succedere anche in altri paesi dell’Europa continentale. In questi giorni, tutti i popoli europei, si sono scoperti in qualche modo francesi.

Non convincono le analisi che si focalizzano solo sul modello di integrazione e di welfare. Pur con le sue carenze e distorsioni, l’Europa continentale ha costruito in questi decenni modelli di welfare relativamente inclusivi, certamente più inclusivi di altri Paesi. L’Europa ha storicamente strutture di ripartizione della ricchezza più eque di molti altri Paesi. Eppure queste rivolte succedono qui; non succedono in Inghilterra o negli Stati Uniti, paesi con disuguaglianze più radicate, sistemi di protezione meno diffusi e inclusivi, pressioni inter-razziali ed etniche più forti.

Credo che la ragione per cui succede a Parigi, e noi europei continentali ci stiamo scoprendo tutti un po’ francesi, risieda nel male che colpisce la vecchia Europa: quello di essere un continente per l’appunto vecchio, che non cresce, che non dà prospettive; un continente bloccato e ripiegato su se stesso, arroccato nella difesa dello status quo, ancorché sempre più cosciente della sua inadeguatezza, e incapace di evolversi, di aprirsi alle opportunità che il mondo offre, e sta offrendo con modalità anche prorompenti, a milioni di persone in altri parti del mondo (si pensi all’Asia, all’America Latina, alla New Europe). Un continente in cui le opportunità sono poche, per pochi e sempre gli stessi.

Un continente in cui sembra più importante difendere privilegi anacronistici di pochi a spese di tanti (ogni Paese ha le sue Alitalia), che offrire nuovi spazi e nuove opportunità per molti di guardare al futuro con passione e speranza.
Perché per un’Alitalia salvata con 14 miliardi di euro di soldi dei contribuenti per 22mila posti di lavoro, si impedisce ad altri di fare una nuova Alitalia più bella, più nuova, più solida e con più prospettive. E questo succede in ogni settore della vita degli individui, per le cose piccole come per quelle grandi. Se le assunzioni “buone” sono governate da criteri di parentela, di clan o di clientelismo e non di merito, avremo sempre dei beurs.

Non che negli USA, o in Inghilterra, non ci siano ghetti, barriere e discriminazioni. Tutt’altro e più che da noi. Eppure, in questi ultimi 10 anni, questi Paesi hanno generato straordinaria crescita economica e milioni di nuovi posti di lavoro. Si è concretizzato e diffuso e radicato il valore della possibilità e delle opportunità per ciascun individuo, il mito della frontiera: sempre più cittadini hanno potuto avere e ricercarsi una propria frontiera, un proprio dream. USA e Inghilterra si sono dimostrati paesi più inclusivi della vecchia Europa, anche verso le minoranze: le percentuali di top managers, di politici, di alti funzionari dello Stato o di giornalisti di colore cresce stabilmente. Così come cresce tra la popolazione di colore il livello di reddito, di scolarizzazione e di possesso della casa; così come cresce il numero di matrimoni misti. Sono economie più aperte e più dinamiche dell’Europa continentale, quindi più inclusive e più integrate.

L’Europa appare oggi una terra in cui serpeggia, ma in Francia è anche esploso, un enorme conflitto: quello tra insiders e outsiders, tra chi gode di protezioni e sicurezze – alti salari, posti di lavoro garantiti, prospettive - e chi si vede negato l’accesso a questo sistema.

L’Italia è come la Francia: è un Paese bloccato da intrecci e interessi conservativi, corporativi e particolari, con una commistione tra politica e affari asfissiante, in cui chiunque innova o tenta di innovare, nel suo piccolo del quartiere o di un mercato nazionale o globale, ha contro tutto e tutti perchè tocca inevitabilmente interessi costituiti. In una situazione senza speranze, il primo anello a saltare è quello più debole. In Francia sono i beurs, da noi potrebbe essere qualcun altro. Potrebbero essere i milioni di giovani, delle periferie e non, che non si capacitano del fatto che, nonostante la crescita della ricchezza che vi è stata in questo Paese negli ultimi trent’anni, oggi essi si sentono, e sono, più poveri dei loro padri e guardano con preoccupazione e poca speranza al loro futuro. E se non fosse per la loro psicologia naturalmente meno aggressiva di quella maschile, potrebbero essere i milioni di donne che non possono lavorare perchè Stato e amministrazioni locali continuano a negare loro strutture di supporto adeguate per coniugare lavoro e maternità; oppure i milioni di donne che lavorano nelle nostre aziende con capacità e risultati e a cui sono negate carriera e realizzazione personale, appannaggio quasi esclusivo del pubblico maschile; o le decine migliaia di donne che in una democrazia rappresentativa non possono essere rappresentate nè rappresentanti, perchè la rappresentanza è ancora appannaggio maschile.

Per tutti questi motivi, la rivolta non si scatena tra coloro che premono alle nostre frontiere per partecipare, almeno in minima parte, del nostro benessere. I beurs delle banlieues parigine sono cittadini francesi da almeno due generazioni; così come sarebbero cittadini del loro Paese quelli che potrebbero rivoltarsi in un altro dei Paesi dell’Europa continentale. Una cittadinanza che, per molti di loro non ha più valore ed è fonte di paure. Non sono e non potranno essere, gli immigrati clandestini a rivoltarsi, perché per essi la priorità è quella di essere riconosciuti cittadini di una terra che rappresenta comunque per essi un nuova frontiera, un sogno o una speranza.

Di fronte a questa situazione, il compito della politica non è e non può essere solo quello di rafforzare e ripensare strutture e servizi sociali, modelli di integrazione tra centri e periferie urbane, o di controllo pubblico del territorio. In Europa soprattutto, il compito della politica è quello di permettere ai suoi cittadini di costruirsi e di coltivarsi opportunità, speranze, nuove frontiere. Occorre quindi una stagione di tagli di lacci e laccioli, una stagione in cui si recidono antiche radici e antichi privilegi. Una stagione di grandi libertà a tutti i livelli dell’organizzazione della vita degli individui, oltre che di strutture di welfare più adeguate; una stagione che permetta a questo continente di riprendere la via della crescita.

E bisogna fare in fretta: perché Parigi ha mostrato che ribellarsi è facile e possibile e gli atteggiamenti emulativi sono propri della gioventù. La Francia dovrà cambiare dopo questo Novembre parigino. E con essa, dovrà cambiare l’Europa. E’ meglio che cambi per la capacità e la lungimiranza dell’azione politica che per risposta ad una stagione di ferro e fuoco.

Deve essere compito primario della nascente Rosa nel Pugno dare spazio e ossigeno al nuovo, per tutti i cittadini e gli abitanti di questo Paese; non vedo chi altro potrebbe oggi considerare questa una sua missione politica, civile e storica senza dover fare drammatici conti con la propria attuale natura, con la propria storia e con i condizionamenti che ne discendono. Occorre quindi che ci facciamo carico di aprire una stagione di nuove libertà e di nuove speranze per tutti, come individui e come collettività: per sentirci tutti un po’ meno francesi, dopo questi giorni di rivolta, di paure e di repressione.

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