LA FINE DELLE ILLUSIONI di Gim Cassano

30 aprile 2018

LA FINE DELLE ILLUSIONI di Gim Cassano

A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, è iniziato ad a divenire evidente come gran parte delle tesi delle utopie “positive” (1) che avevano accompagnato l’evoluzione delle società industriali, cioè quelle riconducibili al pensiero liberale e liberaldemocratico, alla socialdemocrazia non antagonista, ed al solidarismo organicista e anticonflittuale di matrice cattolica, al di là delle premesse e delle intenzioni, sia stata rudemente smentita dalla constatazione di realtà sociali, politiche, economiche, ben differenti dalle speranze.

E come, almeno negli effetti sulla società e sulla vita politica, ne siano gravemente venute meno le potenzialità critiche e progressive e, con esse, la capacità di difendere e sviluppare nella società moderna quei concetti di libertà, di democrazia, di eguaglianza che, in definitiva, ne erano stati la prima ragion d’essere (2).

Più recentemente, i fatti finanziari ed economici dell’ultimo decennio hanno drammaticamente confermato queste constatazioni: la “mano invisibile del mercato”, lasciata a se stessa, si è rivelata tutto il contrario di un sistema capace di autoregolarsi senza produrre crisi che tornano a nuovo equilibrio solo dopo aver prodotto costi andati prevalentemente a gravare sui più deboli, e dalle quali i più forti riescono a trarre benefici, forse non immediati, ma a carattere strutturale e di lunga durata. Ed il cui superamento ha comunque sempre richiesto un ruolo attivo degli Stati, nel controllo dei mercati, o nel suo intervento quale consumatore o investitore (vedi la crisi di prezzi del 1873-1880, o la recessione avviata nel 1929).

Quasi ovunque, governi, parlamenti, istituzioni sopranazionali, non sono stati in grado di contrapporre azioni adeguate, se non a risolvere, almeno a contenere gli effetti più gravi di una crisi originata dall’incrocio tra una finanza incontrollata e la scarsità di domanda dovuta alla stagnazione dei redditi delle fasce inferiori della piramide sociale. Il rigore deflattivo prontamente adottato dai governi, o loro imposto, ha poi creato le condizioni per cui, in particolar modo nelle economie più deboli, la crisi sia venuta ad allungarsi ed a aggravarsi.

Debolezza concettuale ed acquiescenza all’ideologia dominante hanno fatto sì che non siano stati concepiti, neanche come eventualità da valutare, interventi che avrebbero potuto intaccare la presunta ortodossia, coscientemente ideologica, di politiche deflattive che pongono rigidi limiti alla sfera pubblica ed al welfare, contradditoriamente associate al liberismo negli affari economici e finanziari, sovente assistito da comode privatizzazioni o salvataggi.

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Note:

(1)-   Per “utopie positive, o negative”, intendo, con riferimento all’evoluzione della società industriale, sistemi di teoria e prassi politica che ammettano che il progresso economico, politico, sociale, in termini di migliori condizioni e maggiore estensione di libertà, di democrazia, di eguaglianza sia compatibile (utopia positiva) o incompatibile (utopia negativa) con le strutture capitalistiche che hanno determinato l’evoluzione della società industriale. Le utopie positive hanno così condotto ad indirizzi non comportanti la riforma radicale della società industriale, con la conseguenza della possibile integrazione con l’ideologia dominante, ove venga a perdersi l’iniziale spinta innovativa.  Dalle utopie negative, sono invece derivate scelte indirizzate alla trasformazione, non necessariamente rivoluzionaria, ma comunque radicale, della società industriale, alterandone modelli di funzionamento e rapporti di forza, col rischio di perdere la capacità propulsiva una volta che l’evoluzione della società industriale abbia determinato realtà economiche e sociali diverse da quelle che ne avevano determinato.

(2)-   Fenomeni quali la dispersione del socialismo francese, l’involuzione del FPD e dei liberali britannici, della socialdemocrazia tedesca, la “terza via” di T. Blair, la rivoluzione del sistema politico italiano con la barocca costruzione del PD e, più in generale, l’affermarsi di forze nazional-populiste ed apolitiche sostengono questa constatazione.

Ciò si è tradotto nella forte contrazione degli investimenti pubblici e nel limitare quanto più possibile la funzione redistributiva della fiscalità e della sfera pubblica in genere, sulla scorta di regole dettate da istituzioni sopranazionali condizionate dalle economie e dagli interessi più forti. Questi cercano l’eventuale superamento della crisi più nel miglioramento del tono degli affari e della finanza che nell’andamento generale della produzione e dell’occupazione, imponendo regole a loro protezione, che sovente contrastano con quella pari libertà di mercato cui pure dichiarano di ispirarsi (3).

Si è così imboccata una strada opposta a quella che aveva iniziato a mostrare efficacia nel contribuire a superare la crisi americana del ’29 e che, sviluppata in termini più completi e radicali, avviò il superamento delle difficoltà del dopoguerra in Europa e l’evoluzione verso forme di democrazia più avanzate. Si trattava di interventi ispirati ad un controllato deficit spending (4) di stampo tutt’altro che rivoluzionario, concepiti da liberali eretici eredi dell’empirismo britannico (5). Si vedeva nella piena occupazione una necessità non solo sociale, ma anche economica e, particolarmente in Europa, dove questi interventi furono attuati e portati a compimento dal labourismo e dalla socialdemocrazia, la premessa del Welfare moderno inteso come diritto di tutti.

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Note:

(3)-   Per citare un esempio di attualità, le recenti discussioni in sede europea sulla fragilità del sistema bancario italiano, appesantito da NPL in misura molto superiore (circa 16% dell’attivo, coperto per il 45% circa) alla media europea o ai dati delle banche tedesche (circa il 3,5% dell’attivo, coperto per il 37% circa) sono un ultimo esempio di doppiezza di regole e punti di vista. Si dimentica infatti che le banche tedesche detengono una massa enorme di derivati e di titoli “tossici” (circa il 20% dell’attivo, contro il 5% circa delle banche italiane), le cui regole di valutazione e contabilizzazione (impairment tests) sono molto elastiche. Mentre si punta il dito sui NPL e si stabiliscono criteri stringenti sul piano temporale e contabile per imporre ripatrimonializzazioni e cessioni a forte sconto dei NPL. Queste che verranno ad aggravare i bilanci delle banche italiane molto di quelli delle banche tedesche, e che si tradurranno in profitti per gli istituti finanziari acquirenti, prevalentemente nordeuropei, non si pone altrettanta attenzione sulla qualità dell’attivo del sistema bancario tedesco, esposto pesantemente a rischi di natura finanziaria.

Si dimentica poi che la bassa incidenza dei NPL sull’attivo delle banche tedesche è dovuta ai numerosi salvataggi di stato operati in loro favore nei primi anni della crisi finanziaria, di cui che le banche italiane, a quei tempi, non usufruirono.

(3)-   J.M. Keynes era un liberale, impegnato nel Liberal Party, pur essendo stato un severo critico del capitalismo dei suoi tempi; fu contrario alle clausole economiche del Trattato di Versailles, favorevole all’intervento pubblico finalizzato al raggiungimento del pieno impiego, avverso alle impostazioni deflazionistiche ed al gold standard, a proposito del quale ebbe vivaci contrasti cun Churchill.

W. Beveridge, deputato liberale ai Comuni nel 1944, e nel 1946 leader dei liberali alla Camera dei Lords, fu vicino alle teorie di riforma sociale della Fabian Society, ed ebbe stretti rapporti con i laburisti, il cui governo (1945) impostò le proprie politiche sociali e del lavoro sulle indicazioni del “Rapporto Beveridge”, redatto in piena guerra, nel 1942, e del successivo (1944) libro “Full employment in a free society”. Non è inutile osservare come il pensiero di due liberali eretici abbia trovato più credito nell’ambito della socialdemocrazia che in quello del liberalismo politico europeo, testimoniando il convergere della maggior parte di questo su posizioni conservatrici.

(4)-   Il New Deal, che fu fortemente improntato, oltre che alla nota politica di investimenti pubblici in funzione anticiclica e modernizzatrice, a concetti a quei tempi considerati come frutto di radicalismo o di socialismo (controllo federale sul sistema bancario, abbandono del gold standard, interventi sociali ed a favore dei disoccupati, tutela dei diritti sindacali, interventi sul mercato del lavoro, quali paga minima ed orario massimo, progressività fiscale) non seguì affatto criteri di deficit spending: il rapporto deficit-PIL rimase tra il 1934 ed il 1941 contenuto tra il 3 ed il 4%, ed il rapporto debito pubblico/PIL rimase, in quel periodo, costante (circa il 40% del PIL). Keynes sottolineò questo fatto, criticando parzialmente le politiche del “Brain Trust”, e sostenendo che, se queste erano state efiicaci nel contenere la crisi, non erano state sufficienti ad avviare la piena ripresa dell’economia USA. Questa, in effetti, arrivò tra il ’42 ed il ’44, dopo l’enorme impulso impresso, dal 1941 in avanti, dal deficit spending imposto dalla produzione bellica

Pur non essendo, in via di principio, messe in discussione le libertà individuali, i fondamenti sociali di una società aperta sono stati svuotati, in nome della libertà economica dei pochi, da crescenti diseguaglianze e dalle insicurezze e precarietà dei più, che vanificano, insieme alla mobilità sociale, le libertà di scelte e di comportamenti. Viene allora meno l’illusione liberale  che, una volta assicurata la parità giuridica delle condizioni di partenza, la già citata mano invisibile avrebbe assicurato, insieme ad un minimum di soddisfacimento dei bisogni, anche l’equo riconoscimento di meriti e capacità. Negli ultimi decenni, la piramide sociale si è invece allargata alla base e ristretta al vertice, formando un monte sulle cui pendici è sempre più difficile salire e dalle quali è sempre più facile scivolare giù, ma sul cui vertice, chi già vi sia trova facile permanere.

L’impotenza dei più nei confronti di concentrazioni di potere economico e politico che hanno monopolizzato senza alcun sostanziale controllo informazioni e conoscenze, e che determinano decisioni che, pur avendo rilevanza pubblica e generale, la presunzione di libertà di mercato colloca nella sfera del diritto privato, hanno intaccato nei fatti, se non in via di principio, anche le libertà del cittadino nella società e le premesse della democrazia.

E anche il socialismo di ispirazione marxista, utopia “negativa” dell’età industriale, ha perso molta della sua capacità propulsiva, pur essendone stato il principale motore ed acceleratore di trasformazioni in senso democratico e di riduzione delle diseguaglianze: in via diretta, a seguito della propria azione antagonista; ed  indirettamente, attraverso la critica e la diffusione di questioni ed idee nuove che hanno influenzato il pensiero liberaldemocratico e cattolico. E’ lecito supporre che questo indebolimento sia dipeso da almeno due concause.

Per un verso, il capitalismo industriale ha subito trasformazioni ed ha manifestato capacità di adattamento e di resistenza ben diverse e ben maggiori di quelle che erano state studiate e previste: fatto particolarmente significativo per un sistema di pensiero filosofico, sociologico, politico, impostato su una critica complessiva della storia umana sino all’avvento ed alla necessaria fine del capitalismo industriale.

Ma è anche venuto meno il punto di forza, il fulcro sul quale i movimenti socialisti avevano potuto avviare, verso la fine dell’800, le lotte per la democrazia e la giustizia sociale ed economica: il rapporto solido e diretto con una classe lavoratrice che già aveva iniziato a colmare le disomogeneità territoriali e di categoria, retaggio delle parcellizzazioni medievali; processo che peraltro questo rapporto tendeva ad accelerare.  Era un rapporto che si fondava sulla capacità di interpretarne ed unificarne le ragioni, razionalizzandole in criteri generali e traducendole in lotta politica e sociale, contribuendo sia allo sviluppo del nuovo, non notabilare, modo di far politica della prima fase dei partiti di massa, che allo sviluppo di una nuova cultura popolare, alternativa a quella ufficiale nei valori e nei canali di diffusione, della quale, malgrado tutto e per fortuna, non si sono perse ancora le tracce (5).

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Note:

(5)-   La nuova cultura popolare ha accompagnato e diffuso i contenuti delle rivendicazioni dei ceti subalterni, manifestandosi dalla Scozia alla Sicilia, in particolar modo in canti di protesta e di lavoro, trasmissibili oralmente, dai quali derivarono quelli delle trincee della Ia Guerra Mondiale e, ove questa operò, della Resistenza. Così furono proposte all’intera società  rappresentazioni efficaci del lavoro, della guerra, della lotta politica, del tutto alternative alle iconografie ufficiali  La vitalità e la concretezza di queste espressioni influenzarono profondamente, nella pittura, nel romanzo, nel teatro, nella saggistica e, più avanti, nel cinema, anche le forme tradizionali della trasmissione artistica e culturale.

A render facilmente percepibile e schematizzabile il concetto di due classi portatrici di culture ed ideologie diverse sotto ogni aspetto, avevano fortemente concorso fattori come l’addensarsi di grandi concentrazioni operaie, le crescenti solidarietà ed omogeneità, sia interne che reciproche, tra i due mondi del lavoro operaio e di quello contadino; e anche sull’altro versante, pur se più lentamente e con la presenza  di divergenze di interessi e di mentalità tra il mondo industriale e quello agrario, andava sviluppandosi l’omogeneità interna del mondo dei “padroni” e dei ceti loro prossimi. Soprattutto venivano colte le evidenti disparità negli stili di vita, alimentazione, salute, abbigliamento, cultura, che correva tra chi usava la carrozza e poi l’automobile e chi i piedi o la bicicletta, tra chi studiava e chi no, tra chi si curava e chi no, tra chi “contava” e chi no, tra chi in guerra era ufficiale e chi truppa.

La percezione bipolare, sostanzialmente perdurata nelle società industriali sino verso gli anni ’70 del ‘900, è andata indebolendosi per via dell’affermarsi della civiltà dei consumi e della conseguente diffusione, tramite la comunicazione di massa, di un conformismo acritico ed edonista e, guardando al mondo della produzione, per via della terziarizzazione e delle parcellizzazioni e divisioni delle attività produttive e del lavoro connesse alle trasformazioni tecnologiche e organizzative che hanno condotto all’avvento della società postindustriale.

La riorganizzazione globalizzata ed in senso finanziario di un capitalismo sempre più impersonale e fisicamente distante dal luogo di lavoro ha poi indebolito ulteriormente la percezione del confronto diretto, simmetrico, e potenzialmente paritario, tra capitale e lavoro, che le organizzazioni politiche e sindacali del lavoro avevano saputo costruire.  Il cervello dell’azienda si è spostato in luoghi remoti e non ha più, spesso, nomi, cognomi, facce, ma solo una o più sigle.

Parallelamente, sono emerse le nuove forme di disagio sociale, che non coincidono più in via esclusiva con le precedenti divisioni di classe e che nella loro sfiducia, debolezza e parcellizzazione non trovano, e spesso non cercano neanche, adeguati riferimenti politici e sindacali, interessando masse di precari, giovani diplomati e laureati, dipendenti dell’outsourcing, senza-lavoro di ogni età e livello, lower middle-class impoverita, anziani.

Si assiste così al paradosso che, mentre si è consolidata l’omogeneità culturale e di interessi di coloro che stanno al vertice, si sono prodotte crescenti  disarticolazioni e frammentazioni del mondo del lavoro ed in genere dei ceti subalterni; e le nuove precarietà, anziché determinare una maggior coesione, hanno ulteriormente approfondito queste frammentazioni.

Le forze di sinistra si sono trovate impreparate ad affrontare queste nuove realtà economiche e sociali,  tanto sul piano del radicamento sociale che su quello della capacità di risposta e della sintesi politico-culturale, aprendo la strada alla diffusione presso larga parte dei ceti subalterni di modelli culturali di stampo individualistico ed egotistico. 

Nella rassegnazione all’ideologia dominante, ed indebolitasi la percezione di una comunanza di interessi e di atteggiamenti culturali, resta la constatazione della subordinazione e del bisogno, e si fa strada la tentazione, come nell’età preindustriale, di tornare nuovamente ad individuare nei particolarismi, corporativi, di campanile, individuali, la possibile strada per cercare di emergere dalle difficoltà o per affermarsi.  Così si spiegano i consensi raccolti, in Europa come in America, da partiti e movimenti ispirati ad un populismo nazionalista o di campanile, o genericamente antisistema.

In tal modo, tra la fine del XX° e l’inizio del XXI° secolo, si è manifestato, per un verso, il crescente distacco tra le realtà economiche, politiche, sociali, e le proposizioni fiduciose in termini di libertà, democrazia, eguaglianza, di “utopie positive” che hanno smarrito le loro potenzialità riformatrici, decretando, in definitiva, la crisi del riformismo del XX° secolo. Lo stesso termine di “riformismo” è andato degradando verso un significato opposto a quello originario, venendo inteso non più come la messa in campo di politiche tendenti a rimuovere i fattori economici, sociali, giuridici di illibertà e diseguaglianza, ma come il semplice adattamento dell’organizzazione sociale alle forme di sviluppo economico in corso, considerate come condizioni ineludibili (6).

Per un altro verso, si è manifestata la crisi di un radicalismo di sinistra fortemente improntato al marxismo, che non è stato in grado di adeguare la propria azione al confronto critico con la modernità (7), di darvi risposte adeguate, e di costruire il proprio radicamento sociale, a differenza di quanto i primi partiti socialisti seppero avviare nella seconda metà del XIX° secolo.

E, mentre le politiche riformatrici venivano meno, e la sinistra iniziava a perder terreno, si determinava, alla metà degli anni ’70, l’avvio di una nuova fase che vedeva il rapido accrescersi delle diseguaglianze economiche, e che avrebbe direttamente condotto alla crisi del 2007 (8).

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Note:

(6)-   Ad esempio, basti il confronto tra il riformismo di Attlee e quello della “terza via” di Toni Blair, o tra quello italiano degli anni ’60 e ’70 e le “ riforme” di Berlusconi o di Renzi.

(7)-   Confrontarsi con la modernità non va inteso come un nuovismo acritico comportante la preventiva rinunzia ad atteggiamento critico nei confronti delle trasformazioni in atto e del mondo moderno, ma come la capacità di individuarvi e sviluppare quei fattori scientifici, tecnologici, culturali, di trasformazione sociale, che possono concorrere all’emancipazione dal bisogno, al miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita individuale e sociale, ad una più cosciente e larga partecipazione politica, alla riduzione delle differenze economiche e sociali.

(8)-   Tutti gli studi mostrano che fin verso gli anni ’70, i salari reali nell’Occidente industriale sono cresciuti di pari passo con gli incrementi della produttività (da 2 a 4 volte, a seconda dei Paesi, rispetto ai livelli di inizio ‘900), a partire da quel decennio, le due curve si le due curve si divaricano, e la produttività aumenta di circa 4 volte tra 1970 e 2000, mentre le retribuzioni reali sono rimaste sostanzialmente allineate al livello cui erano pervenute negli anni ’70. Il gap tra produttività crescente (e quindi maggiore offerta di beni) e retribuzioni (e quindi capacità di consumi) stagnanti non poteva esser risolto che con una crisi da sovraproduzione che avrebbe anticipato quella del 2007 o, come è stato, concedendo alle famiglie mutui e crediti facili. Se ciò ha consentito di posporre l’avvio della crisi a quando mutui e debiti non poterono più esser ripagati, la ha aggravata e resa sistemica, coinvolgendo i principali istituti bancari del pianeta, ed obbligando gli Stati ad intervenire.

Venuti a mancare contrasti ed alternative efficaci, ha trovato spazio ed andato sviluppandosi e consolidandosi il nuovo pensiero dominante che, penetrando in estesi settori della società (anche in buona parte del tradizionale radicamento delle forze di sinistra), è pervenuto ad improntare in termini ideologici la politica e la cultura dell’avvio del nuovo secolo. Sarebbe semplicistico definirlo tout-court come conservatorismo.

Si tratta di una visione tecnocratica ed aconflittuale, tendenzialmente organicistica che, mossa dalla visione dello sviluppo economico e sociale propria degli ambienti finanziari, è pervenuta a far imporre l’inversione della rotta seguita sin verso gli anni ’70 del secolo scorso.  Vi si indicano indirizzi liberisti nelle scelte pubbliche, che prescindono dagli effetti economici e sociali dell’esaltare e premiare le diseguaglianze, e che prescindono dalla possibilità non remota che questi stessi indirizzi possano, come è stato, determinare o facilitare crisi ed instabilità, viste come necessarie fasi di adattamento.
E, vedendo l’esercizio della democrazia rappresentativa come causa di incertezza e di inefficienza, vi si postula la limitazione e la circoscrizione della rappresentanza e, più in genere, il primato degli esecutivi sui parlamenti. Vi si riscontra una determinazione ideologica, quasi manichea, che imputa all’essenza stessa del settore pubblico, più che ai suoi malfunzionamenti o distorsioni, la fonte di ogni male, ed attribuisce invece al privato la ragione di ogni progresso.

Avviata negli aspetti teorici in ambienti dell’establishment accademico, e maturata nello stretto intreccio tra le tecnocrazie bancarie, della grande impresa, e degli organismi sopranazionali, la nuova ideologia si è sviluppata come vivace reazione al welfare ed alla democrazia sociale, visti come portatori di statalismo e come sopraffazione della politica sulle scelte individuali e sulla presunta razionalità economica di un mercato autoregolantesi.

Pressochè contemporaneamente, nelle società occidentali, ed a partire dalle classi medie urbane, si sono sviluppati nella cultura diffusa e nelle manifestazioni della vita di ogni giorno, nuovi atteggiamenti, dei quali lo yuppismo fu uno solo degli esempi; e, più in generale, si diffondevano i valori ed i comportamenti di una generazione che non aveva conosciuto la faticosa crescita del dopoguerra e le lotte e l’impegno civile e sociale che la percorsero, improntati al rifugio nel privato, al disinteresse nei confronti dell’impegno politico ed intellettuale, al mito del successo individuale misurato sul denaro, ampiamente diffusi dai mezzi di comunicazione ed in particolare dalle televisioni commerciali.

Ne erano poi espressione facili schematizzazioni, anche ampiamente divulgate e discusse, e penetrate entrate anche nel linguaggio di una politica divenuta rinunciataria, quali i concetti di “morte delle ideologie”, quello che la differenza tra destra e sinistra non abbia più senso, quello che la democrazia sia di per sé inefficiente ed un inutile inciampo sulla via del progresso, quello che scienza e tecnica siano neutrali.

Con la dissoluzione del blocco sovietico ed il venir meno, con la vittoria dei buoni, del bipolarismo ideologico buoni-cattivi, queste convinzioni si sono rafforzate, nei governi, nel mondo degli affari, nella politica e nella società.  Era passato il messaggio dell’avvento di una nuova era, seguita alla definitiva vittoria del capitalismo occidentale, nella quale ogni dibattito ideologico non avrebbe avuto più senso. E la vittoria dei buoni e la conseguente adozione del modello americano (non quello del 1776, né quello del New Deal, ma quello dell’establishment politico finanziario) avrebbero segnato la fine di ogni conflitto sociale e tra stati (9), con la prospettiva dell’ingresso delle economie ex-Comecon nel circuito finanziario internazionale, come oggetti di privatizzazioni ad opera della finanza occidentale o dei nuovi tycoons ex-sovietici.

E si è diffusa l’idea di un nuovo “enrichissez-vous” selettivo, non generale, che incrementa le distanze tra “upper middle-class”, in via di arricchimento e restringimento, e “lower”, in via di impoverimento ed allargamento (10).

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Note:

(9)-   I fatti si sono poi incaricati di dimostrare come conflitti e crisi internazionali non siano affatto venuti meno, e ne sia invece mutata la natura: allo scontro bipolare, sostanzialmente equilibrato, ed ideologico, ha fatto seguito una pluralità di scontri multipolari, dagli equilibri  incerti, e rivolti al controllo politico ed economico di aree strategiche.

(10)- La riduzione del potere d’acquisto della base della piramide sociale e l’impoverimento della lower middle class sono stati una causa primaria della crisi del 2007. Ma la lezione non è stata compresa, e le terapie adottate non hanno fatto che aggravarne durata ed effetti.

Questi concetti, riguardanti dall’alto i princìpi economici di conduzione della società e dal basso i comportamenti sociali, hanno pervaso, variamente, ma in termini comunque significativi, una politica fattasi debole, a prescindere dal colore politico originario di partiti politici divenuti sovente indistinguibili.

Classificare sulla scorta delle categorie politiche tradizionali la nuova ideologia non è cosa semplice, essendosi questa costituita, più che al fine di esprimere una propria visione del mondo (che pure esprime), per imporvi una linea di sviluppo non per la strada del dibattito pubblico e della democrazia politica, ma con la forza della presunta oggettività dei fatti. Ne fa parte la contrapposizione ideologica ai percorsi di democrazia sociale seguiti nell’Occidente industriale, poi interrotti dal reaganismo e dal thatcherismo sul versante conservatore e dalla “terza via” di Blair sull’altro versante.  E, se vi sono evidenti i caratteri liberisti ed individualistici, altrettanto certamente essa non si oppone solo alla socialdemocrazia, ma ripudia anche la liberaldemocrazia. 

E’ più facile individuarvi una peculiarità nella compresenza di atteggiamenti quali la spregiudicatezza, la debolezza di regole e controlli, la misura puramente finanziaria del successo, il venir meno del concetto di solidarietà, l’egoismo nazionale, di campanile, di razza, di categoria, l’indifferenza al dibattito culturale e la conseguente presunzione del primato di una tecnologia e di un’economia che si muovano secondo leggi proprie, che solo i nuovi chierici conoscono ed interpretano.

La visione della ricchezza e della povertà è di tipo luterano: la prima è il giusto compenso dei propri meriti, e la seconda l’equa punizione dei propri vizi, in conformità alla favola della formica e della cicala, sia che si tratti di stati (la formica tedesca e la cicala greca), o di gruppi sociali, o ancora di individui. Il modello di riferimento sociale è quello del tycoon finanziario; la politica è considerata come una sgradita necessità, e come un mezzo, non diretto a praticare “il governo del popolo, dal popolo, con il popolo” ma, se del caso, utilizzabile per proteggere e consolidare il privilegio, di stati, di gruppi, o di individui.

In termini di concetti politici, il carattere più evidente è quello di un liberismo ispirato dalla Scuola di Chicago. Questo si manifesta nell’avversione all’imposizione fiscale progressiva ereditata dal New Deal e dalla stagione laburista e socialdemocratica europea; nella messa in campo (più per ragioni ideologiche che per la convinzione di un’effettiva necessità), di politiche economiche deflazionistiche volte a punire i più deboli (anche in questo caso, è indifferente che si tratti di stati o di individui); ed ancora nello smantellare le politiche sociali ed il Welfare e nell’incentivare le privatizzazioni.

Ma del liberismo ci si dimentica rapidamente quando si tratti di trasferire attraverso le privatizzazioni oligopoli o monopoli dalla sfera pubblica al capitale finanziario privato, o quando si invochino dazi o protezioni: il vecchio principio del socializzare i costi e privatizzare i profitti, o meglio, le rendite, resta tuttora valido. Rispetto al conservatorismo ed al liberismo classici, sono stati rimossi, come freni inutili, la convinzione etica, il senso del dovere, della responsabilità, della tradizione: è molto difficile scorgere nei portatori della nuova ideologia, politici o finanzieri che siano, i discendenti di Churchill o di Einaudi. Ed ancora, la visione della vita democratica è quella di una democrazia limitata, non partecipativa, scarsamente rappresentativa, e finalizzata alla ratifica di decisioni prese da esecutivi vicini alla tecnocrazia dominante.

Il diffondersi di queste concezioni, il loro penetrare in larga parte degli schieramenti politici e dei gruppi dirigenti dei Paesi industrializzati, ha condotto a quel funzionamento monco della democrazia che Crouch ha efficacemente battezzato come postdemocrazia, che, in sistemi che mantengono le forme della democrazia, ha avuto premessa nella profonda involuzione dei partiti politici.

Questi hanno, quasi ovunque, esaurito la loro funzione di corpo sociale intermedio e di primo gradino della partecipazione e del funzionamento della democrazia politica, ritornando alle forme notabilari e leaderistiche ed a quella funzione di comitati elettorali che furono loro proprie prima dell’avvento dei moderni partiti di massa e dei partiti d’opinione. E, non a caso, quando le regole e le forme istituzionali esistenti si sono trovate a confliggere troppo apertamente con le necessità delle oligarchie tecnocratiche, si è arrivati al loro esplicito mutamento, come è avvenuto a più riprese in Italia, limitando la rappresentatività dei Parlamenti e rafforzando i poteri dell’esecutivo.  Si è così portato indietro il percorso della democrazia, indebolendo nella forma o nei fatti le funzioni ed i ruoli di quell’istituzione che esprime le pluralità di interessi e opinioni della totalità dei cittadini e che garantisce i diritti delle minoranze.

In conclusione, con l’affermarsi di un pensiero di matrice economica funzionale a riportare indietro gli equilibri nella società, che ha pesantemente condizionato le scelte della politica nazionale e sopranazionale, e con il contemporaneo diffondersi di nuovi modelli di comportamento sociale, si è affermata una nuova ideologia, e sono contemporaneamente venute meno le illusioni sia del pensiero riformista, che di quello tendenzialmente antagonista.

Lo scenario che si prospetta all’inizio di questo secolo è quello dell’evidente venir meno dei tre concetti di libertà, democrazia, eguaglianza, il cui svilupparsi, in fin dei conti, misura il progresso di una società. Se è vero che nessuna società potrà mai essere, sarà mai perfettamente libera, o  perfettamente egualitaria (e che, oltre che confliggere tra loro, nessuna di queste condizioni è auspicabile), e premesso che la democrazia perfetta è un’utopia, quello che differenzia una società aperta da una società chiusa è la presenza o meno di processi dinamici e conflittuali tali da sostenere, rafforzare ed estendere libertà, democrazia, eguaglianza. 

Oggi, dobbiamo constatare l’indebolirsi di tali processi; se è indubbio che le nostre società sono meno diseguali e più libere e che le nostre istituzioni consentono forme di democrazia più evolute di quanto non fosse possibile riscontrare all’inizio del secolo scorso, occorre riconoscere come, circa quaranta anni fa, abbia avuto inizio una fase di evidente arretramento.

Ove si intenda cercare di invertire queste tendenze, più che parlare di “ripartire da zero”, che è un’impossibilità logica e storica, occorrerebbe invece rimeditare la storia dell’età industriale, e riaggiornare i termini concettuali di un sistema di pensiero critico adeguato ai tempi. E, soprattutto, riprendere adeguate capacità di proposta alternativa sui fatti, che sono i motori della lotta nella società e nella politica. Non si parte da zero: nonostante le evidenti sconfitte, il fronte di coloro che ritengono necessarie azioni tali da evitare l’involuzione definitiva verso una società chiusa  nella quale i termini di libertà, democrazia, eguaglianza siano solo un ricordo, vede tuttora la presenza, anche se sovente frammentata e dispersa, di molte capacità e conoscenze specifiche, di vivaci contributi culturali, di esperienze settoriali, che occorre possano collegarsi e concretarsi in una coerenza di pensiero e di iniziative, tale da poter iniziare a mettere in moto una moderna Sinistra in grado di competere.

 

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