LA DUPLICE SFIDA DI BARACK OBAMA di Renzo Penna, da “Associazione Città Futura”
28 ottobre 2009
Nei giorni scorsi Barack Obama - un politico impegnato a realizzare il suo programma e meno disponibile a galleggiare sui sondaggi - si è recato nel cuore di Wall Street per catechizzare i banchieri a un anno esatto dalla bancarotta della Lehman: “C’è chi non ha imparato la lezione. C’è chi si ostina negli stessi comportamenti che ci portarono alla crisi. Chi lo fa mette in pericolo non solo se stesso ma l’intera nazione”. E ha esortato il Congresso a varare entro l’anno una grande riforma dei mercati. Regole che devono segnare una svolta per il capitalismo finanziario.
Mentre qui da noi, dopo averla negata, il governo sostiene che la crisi è finita, sottovaluta le ricadute su imprese e occupazione e si produce in proclami sulla ripresa dell’economia e la crescita dei consumi come se tutto potesse ripartire senza cambiare nulla.
La pensa diversamente Luciano Gallino che dalla crisi esplosa nel 2008 pensa si potrà stabilmente uscire soltanto con nuove forme di regolazione dell’economia. In uno dei suoi libri più recenti il professore di Torino si domanda chi governa l’economia del mondo e se dopo il 2008 si possa ancora sostenere che sono i mercati. Se prima della crisi di fronte a difficoltà e fallimenti prodotti dai mercati si sosteneva che era necessario ulteriormente de-regolarli, liberalizzarli, porli in condizioni di auto correggersi per rimediare ai propri insuccessi, oggi quel tipo di risposta appare molto meno convincente e in molti ritengono che i mercati finanziari, cui è delegato il governo dell’economia del mondo, dovrebbero, come minimo, essere totalmente ridisegnati. Impresa per nulla facile - da qui le difficoltà di Obama - perché coloro che dal governo dei mercati globali hanno tratto immensi vantaggi non solo in termini di potere economico, ma anche di potere politico, non hanno nessuna intenzione di cedere la loro posizione dominante. Per Gallino, che usa un termine da molti considerato superato, siamo in presenza di una “classe” capitalistica transnazionale i cui membri risiedono a Londra e a Washington, ma anche a Parigi e Milano, Berlino e Mosca, Shanghai e Nuova Delhi. Si incontrano regolarmente a Davos e sui superyacht di Montecarlo, hanno l’ufficio nelle torri di cristallo tipo New York e Francoforte e provvedono, tramite i media e i centri di ricerca da loro sponsorizzati a spiegare ai politici che cosa dovrebbero fare per salvare l’economia e la finanza che per primi hanno compromesso. Questa classe che non ha confini nazionali è composta da quattro gruppi principali: a) individui che dispongono di attivi finanziari da un milione di dollari a testa in su; b) esponenti del capitalismo familiare o nuovi imprenditori; c) alti dirigenti delle corporation transnazionali; d) dirigenti o menager dei diversi tipi di investitori istituzionali. La loro somma risulta composta da 9 - 10 milioni di persone che rappresentano la classe capitalistica transnazionale, la quale, se costituisce solo lo 0,15 della popolazione mondiale, nella sostanza governa l’economia del mondo e le sue decisioni finiscono per influenzare in maniera significativa la restante parte. L’affermazione che una classe sociale governi l’economia del mondo implica, secondo Gallino, che la medesima sia in condizione di agire come un soggetto unitario, cioè non sia soltanto una classe “in se”, ma sia una classe “per se”. Ed i suoi componenti sono coscienti di appartenervi e sentono di avere una solida base di interessi comuni. Nonostante che in ogni paese le destre, e non solo, e i loro intellettuali amano ripetere che le classi sociali non esistono, e meno che mai una classe dominante o governante, l’evidenza dei fatti dimostra senza alcun dubbio che la classe capitalistica sovranazionale rappresenta una realtà materialmente e ideologicamente operativa su scala globale.
Una tesi analoga è sostenuta da alcuni sociologi francesi secondo i quali la classe se era passata di moda è tornata ad esserlo proprio grazie alla borghesia contemporanea. Una divisione di classe più vicina all’Ancien régime che all’era post-rivoluzionaria. Siamo di fronte a un ritorno al passato.
Su questo stesso piano si muovono le analisi di Giorgio Ruffolo, uno dei pochissimi economisti che ha lucidamente previsto l’avvento della crisi, che ritiene esista un evidente nesso tra la crisi finanziaria e quella ambientale. Ambedue, infatti, nascono da un indebitamento. La crisi finanziaria è stata provocata dalla diffusione di falsi crediti, che non trovano riscontro nell’economia reale e non potevano quindi essere restituiti. Anche la crisi ecologica nasce da crediti fasulli che non possono essere restituiti: sono i danni irreversibili arrecati alla biosfera. Come conseguenza si esce dalla devastante crisi nella quale siamo sprofondati affrontando insieme e debellando sia le cause della crisi economica che dell’inquinamento e proponendo un nuovo modello di sviluppo. L’opposto di quello che ci propina il nostro governo e che ripetono quotidianamente i media quando si domandano quanto la crisi durerà, se è finita e su come far ripartire al più presto la crescita.
Anche secondo Ruffolo la globalizzazione, con la conseguente liberazione dei movimenti mondiali del capitale, ha portato con sé la finanziarizzazione dell’economia, un’enorme espansione del mercato finanziario e l’inversione del rapporto: dall’economia reale all’economia finanziaria, che era esistito fino alla metà del secolo scorso. In questo modo l’indebitamento per finanziare i consumi e non il risparmio è diventato il motore di quello che è stato definito turbocapitalismo, un capitalismo sfrenato che ha sostituito, a partire dagli anni ottanta, quello regolato degli anni cinquanta e sessanta. La crisi che stiamo attraversando ha dimostrato che questo capitalismo è insostenibile e che è indispensabile cambiare. Non si tratta di impedire la sviluppo dell’economia, ma di promuoverne uno nel quale il progresso si misura più sulla qualità che la quantità. Uno sviluppo sostenibile appunto, nel senso che ciò che cresce non è la quantità dei beni, ma la capacità per tutti di poterne godere.
Una sfida su entrambi i fronti: dell’economia e dell’ambiente, nella quale è impegnato il Presidente degli Stati Uniti e le resistenze che incontra dicono della importanza della posta che è in gioco: un modello di sviluppo più giusto e, insieme, compatibile con la natura, nell’interesse primo delle future generazioni.