LA DUCHESSA DI DEVONSHIRE E IL PRESIDENTE BONOMI di Alberto Benzoni del 20 giugno 2020
20 giugno 2020
Alla fine dell’ottocento, l’aristocrazia fondiaria inglese era sotto attacco. E non tanto per il dominio politico che esercitava nel partito conservatore, quanto per il suo vivere dispendioso e improduttivo (ed esentasse).
A questo attacco, la duchessa di Devonshire, uno dei suoi massimi esponenti, rispose per le rime. Ricordando che proprio questo vivere dispendioso dava lavoro a un’infinità di persone: domestici, lavoratori agricoli, artigiani, abitanti dei villaggi nella bella stagione; per non parlare delle loro residenze in città. Mentre non era affatto certo, anzi era altamente improbabile che lo stato destinatario di eventuali imposte le avrebbe utilizzate nel modo migliore. Di lì a poco, il liberale Lloyd George avrebbe "venduto politicamente” la nuova tassa sul reddito in infiammati comizi nei quartieri popolari di Londra.
A più di cent’anni data, gli argomenti della duchessa vengono riproposti, da un pulpito assai più grande e autorevole; e nel silenzio-assenso generale.
Come sappiamo, gli industriali sono per definizione “datori di lavoro”. E fin qui “nulla quaestio”. Il fatto è, però, che tendono sempre più ad interpretare il loro ruolo non come un dovere ma come una facoltà. E come una facoltà per il cui esercizio effettivo sia di loro pressoché esclusiva competenza fissare condizioni e modalità: soldi, senza pretendere contropartite o diritti di gestione o di controllo, agevolazioni fiscali, flessibilità, organizzazione e durata del lavoro, ambiente del lavoro, libertà di delocalizzare, soppressione di lacci e lacciuoli e via discorrendo. A loro la facoltà di “dare lavoro”, alle loro condizioni; per gli altri l’obbligo di lavorare e produrre possibilmente di più. E, per coloro che si sottraessero a questa responsabilità, la definizione di fannulloni; con la condanna politica e morale di “assistenzialismo” per coloro che intendessero venire loro incontro.
Naturalmente, i “datori di lavoro” non rivendicano nulla di più di quanto sia stato loro concesso nello stesso atto di nascita della prima repubblica e nei decenni successivi. A partire dai capitani coraggiosi e dai successivi salvatori della patria. A loro sono state affidate le sorti del paese; naturale chiedere tutte le garanzie per rispondere a questo grande compito.
A turbare queste meravigliose armonie, un solo piccolo problema. L’esistenza di una Costituzione in cui il lavoro è un diritto e sostenere i diritti dei più deboli un dovere. Per tutti.
E in un paese serio la Costituzione si applica. Oppure si cambia nelle forme prescritte.
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