LA DISTRUZIONE CREATIVA - di Tommaso Padoa Schioppa dal Corriere della Sera del 13 dicembre 2005
09 dicembre 2006
«Se noi avessimo difeso Kodak e Ford, la Microsoft sarebbe sorta non in America ma in un altro Paese», osservava qualche settimana fa un amico economista americano. Si limitava a ricordare quel carattere del mercato concorrenziale, che si chiama distruzione creativa. Carattere, a vero dire, non del solo mercato ma della vita stessa. «Muori e diventa» (stirb und werde) dice un verso di Goethe; per non ricordare il passaggio delle Scritture sulla necessità che il seme muoia perché la pianta nasca. In astratto è una legge che conosciamo, ma ogni giorno vediamo quanto sia difficile accettarla per la nostra impresa, il nostro posto di lavoro.
L'economia italiana non riprenderà vigore senza un combinarsi di costruzione e distruzione: imprese o settori che declinano e scompaiono, altri che nascono e prosperano. Le periodiche statistiche de Il Sole 24 Ore mostrano che mobile, scarpa, macchine utensili crescono in certe regioni o distretti, calano in altri. L'impresa più capace di indovinare il prodotto che piacerà, di contenerne il costo, di organizzarne la vendita porta via clienti all'impresa meno capace; se confrontiamo le due, vediamo che nella prima gli operai di solito non sono più meritevoli che nella seconda, ma sono più bravi il padrone, il sindacalista, il progettista.
È quasi impossibile che la costruzione proceda tanto in fretta da evitare la pena della distruzione: posti di lavoro perduti, aziende che chiudono. L'avvio del nuovo difficilmente comincia prima che morda il bisogno. La necessità aguzza l'ingegno. La straordinaria crescita industriale della provincia di Reggio Emilia iniziò, oltre quaranta anni fa, dalla riconversione in imprenditori di maestranze rese senza lavoro dalla chiusura delle Officine meccaniche reggiane.
Qualche anno fa la Siemens stipulò un accordo che prevedeva più lavoro a paga invariata per non trasferire produzioni fuori dalla Germania. Apparve, anche a me, una lungimirante apertura sindacale. Ma fui poi colpito dal commento assai critico che me ne fece lo svedese ministro socialista del Lavoro: «Il sindacato non deve, pur di tenere in vita vecchie industrie, accettare che i lavoratori s'impoveriscano; deve invece difendere occupazione e alti salari favorendo lo spostamento verso produzioni nuove».
Il successo economico della Svezia è meno celebrato, ma forse più straordinario, di quello britannico. Un crollo del sistema bancario e una sclerosi del sistema produttivo, culminati in una svalutazione, volsero capitale e lavoro dalla difesa del vecchio alla costruzione del nuovo. Non fu smantellato lo Stato sociale, nessuna Thatcher spezzò le reni al sindacato. Oggi né le banche, né il sindacato, tanto meno lo Stato, impediscono la distruzione proteggendo imprese perdenti; però chi perde il posto non manca di protezione. Pagata dai contribuenti, una rete di sicurezza è offerta dallo Stato; ma lo stesso Stato impedisce di rimanervi adagiato a chi rifiuta ogni lavoro offerto solo perché sgradito.
Chi stabilisce che cosa distruggere e che cosa costruire? Noi, non lo Stato o il sindacato; noi, quando scegliamo tra un volo Easy Jet e un volo Alitalia, tra un Cd Naxos e uno Sony. A Stato e sindacato, invece, compete di organizzare quella solidarietà sociale pubblica che è vanto della civiltà europea contemporanea e che permette alla distruzione creativa di compiersi col minore sacrificio.