LA CRISI LIBICA E LA DEBOLEZZA DELLA POLITICA ESTERA ITALIANA di Alberto Benzoni Avanti della domenica del 6 marzo 2011
21 marzo 2011
Berlusconi, Maroni, Frattini fanno bene a chiamare in causa l’Europa (anche se le sparano un po’ grosse, evocando milioni di profughi, maree di terroristi nascoste nei barconi; per tacere poi degli “emirati”che sarebbero al potere in Cirenaica). Dovrebbero, però, ammettere, davanti agli italiani, che i disastri che ci minacciano sono in gran parte frutto dei loro errori e della loro cecità.
Berlusconi, oggi, è terrorizzato da Gheddafi e dalle sue possibili reazioni. Ha scoperto che è uno squilibrato capace di tutto (sino al lancio degli ultimi missili a disposizione verso qualche vicina isola del Mediterraneo. Però dovrebbe preoccuparsi di più delle reazioni dei rivoltosi: che hanno davanti agli occhi le gigantografie del rais assieme al suo grande amico italiano; e si sentono ancora suonare nelle orecchie l’incredibile “non lo voglio disturbare”dei giorni scorsi. Cosa accadrà allora? Quale sarà il futuro rapporto tra Italia e Libia quando l’attuale regime sarà definitivamente rovesciato?
Forse, o senza forse, le conseguenze non saranno drammatiche. Un conto è avere a che fare con un ricattatore permanente pronto a “fare casino”con tutti i mezzi e in tutti i continenti; altro conto è avere a che fare con un nuovo regime, nato (anche) in nome dei valori e dei principi dell’Occidente; e anche (ma non solo) per questo estremamente attento a non rimettere in discussione i legami e gli impegni internazionali del Paese. Però qualche prezzo l’Italia lo pagherà; e, per dirla tutta, saranno gli italiani a pagare le conseguenze della politica estera berlusconiana.
Ma qui dobbiamo misurarci con il rilievo formulato, con la consueta eleganza, da Maurizio Gasparri, all’insegna del “noi colpevoli ma anche voi; quindi nessun colpevole”. Il Nostro ci ricorda, infatti, che il Cavaliere non ha fatto che praticare - e con maggior successo - la politica, libica e araba, che era appartenuta anche a Prodi (lo “sdoganatore” del Colonnello in Europa), Craxi (che preavvisò Tripoli dell’imminente attacco aereo americano nel 1986) e, già che ci siamo, allo stesso Obama (fino a ieri sostenitore di Mubarak e, oggi, patrocinatore di quello che Gasparri definisce un colpo di stato militare).
Per quanto lo riguarda, il professore ha già dato la sua risposta dicendo, in sostanza, che il dialogo con Tripoli era per noi un passaggio obbligato (non foss’altro perché il Colonnello aveva il coltello dalla parte del manico, essendo in grado di minacciare e ricattare l’Italia in mille modi mentre i nostri strumenti di pressione erano molto più limitati); ma che, nello svilupparlo, lui stesso aveva rispettato forme e limiti che il Cavaliere avrebbe, invece, clamorosamente disatteso. Osservazione corretta, cui però andrebbe aggiunto che, nel nostro caso, la forma (dalle accoglienze al baciamano) è anche sostanza. In altre parole, il Nostro non trattava con Gheddafi. Lo amava. E lo amava perché vedeva in lui una proiezione di se stesso; la stessa incontenibile pacchianeria, ma, al tempo stesso, la proiezione del “fai come ti pare” sino a livelli che il Cavaliere poteva solo sognarsi di raggiungere. Naturale, poi, che in questa corrispondenza d’amorosi sensi, Berlusconi vedesse in Libia solo il suo modello della quarta sponda, al prezzo di ignorare totalmente tutto il resto.
Craxi ed Obama poi, non avrebbero alcuna difficoltà nel contestare le tesi di Gasparri. Il leader socialista ci ricorderebbe che la sua politica libica non era che un tassello, tra l’altro secondario, della sua strategia mediterranea e mediorientale.
Una strategia tutta finalizzata al duplice obbiettivo della riconciliazione tra mondo arabo e occidente e, soprattutto, di un accordo di pace, internazionalmente garantito, tra israeliani e palestinesi. Aggiungendo, tanto per chiarire, che, come Presidente del Consiglio, aveva stretto la mano a Jaruzelski e a Kadar, oltre che ai dirigenti del Cremlino; ma senza fare mancare mai il suo appoggio incondizionato al dissenso nei Paesi dell’Est.
Obama poi farebbe notare ai suoi improvvidi contestatori che la politica americana, pur tra grandi errori e contraddizioni, non si è mai impiccata alla favoletta dei “regimi militari unica alternativa al fanatismo islamico”; e questo anche perché ha mantenuto e sviluppato, in una logica di sostegno ad ogni elemento di democrazia liberale, contatti e capacità di ascolto (islamisti compresi) - dall’Algeria all’Egitto al Medio Oriente - che le consentono oggi di essere un “facilitatore” non marginale nell’attuale transizione.
Un ruolo, per inciso, che in Libia spettava a noi. Ma a cui siamo, qui ed oggi, del tutto impari. Paghiamo tutti, Stato, imprese, antenne varie, gli effetti del berlusconismo e cioè di un fenomeno, particolarmente contagioso, di “procurata sordità” al mondo reale.
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