LA CRISI DELLA RAPPRESENTANZA E I SINDACATI di Maurizio Ballistreri
02 febbraio 2019
Il premier Conte ha convocato qualche giorno fa i tre sindacati confederali, un incontro di cortesia su “quota 100” e reddito di cittadinanza, senza alcuna volontà di recepire le indicazioni di Cgil, Cisl e Uil sui temi economici e sociali, considerato, peraltro, che la legge di Bilancio è stata approvata.
E’ evidente lo stato di ininfluenza del sindacalismo italiano nel sistema istituzionale, nella crisi più generale di quello internazionale vulnerato dai processi di globalizzazione che trapassano i confini nazionali nei quali storicamente si è radicata l’azione collettiva di rappresentanza dei lavoratori, producendo nuove diseguaglianze e una diversa articolazione del conflitto sociale.
Infatti, nella società industriale il luogo dello scontro sociale era fondamentalmente la fabbrica ed attraverso il conflitto la classe operaia e quella imprenditoriale si contendevano la distribuzione del reddito; oggi, nell’economia 4.0, la posta in gioco è la verticalizzazione delle differenze, tra chi è in cima alla scala sociale e chi, la grande maggioranza, è sotto. Ed è per questo motivo che i nuovi conflitti sociali saltano le tradizionali forme di rappresentanza politica e sindacale, tutte ritenute appartenenti alla più generale “casta” di potere, come testimonia il fiume in piena dei “gilet gialli” in Francia.
La crisi della rappresentanza ha investito anche il nostro Paese e per quanto riguarda il sindacato è esemplificata da un dato, simbolico e concreto al tempo stesso: la manovra economica del governo in carica, per la prima volta dal 1966, anno in cui furono varati i primi incontri triangolari, governo, imprenditori e sindacati, sulla programmazione economica voluta dal centro-sinistra, non è stata oggetto di confronto, neppure formale, con le tre confederazioni sindacali e le altre organizzazioni degli interessi collettivi.
Certo, non sono i tempi in cui il potere sindacale, nato sull’onda dell’”Autunno caldo” nel 1969, poteva far cadere, anche solo con l’annuncio di uno sciopero generale (come accade al governo Rumor nel luglio del 1970), un esecutivo e neppure gli anni nei quali la mobilitazione delle piazze guidate da leaders carismatici come Lama, Carniti, Benvenuto, Trentin che teorizzavano e praticavano concretamente il modello del sindacato “soggetto politico” nel pluralismo culturale e politico delle rispettive organizzazioni sindacali, imponeva per tutto il decennio Settanta e per larga parte di quello successivo, prima del “Decreto di San Valentino” nel 1984, a governi e parlamenti di discutere con i rappresentanti del mondo del lavoro la politica economica nazionale, né gli anni della concertazione e del neocorporativismo “all’italiana”, che negli anni ’90 del secolo trascorso ha consentito la tenuta del sistema economico e sociale del Paese.
Ciò che appare evidente è l’abdicazione del sindacalismo italiano alla propria funzione di soggetto che discute e si confronta a livello istituzionale sui grandi temi dell’economia e che, se necessario, utilizza il conflitto per incidere sulle scelte pubbliche. L’accettazione supina da parte di Cgil, Cisl e Uil delle devastanti scelte in materia di politica sociale, come la “Legge-Fornero” sulle pensioni, e fiscali, realizzate dal governo-Monti ne costituisce una sorta di paradigma, inverando l’analisi che un grande sociologo del lavoro come Aris Accornero, recentemente scomparso, già nel 1992 aveva compiuto, descrivendo la “parabola del sindacato”.
Un sindacato ripiegato in un rapporto corporativistico con le “storiche” associazione datoriali, Confindustria in primo luogo, in una sorta di cittadella chiusa, sempre più piccola e assediata da nuove forme di sindacalismo autonomo e di base e da organizzazioni datoriali espressive del nuovo sistema produttivo reticolare in profonda trasformazione, alle prese con una crescente burocratizzazione, con i giochi di potere interni e con leadership incolori, nell’ambito di un elevato pluralismo associativo che ha eroso consensi e rappresentatività, arginato a fatica dai vecchi paletti di un ordinamento intersindacale che impedisce a chi ne è fuori di esercitare legittimamente diritti sindacali e funzioni di contrattazione collettiva. Tema, quest’ultimo, che abbisogna ormai, senza remore, di un intervento legislativo regolativo, rispettoso dei principi e delle previsioni dell’art. 39 della Costituzione, letti in chiave evolutiva secondo l’insegnamento del diritto vivente, per riscrivere e aggiornare relazioni industriali che mostrano evidenti segni di logoramento.
In questo senso ci vorrebbe una nuova capacità di elaborazione programmatica e di mobilitazione sociale dei sindacati, memore di grandi proposte del passato che, invero, conservano, aggiornate tutta la loro validità.
Si pensi al “Piano del Lavoro” proposto nel 1950 dalla Cgil guidata da Giuseppe Di Vittorio, segnato da forti influenze del “New Deal” rooseweltiano, per una politica di investimenti in opere pubbliche e infrastrutture, in grado di stimolare la domanda e generare occupazione specie nel Mezzogiorno, crescita economica, incrementi salariali; al “Fondo di solidarietà” delle tre centrali confederali nel 1980, elaborato negli ambienti della Cisl di Pierre Carniti, per creare uno strumento alimentato dallo 0,50% dei singoli salari su base volontaria, in favore degli investimenti; al “Polo bancario-assicurativo” sostenuto in particolare dalla Uil di Giorgio Benvenuto nel 1989, tra Banca Nazionale del Lavoro, Inps e Ina per orientare il risparmio dei lavoratori verso gli investimenti e gestire la previdenza integrativa.
Proposte di grande valore strategico e culturale nel solco dell’idea di democrazia economica, rispetto alle quali, purtroppo, si deve registrare l’apatia del sindacalismo ai nostri giorni.
E tuttavia, sembra verificarsi qualche segnale positivo: dalla dialettica interna nella Cgil alla ventata di novità e di rinnovamento nella Uil con l’apporto di energie fresche al vertice.
Un dato è certo: la democrazia vive di partecipazione politica e sociale e il sindacato è elemento costitutivo, la speranza quindi, risiede anche in suo rilancio di idee, di proposte, di nuovi gruppi dirigenti.
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