L’OMBRA DI CRAXI di Gianfranco Pasquino da Mondoperaio settembre 2019
12 ottobre 2019
Prima di cominciare questo lungo commento al testo di
Petruccioli (n.d.r. C. Petruccioli, Il tabù dell’alternanza, mondoperaio
9 – settembre 2019), mi sono chiesto a che cosa può servire riflettere sul
passaggio cruciale che portò dal PCI al PDS. Dopo non poche esitazioni e
contorsioni mi sono risposto che, dato il ruolo svolto dal PCI nel sistema
politico italiano dal 1946 al 1989 e poi dal PDS e i suoi successori nella fase
successiva, qualche notazione, qualche approfondimento e molte critiche hanno
senso. D’altronde, seppure in maniera tutt’altro che lineare, il Partito
Democratico di oggi (domani non so) porta sulle spalle un fardello di eredità
comunista, ex-comunista, post-comunista nient’affatto lieve. Provare a fare
chiarezza sulle modalità della svolta dell’89-91, sulle sue inadeguatezze, su
quello che non avrebbe mai potuto essere serve in qualche modo per indicare la
necessità di una svolta contemporanea il prima possibile e, forse, a non rifare
errori simili, molti dei quali già ampiamente commessi, addirittura ripetuti
più volte.
Dal resoconto di Petruccioli, dalla mia condizione di allora
(ero Senatore della Sinistra Indipendente), da quanto avevo letto e studiato,
da quello che sapevo, direi, senza falsa modestia, molto e, comparativamente,
moltissimo (!), sui partiti e sulle loro trasformazioni, credo di potere
sostenere che quel Partito Comunista Italiano era sostanzialmente non
riformabile. Vale a dire che non sarebbero bastati aggiustamenti nelle modalità
di comportamento del gruppo dirigente, cambiamenti cosmetici nel pensiero
politico, riforme nella struttura organizzativa. Ci voleva di tutto e di più.
Non ho nessuna difficoltà a concordare con Petruccioli che critica coloro che
hanno concepito e trattato la “svolta come evento improvviso, indotto nel Pci
dall’esterno, sostanzialmente avulso dalla vicenda originale [qui qual è il
significato di “originale”? GP] di quel partito”. Tutto questo, però, è
un’aggravante essendosi poi rivelata enorme l’impreparazione ad affrontare una
svolta ritenuta insita nella storia “originale” del partito.
L’occasione per cominciare era andata perduta nel giugno del
1984 subito dopo la morte di Enrico Berlinguer. Scegliere come segretario Alessandro
Natta aveva significato rimandare sine die, ma il giorno fatidico arrivò
presto, la trasformazione di un grande partito, di massa, popolare,
rappresentativo che aveva iniziato il suo declino elettorale e culturale (più
precisamente, di perdita dell’egemonia di tipo gramsciano). Potremmo anche fare
dell’ironia sull’affollarsi di molti bene intenzionati medici al capezzale del
PCI, troppi dei quali neppure lo ritenevano “sufficientemente” ammalato.
Proliferavano Le lettere al Partito comunista e suggerimenti sotto forma
di altri generi letterari. Probabilmente, il gruppo dirigente si sentiva
lusingato da cotanta attenzione. Certamente, alla base giungevano scarsi echi
di un dibattito che mi pareva spesso ovattato e occasionale, cioè dettato da
qualche occasione (terremoto, scala mobile, etc.). Molta della base, però, pur
attraversata da una pluralità di linee divisorie, manifestava notevole
interesse per tutte quelle idee che suggerissero come andare oltre le caute
posizioni ufficiali. Anche se è vero che, spesso, in non pochi partecipanti,
affiorava un grumo di emozioni, sentimenti e risentimenti, che rendeva alcuni
incapaci di guardare indietro e di fare i conti con il passato al tempo stesso
che li impossibilitava a guardare a vanti, a progettare il futuro. In quelle
occasioni ho imparato che, comunque, in politica bisogna tenere conto anche
delle emozioni, non semplicemente scansarle.
Mi limiterò a due esempi personali, non per narcisismo, ma
perché ne ho conoscenza diretta. Primo, all’invito del segretario del PCI di
San Giovanni Valdarno, fra la fine del 1984 e la primavera del 1985, ad andare
a discutere della riforma elettorale e. specificamente, della proposta che
avevo presentato in Commissione Bozzi (4 luglio 1984), risposi chiedendo quali
erano le posizioni degli iscritti. Risposta: metà favorevoli a quanto
sostenevo, metà contrari. Mi precipitai. Ne scaturì un dibattito di rara
intensità e qualità con le preferenze personali e politiche che si
intrecciavano con il desiderio di acquisire il massimo di informazioni
possibili sui sistemi elettorali e sulle loro conseguenze sui partiti, sulle
coalizioni e, naturalmente, sul PCI. Nella primavera del
Dalle mie numerose escursioni sul territorio, che
scherzosamente definivo turismo politico, frequentando non poche Federazioni e
sezioni del PCI, dove non ero mai andato in precedenza, con la sola preclusione
del PCB (Partito Comunista di Bologna) pervicacemente per nulla interessato a
discutere con me (non lo fece mai), traevo regolarmente quella che era molto
più che una impressione, vale a dire, la preoccupazione degli iscritti, dei
simpatizzanti e dei militanti nel vedere che al cambiamento, in Italia,
nell’Europa centro-orientale, nel mondo, il gruppo dirigente del partito non
sapesse/non volesse/ non riuscisse a rispondere. Sembrava che, ad eccezione di
Pietro Ingrao, nessuno di quel gruppo dirigente si interrogasse. Naturalmente,
non solo sarebbe stupido negarlo, ma anche controproducente per qualsiasi
comprensione di quanto stava succedendo, sui cambiamenti possibili e
auspicabili, forse indispensabili, su tutto si stagliava l’ombra lunga e
minacciosa di Bettino Craxi.
Un punto va chiarito subito, in maniera definitiva. La da
molti temutissima socialdemocratizzazione del PCI (da anni chiamato a fare la
sua Bad Godesberg in seguito alla quale i socialdemocratici tedeschi arrivarono
rapidamente al governo), dopo il crollo del PCUS e del suo sistema, non era
resa impraticabile dal socialdemocratico Craxi. A determinate condizioni, con
una adeguata elaborazione, non sarebbe stata interpretabile come una
improponibile resa a Craxi, un cedimento totale. La socialdemocratizzazione non
era praticabile perché, nonostante qualche neppure troppo timido tentativo
effettuato da alcuni studiosi comunisti di approfondire le esperienze, al
plurale, socialdemocratiche, nel PCI la loro liquidazione politica e culturale
era già avvenuta da tempo. La convinzione che le socialdemocrazie erano “in
crisi”, “logore”, “superate”, non in grado di sconfiggere il capitalismo,
quindi non erano una prospettiva da perseguire, era diffusissima nel partito,
molto più che maggioritaria. Non vi erano dubbi che la terza via si trovava o
doveva comunque essere cercata nella spazio fra i comunismi realizzati e le
socialdemocrazie a loro volta realizzate. I lettori e gli interlocutori si
faranno una o molte ragioni del mio silenzio su quegli studiosi e commentatori
comunisti che, nello stesso periodo, per superare quel loro comunismo (sic),
oppure forse solo per farsi pubblicità sulla stampa “borghese”, recuperavano il
decisionismo attribuendolo al pensiero di Carl Schmitt, loro giurista, già
nazista, di riferimento. Quella storia, però, la lascio scrivere a loro, anche
a quelli poi diventati in maniera rivelatrice renziani. Il fatto è che per
andare oltre le esperienze socialdemocratiche bisogna non soltanto averle
studiate e conoscerle, ma avere la capacità di scegliere quello che è
imperativo conservare e quello che bisogna valorizzare per costruire una
situazione più avanzata. Nel frattempo, abbiamo capito, trent’anni dopo, che
anche le conquiste socialdemocratiche sono reversibili. Peccato che molti
pensino che la ripresa di un pensiero di sinistra debba passare attraverso il
neo-liberalismo.
Da quanto leggo nel molto (fin troppo?) lungo documento di
Petruccioli, quasi nulla di quello che ritenevo allora importante per
trasformare un Partito comunista, con tutte le sue peculiarità italiane, fu
davvero oggetto del dibattito. Cito “si sarebbe dovuta sviluppare una critica
chiara e argomentata delle posizioni tradizionali del PCI che si volevano
superare, delle radici ideologiche che ne erano all’origine e che motivavano, a
ben vedere [si vedevano benissimo, GP], anche i residui [sic, !] ma tenaci
legami con ‘il socialismo reale’.” Sarei alquanto più drastico su quello che i
comunisti avrebbero dovuto chiedersi. Che cosa era fallito? L’Unione Sovietica
aveva perso la Guerra Fredda sostanzialmente dal punto di vista economico?
Dunque, era il modello di pianificazione, se non più precisamente il rapporto
fra apparato politico-statale e società, che non aveva funzionato mentre il
neo-liberismo investiva le maggiori democrazie anglosassoni,guidate da Reagan e
da Thatcher, con uno tsunami liberatorio di potenzialità, risorse, energie?
In una società, inesorabilmente diventata “plurale”, –non
scrivo “pluralista” poiché questo aggettivo chiama in causa non solo il numero
dei soggetti, ma la realtà della competizione fra loro–, era già diventato
evidente che il partito unico non era in grado di suscitare trasformazioni, di
accogliere i trasformatori, di dare loro anche fette di potere politico.
Quindici anni prima Norberto Bobbio (Quale socialismo. Discussione di
un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976) aveva sfidato i comunisti, ma non
solo loro, chiedendo se esistesse una “dottrina marxistica dello Stato”,
ricevendone verbose e inconcludenti risposte. La domanda mantiene tutta la sua
attualità. Tuttavia, la risposta non è affatto scontatamente negativa. In
qualche modo i cinesi stanno facendo i conti relativamente ai rapporti fra il
Partito e lo Stato e il modo come li risolveranno avrà comprensibilmente un
impatto enorme.
Nonostante si sapesse molto su che cosa era il Partito
comunista italiano e sulle motivazioni ideologiche, programmatiche, di carriera
politica che motivavano milioni di aderenti e migliaia di dirigenti, nella
svolta l’unica “motivazione” presa seriamente in considerazione fu quella del
nome della cosa (rossa). Petruccioli tenta, invano, per quel che mi riguarda,
di convincerci che il problema era governare. Davvero? con il prevedibile 20
per cento circa dei voti? Mi pare, invece, che il problema fosse molto diverso.
Se, dopo il crollo del muro di Berlino, comunisti proprio non si poteva più
rimanere e socialdemocratici non si voleva diventare, e, probabilmente, neanche
si sarebbe riusciti, quale opzione praticabile rimaneva? Democratici di
Sinistra, quasi a significare due “cose” egualmente non sostenibili. Da un
lato, che c’era una Sinistra evidentemente non democratica (honni soit qui
pense à Craxi) e, dall’altro, che fino ad allora il PCI era stato di
Sinistra, ma non Democratico. Con il senno di poi è facile notare che, nel
corso della trasformazione, molti se ne andarono a sinistra e, più tardi, un
numero forse persino maggiore decise che gli bastava l’aggettivo democratico
–la cui specificità contenutistica continua a eludermi, non a illudermi.
A lungo ho insegnato ai miei studenti dei corsi di Scienza
politica che “un partito è un’organizzazione di uomini e donne che presentano
candidati alle elezioni,ottengono voti, conquistano cariche”. Regolarmente un
certo, ma piccolo, numero di studenti dichiarava di essere insoddisfatto della
mia definizione e mi chiedeva di integrarla facendo riferimento ad una
ideologia. La mia replica è sempre stata che l’ideologia è certamente utile, ma
non è una componente essenziale della definizione minima di partito. Epperò,
nel caso del PCI non era proprio possibile transitare senza nessuna mediazione
da un partito fortemente ideologico ad un partito post-ideologico.
Incidentalmente, non vedo quasi nulla di tutto queste nelle note di Petruccioli
che, quindi, ritiene che il PCI già fosse oppure avrebbe dovuto e potuto
facilmente diventare un partito “programmatico”. Lo dirò meglio. Abbandonare,
perché non di andare oltre si trattava, l’ideologia comunista (marxista,
gramsciana) era, in qualche misura, indispensabile, ma rimanere privi di
qualsiasi riferimento culturale era la peggiore delle soluzioni possibili. Una
riflessione sui due cardini del pensiero e dell’azione delle socialdemocrazie
realizzate avrebbe dovuto essere posta all’ordine del giorno, magari chiamando
a riflettervi coloro che a quei due cardini, stato del benessere e keynesismo,
e alla loro feconda combinazione, avevano già dedicato attenzione e riflessione
scientifica.
Naturalmente, la mia non è in nessun modo una rivendicazione
postuma di un contributo che non mi fu mai chiesto. Avevo, fra l’altro, anche
scritto della assoluta necessità per un partito di sinistra, anche questa era
una lezione socialdemocratica, di tenere rapporti intensi e frequenti, anche
dialettici, con i sindacati e non solo con gli intellettuali per intenderci,
del tipo Anthony Giddens, il quale andando Oltre la destra e la sinistra,
(Il Mulino 1997), si è trovato alla Camera dei Lords! Rimando alla molto
interessante analisi storico-comparata di Svezia Germania Stati Uniti svolta da
Stephanie L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to
Neoliberalism, Cambridge, Mass-London, Harvard University Press, 2018,
anche se non ne condivido alcune rigidità interpretative. Non fu, non dico
fatto, ma neppure intrattenuto, nulla di tutto quello che riguardava la cultura
politica. Nessuna discussione “culturale” su che cosa poteva cercare di essere
un Partito che non poteva/non doveva rimanere comunista. Curiosamente,
nell’Europa centro-orientale quasi tutti i partiti comunisti hanno traslocato
armi e bagagli sotto l’etichetta socialista, godendo, almeno temporaneamente,
di qualche relativo successo. Niente da imitare, ovviamente, tranne, forse, che
un partito comunista ha/aveva il dovere di riflettere più a fondo sul suo tasso
di socialismo oppure nel PCI proprio non ce n’era?
Comunque, dal 1991 quel che si era faticosamente (non certo
per sola responsabilità di D’Alema: Petruccioli davvero esagera finendo anche
per omaggiare D’Alema attribuendogli un potere politico enorme), ricomposto nel
solco della vecchia organizzazione si è trovato in mare aperto senza bussola.
La mia tesi, argomentata nel fascicolo La scomparsa delle culture politiche
in Italia (“Paradoxa”, Ottobre/Dicembre 2015, pp. 13-26) è che, per
l’appunto, è andato perduto qualsiasi appiglio, qualsiasi riferimento,
qualsiasi elemento di cultura politica che abbia attinenza al disegno di un
futuro che un partito progressista si impegna a costruire contenendo e
riducendo le diseguaglianze sia sociali sia di opportunità. Al proposito, è
imperativo (ri)leggere Bobbio, Destra e sinistra (Donzelli 1994).Di
questo non parlarono allora coloro che stavano tentando di traghettare un nuovo
partito lasciando la sponda del comunismo, ma che non possedevano la bussola
del percorso e sembrarono assolutamente non interessati a cercarla. Né fu fatto
in seguito.
Tutto questo ha avuto conseguenze pesantissime, userò un aggettivo
caro a Pietro Ingrao, il quale, sia chiaro, fu parte del problema, “epocale”.
Quelle conseguenze sono ancora qui con noi e da sole non promettono affatto di
andarsene. Quelle conseguenze hanno un nome: Partito Democratico. Era
inevitabile che, mai intessuto di significati e di contenuti, il termine
Sinistra appassisse e fosse destinato a sparire anche grazie al davvero
notevole, ma non proprio encomiabile, sforzo di alcuni intellettuali per negare
l’utilità stessa della categoria sinistra: What is left? Sono gli stessi
che, poi, con rara coerenza hanno sostenuto pancia a terra l’opera, sono molto
riluttante a scrivere “riformatrice”, del due volte ex-segretario del Partito
Democratico. Quanto al PD, la sua nascita non fu affatto preceduta da una approfondita
elaborazione culturale, da uno scontro/incontro/confronto di idee e di
prospettive. Al massimo, si arrivò a “narrazioni”, oggi meritatamente
dimenticate, e a un catalogo di parole: Partito Democratico. Le parole
chiave ( a cura di M. Meacci, Editori Riuniti 2007). Forse già dice
qualcosa che la parola Riformismo abbia due trattazione: la prima, mia,
la seconda opera di Iginio Ariemma. Non esiste praticamente nessuno disposto a
negare che il Partito Democratico sia stato una spregiudicata operazione di
addizione di ceti politici già democristiani e già comunisti. Quanto alla
raccolta, fusione proprio no, ma neppure ibridazione, delle migliori culture
progressiste e riformatrici del paese, fu solo propaganda smentita da due
fatti. Avvenne i) quando quelle culture praticamente non esistevano più da una
quindicina d’anni; ii) senza che la cultura socialista, sicuramente
progressista e provatamente riformatrice, fosse neppure chiamata a dare un
qualsiasi contributo.
Rimanendo nella narrazione politico-istituzionale che troppi
hanno voluto dare della nascita del PD, non sono riuscito a capire quando sia
davvero esistita “la condizione ideale perché i due soggetti [immagino uno
conservatore, grande apertura di credito a Forza Italia, e l’altro lo stesso
PD, a meno che Petruccioli si riferisca al Popolo delle Libertà e all’Ulivo e
allora dovremmo fare un discorso alquanto diverso] incardinassero un
bipolarismo politico di tipo europeo, con una alternanza di tipo europeo”. A
scanso di equivoci, sottolineo che queste fantomatiche alternanze di tipo
europeo, tranne che in Gran Bretagna, di recente con qualche eccezione, non
contemplano che molto raramente la sostituzione di un governo con un altro
governo del tutto diverso (G. Pasquino e M. Valbruzzi (a cura di), Il potere
dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo ,Bologna, Bononia
University Press 2011). Nella maggior parte dei casi si tratta di
semialternanze assolutamente in linea con la storia delle coalizioni
multipartitiche che caratterizzano tutte le democrazie parlamentari.
Inoltre, anche se, per fortuna, l’idea e la sostanza del
partito della nazione sono già tramontate, neppure l’escamotage di Petruccioli
tiene: due partiti della nazione in competizione fra di loro al massimo
rappresenterebbero un po’ più e un po’ meno della metà della nazione. Fra
l’altro, chi siamo noi per decidere che i partiti della nazione debbano essere
soltanto due? Infine, sono in totale disaccordo sul contenuto del “programma
riformista per un governo della sinistra”: “i cittadini devono poter scegliere
il governo. Il governo deve governare. Il Parlamento deve fare le grandi leggi
e controllare l’attività del governo”. Sarà anche chiaro, ma è, da un lato,
sbagliato: da nessuna parte al mondo i cittadini scelgono il governo. Da
nessuna parte al mondo il Parlamento fa le “grandi leggi”. Le fa il governo che
dagli elettori ha ricevuto un mandato per tradurre le sue proposte in
politiche. Dall’altro, il programma riformista è tanto vago quanto banale: “il
governo deve governare”.
Non ricordo che nulla di tutto questo fosse all’ordine del
giorno della trasformazione del PCI. So che chi perde di vista la
rappresentanza e pretende di limitarla per ottenere governabilità sbaglia alla
grande e sacrifica entrambe a suo totale discapito. Petruccioli proietta un
passato da lui interpretato in un futuro che, in parte, è già stato sconfitto e
superato. Ho scritto molto in materia. Approfondirò soltanto su richiesta
esplicita del Direttore di “Mondoperaio”, ma, che sia chiaro, non ripartiremo
da zero.
Mi è persin troppo facile concludere, ma è perché la
conclusione me la sono costruita molto abilmente, che il compito del Partito
Democratico, che al governo non è e il cui programma riformista è sparito, deve
essere espresso in questi semplicissimi e esigentissimi termini primum
philosophari deinde governare. Nelle condizioni attuali, filosofare
richiede prioritariamente smontare in maniera ragionata quello che c’è, un
enorme macigno per qualsiasi nuova partenza, e lasciare la porta aperta a tutti
coloro che hanno qualcosa da offrire in termini di idee e energie. La storia
della trasformazione del PCI, letta non soltanto con gli occhi di Petruccioli,
ha molto da dire. Non è ancora troppo tardi.