L’ETERNO RITORNO DELLA SCISSIONE, di Ugo Finetti, da Mondoperaio n.9 / 2009
24 gennaio 2010
L’unificazione tra Psi e Psdi sancita con la Costituente socialista del 28-31 ottobre 1966 fu realizzata a dieci anni dall’incontro di Pralognan in cui era stata prefigurata dai leader dei due partiti: un ritardo dovuto ad una molteplicità di ostacoli e di freni che la minavano. Il fallimento non era inevitabile, ma le crepe esistevano sin dall’inizio e la successione degli eventi anziché diminuirle le allargò. Pietro Nenni, acclamato presidente e leader unitario del Psi-Psdi, visse infatti questo capitolo come stretto da una duplice diarchia: da un lato con Giuseppe Saragat e dall’altro con Francesco De Martino. Il rapporto con Saragat va considerato tenendo conto però non unicamente del punto di vista di Pietro Nenni.
Agli occhi dei socialdemocratici infatti Nenni aveva non solo la responsabilità di aver capitanato una scelta filocomunista e stalinista, ma soprattutto di aver determinato una scissione che nella realtà era stata vissuta tra loro come una brutale espulsione: nel novembre 1946, rompendo la tregua stabilita in aprile a Firenze al XXXIV Congresso dove era stata eletta una direzione paritetica, Nenni, dopo la sconfitta democristiana delle elezioni amministrative, aveva fatto precipitare la situazione improvvisando una seduta della direzione dove a maggioranza convocò il congresso anticipato da tenersi in fretta al fine di modificare lo Statuto vietando l’esistenza di correnti di minoranza. Successivamente la scelta di autonomia dal Pci e la marcia verso il governo con la Dc rappresentarono una forma di “autocritica” socialista che riconosceva le ragioni di Saragat, ma tradizioni e idee diverse permanevano con non sopite rivalità personali.
Con l’ingresso nel governo e la scissione psiuppina nel gennaio 1964 si erano create le condizioni nel Psi per una generale accettazione della prospettiva di riunirsi con il Psdi, ma rimanevano incerti i tempi. “La politica dell’unificazione – ricorda Antonio Landolfi – assume un percorso più marcato con la elezione di Saragat alla presidenza della Repubblica, alla fine del 1964” . Indubbiamente l’ex segretario del Psdi al Quirinale risolveva l’unicità della leadership del nuovo partito spianando la strada a Pietro Nenni. Eppure anche quell’evento decisivo fu marcato da una forte contrapposizione tra i leader dei due partiti, peraltro all’epoca insieme al governo, l’uno come vicepresidente del consiglio e l’altro come ministro degli Esteri.
Proprio in quella solenne e decisiva occasione si era riproposta la spaccatura tra i due leader del socialismo italiano che si trovarono a capitanare, prima dell’ultima votazione, dal 26 al 28 dicembre, Saragat un blocco centrista imperniato sulla Dc e Nenni un blocco frontista imperniato sul Pci . E’ il segno di come la linea di demarcazione tracciata dall’inizio della guerra fredda tra gli italiani in generale e tra i socialisti in particolare s’intrecciava con l’identità politica, con il conglomerato di esperienze vissute e di ideali perseguiti che veniva all’epoca definito “patriottismo di partito”. Il processo di unificazione non vede alla ribalta la generazione del ’56, i dirigenti nazionali più “giovani” hanno vissuto in prima persona il ’47-’48. Gli anni sessanta con la distensione avevano certo svecchiato ed innovato, ma la discriminante fondamentale era sempre l’ancoraggio del Psi alle categorie di anticapitalismo ed antimperialismo. Il processo di unificazione avveniva da parte del Psi mantenendo cioè ferma la “missione” di superare il capitalismo e di avversare l’imperialismo. E’ appunto su questi contenuti politici della strategia del nuovo partito che il “peso” di Francesco De Martino si farà sentire su Pietro Nenni.
Due apparati
E’ significativo come proprio quei due tratti – anticapitalismo marxista ed Usa imperialisti – traspaiono nella nota redatta su De Martino dal Dipartimento di Stato americano. “Ora (è appunto il 1967, ndr) – scrivono gli americani su De Martino – è pressoché l’unico leader del Psu che presta molta attenzione al marxismo nei suoi discorsi”. E a proposito dei rapporti con gli americani la scheda rileva: ”Nel passato (1962, ndr) ha avuto buone relazioni con funzionari dell’Ambasciata”, però “da quando è divenuto segretario di partito è divenuto inaccessibile”. Il mutamento di umori da parte di De Martino era probabilmente dovuto al maggior riserbo che gli suggeriva la promozione a segretario generale, ma anche da un lato al venir meno di Kennedy che aveva sostenuto l’ingresso del Psi nella maggioranza governativa italiana, e dall’altro all’esplodere del conflitto vietnamita che vedeva nuovamente gli Stati Uniti additati nelle piazze come mostro imperialista.
Ma soprattutto grava il fatto che la strada dell’unificazione è imboccata da un Psdi baldanzoso che si sente protetto anche nei rapporti di forza interni dal Quirinale e che considera il Psi come avviato “a Canossa”, mentre il Psi sembra decidersi al matrimonio politico quasi sulla difensiva: con alle spalle la scissione del Psiup ed una sconfitta elettorale nelle amministrative di novembre 1964 dove il partito aveva perso circa il 3 per cento a vantaggio del neonato Psiup mentre i socialdemocratici erano cresciuti.
Quando nel 1965 fu convocato il Congresso, il XXXVI, per avere il mandato formale ad aprire la trattativa con il Psdi, non tutti i nodi erano sciolti. Francesco De Martino, che tiene ad avere la più ampia convergenza anche per evitare ulteriori scissioni, presenta una relazione quale documento di Tesi congressuali in cui lascia ancora un margine di indeterminatezza.
Pietro Nenni vive l’unificazione in termini radicalmente diversi. E’ per lui “l’ora dei socialisti”. Non un “ritorno a Canossa”, ma in sostanza un’operazione di vero e proprio assorbimento del Psdi. Inoltre il rafforzamento del polo socialista deve per lui servire a contestare sia l’egemonismo democristiano al governo sia quello comunista nella società italiana.
Nenni è fiducioso che i socialisti possano far valere la propria unità in un momento in cui le divisioni non solo travagliano i democristiani coinvolti nella stesse avvisaglie di crisi postconciliare in campo cattolico, ma sono anche al centro del Pci travagliato in modo ormai aperto dopo la scomparsa di Togliatti tra Amendola e Ingrao con la segreteria di Longo debole e incerta.
E’ così che in occasione del XXXVI Congresso proprio nel momento di decidere l’unificazione viene alla luce la diarchia Nenni-De Martino. Di fronte al segretario del Psi che nelle Tesi sembra frenare, Nenni decide di intervenire emendandole a scena aperta, e cioè con una Lettera ai compagni (da Formia il 4 settembre 1965) da far votare congiuntamente nelle assemblee congressuali di sezione in cui si formalizza la nascita della Costituente socialista. Votare insieme Lettera e Tesi è il segno di una diarchia, come non manca di rilevare l’opposizione con Antonio Giolitti in un articolo sull’Avanti! eloquentemente intitolato Perché non siamo socialdemocratici, in cui trova spazio per insinuarsi tra le “due posizioni”: “Mentre la prima - scrive Giolitti riferendosi a De Martino - considera tutt’altro che acquisite le condizioni per la unificazione tra Psi e Psdi” ed “è sottolineata la differenza di orientamenti fondamentali tra i due partiti […], la lettera di Nenni considera quel presupposto come realizzabile”.
Mentre il Pci, attraverso Rinascita, bolla la Lettera ai compagni come capitolazione al neocapitalismo e alla socialdemocrazia, quanto controverso sarebbe stato nella stessa maggioranza autonomista il percorso del partito unificato emerge anche da come in quell’occasione Giovanni Mosca critichi l’iniziativa di Nenni favorevole all’approvazione di uno statuto dei lavoratori.
Facendo propria la posizione critica del Pci il leader della corrente socialista della Cgil avverte: “È una materia non facile, che richiede estrema attenzione e cautela, e uno studio approfondito: si corre il pericolo di ‘impacchettare’ i sindacati senza sapere a chi li si consegna” .
Il fantasma di Venezia
“C’è parecchia confusione nel partito” gli confidano Mancini e Ferri quando lo incontrano il 16 settembre, e soprattutto Ferri teme “un comitato centrale ingovernabile”. A sua volta De Martino a fine settembre appare a Nenni “sempre restio sul problema dell’unificazione e parecchio critico con il gruppo dei miei amici, specialmente Mancini”. “L’ho messo in guardia – annota Nenni – contro un congresso in cui la vera battaglia sia nei corridoi” . E’ così che Nenni vive il Congresso dell’unificazione con esplicito riferimento al fantasma di Venezia 1957: “Un congresso con una maggioranza dell’80 per cento, che poteva essere del 90 se non avessi posto il problema dell’unificazione col Psdi, e che sarebbe scesa a 60-70%, se il problema l’avessi posto in termini di soluzione immediata” . Ma è appunto la “soluzione immediata” che viene licenziata in definitiva al XXXVI Congresso che si svolge a Roma dal 10 al 15 dicembre. Si apre la strada all’unificazione che avverrà l’anno successivo, quindi, con la contrarietà di fatto di quasi il 40 per cento del Psi.
Nell’imminenza della Costituente si tiene a una piena adesione della minoranza: Antonio Giolitti è nominato responsabile economico e altri “lombardiani” tra cui Fabrizio Cicchitto entrano nel Comitato centrale dell’unificazione. Va anche sottolineato come la nascita del Psi-Psdi unificati registrò un ampio interesse e soprattutto consenso nella intellettualità di sinistra: da Norberto Bobbio a Salvatore Quasimodo, dal matematico Bruno De Finetti a Ennio Flaiano e Leo Valiani, oltre, tra i tanti, a Giorgio Albertazzi, Franco Zeffirelli, Goffredo Petrassi, Carlo Lizzani, Vittorio Gassman, Enzo Biagi, Arrigo Levi, Ennio Moricone. In quel 1966 l’egemonia comunista nel mondo della cultura appare appannata con la morte di Togliatti, mentre la maggioranza Longo-Amendola vede molte rilevanti personalità dell’intellettualità comunista penalizzate dalla messa in minoranza di Ingrao e dalla caduta in ombra degli “orfani” del Migliore, come Enrico Berlinguer.
Ma la Carta dell’Unificazione redatta da Nenni è un compromesso che sembra per certi aspetti anche più arretrato in confronto alla Lettera del 1965. Il marxismo è il punto di riferimento ideale di cui la Carta si dichiara erede mantenendo come obiettivo di fondo la “lotta contro il sistema capitalistico e le ideologie che esso esprime”. La democrazia definita dalla Costituzione italiana è considerata un “periodo di transizione” nel quale procedere a “riforme di struttura della società e dello Stato”. Pertanto se tranquillizza Saragat ribadendo nei confronti del comunismo “una frontiera rigorosa ideale e politica”, Nenni deve però tranquillizzare gli ex Psi precisando che il centro-sinistra non significa assolutamente “rinuncia alla lotta e alla critica sistematica del capitalismo”. Il peso della diarchia con De Martino si traduce in un freno nella collocazione del partito unificato come parte integrante del socialismo europeo ed occidentale. Dopo il fallimento dell’unificazione socialista e la rinascita del Psdi, De Martino definirà infatti una nuova strategia socialista proprio dando un giudizio negativo di quanto fatto finora dai “partiti socialisti di governo” in Europa “la cui azione si è sempre limitata a una migliore gestione del sistema, alla sua razionalizzazione”.
Le “aspettative deluse”
Quando si parla di sproporzione tra attese e risultati del centro-sinistra con Nenni alla guida del Psi-Psdi unificati e si conclude con un giudizio di “fallimento” (sentenza già emessa dal Pci con Giorgio Amendola sin dal 1964), si deve tener conto di questo tipo di “attese” come “superamento del capitalismo” con nazionalizzazioni e pianificazione. La storiografia che ha cristallizzato la distinzione tra centro-sinistra “avanzato” del governo Fanfani ed “arretrato” a partire dall’abbandono di Antonio Giolitti del ministero del Bilancio, quando la sinistra lombardiana passò all’opposizione, non accetta di prendere in considerazione l’arretratezza del Psi (e in generale della sinistra italiana) nell’affrontare la politica economica da posizioni di governo. La subalternità socialista è conseguenza del rifiuto di essere parte integrante del socialismo democratico occidentale e di attestarsi su una “terza via” che ha margini di manovra solo in tempi di crescita economica.
Tra il centro-sinistra “avanzato” e quello “arretrato” c’è infatti il periodo di crisi successivo al “boom”. Come ha riconosciuto lo stesso Antonio Giolitti : “Erano state formulate alcune proposte, specie nel documento economico del Psi e nel ‘memorandum’ del ministero del Bilancio ai sindacati, ma non c’era una linea, un ‘corpus’ di misure organico. Il disegno di politica congiunturale era abbastanza chiaro, ma il punto debole era la strumentazione che era approssimativa, fondata su ipotesi, ancora da collaudare nella pratica. La linea Colombo-Carli - prosegue l’ex ministro socialista del Bilancio - era chiara e definita perché si appoggiava a un bagaglio culturale e a esperienze consolidate, mentre quella socialista era più problematica”.
Nenni, con alle spalle la scissione e la neonata unificazione non ritiene possibile gettare la spugna, rinunciare alla politica di governo con Moro, Saragat e La Malfa. In alternativa ci sarebbero o la formazione di una maggioranza di destra o elezioni anticipate, e comunque in entrambi i casi una radicalizzazione tra Dc e Pci nel segno del fallimento e dell’inconsistenza di un socialismo che si è mosso indipendentemente dal Pci. Ma il centrosinistra agli occhi degli elettori socialisti prende la forma di uno stato di necessità con Nenni che appare vincolato a un percorso irreversibile con un diminuito potere contrattuale nella coalizione. Sostanzialmente disarmato e privo di deterrente nei confronti della Dc.
E il partito di maggioranza relativa ne approfitta. Da un lato la Dc vuole recuperare i consensi persi a destra e dall’altro preferisce stemperare le attese che suscita la novità dei socialisti al governo; adotta quindi una politica di logoramento dell’alleato.
Socialisti all’attacco
I socialisti tentano di reagire con una stagione relativamente aggressiva. A fine gennaio 1967 Tremelloni, ministro della Difesa, istituisce una commissione d’indagine sul Sifar e in aprile il governo rimuove il generale De Lorenzo da Capo di Stato Maggiore dell’Esercito nonostante l’opposizione democristiana capitanata da Taviani. In quell’occasione Saragat, d’intesa con Nenni, preme sulla Dc minacciando un messaggio straordinario al Parlamento. Nel 1967 Nenni è particolarmente attivo anche sulla politica estera. Va riconosciuto che con Nenni l’Italia appare più vivacemente presente sulla scena internazionale. Lo stesso “terzomondismo” cattolico vive un periodo migliore rispetto ai contesti centristi e registra l’elezione di Amintore Fanfani alla presidenza dell’assemblea delle Nazioni Unite. Ma se sul Vietnam e sulla Cina all’Onu le iniziative di Nenni sono appoggiate dalla sinistra democristiana ed inevitabilmente apprezzate dai comunisti, è sul Medio Oriente che Nenni entra in conflitto frontale con i comunisti e lo stesso Fanfani. Nenni nella guerra arabo-israeliana del 1967 si schiera con Israele: invoca la pace e l’accordo, ma la sua formula “trattative dirette” tra Tel Aviv e i paesi arabi significa che il diritto di esistenza dello Stato di Israele è indiscutibile. In aggiunta per Nenni si tratta di uno stato non “sionista”, ovvero imperialista, ma di un esempio di socialismo. Inoltre Nenni, in contrasto con il segretario della Dc, Mariano Rumor, schiera il governo a favore dell’opposizione alla dittatura militare greca ricevendo nella veste di vicepresidente del consiglio Andrea Papandreu, presidente del Fronte di liberazione greco.
Ma a mettere in difficoltà i socialisti sono anche i repubblicani che mentre negli anni precedenti si muovevano in “asse” con Nenni e Saragat per tallonare i democristiani ora, anzi, tallonano i democristiani da destra. Ugo La Malfa non è più quello della triade del 1962 che con Fanfani e Lombardi ha capitanato la nazionalizzazione dell’energia elettrica.
Si rende conto del diverso quadro economico in cui operare e propone di adottare una “politica dei redditi” che per la sinistra italiana con la Cgil in prima fila è considerata una scelta reazionaria e antioperaia. Il leader del Pri intende assumere nel centrosinistra il ruolo che era stato di Malagodi nel centrismo e cioè di garante di un liberismo economico e di censore della spesa pubblica puntando a recuperare i voti dell’elettorato che per protesta erano andati al Pli, ma a cui Malagodi non offre uno sbocco positivo rimanendo emarginato e inascoltato. Inoltre il Pri di La Malfa vuol contenere il primato del partito socialista unificato nell’area della “sinistra democratica” e accentua la concorrenzialità attaccandolo non solo da destra sui contenuti della politica economica, ma anche da sinistra mostrandosi più dialogante con i comunisti: da qui i dibattiti di La Malfa con le due “anime” del Pci postogliattiano attraverso convegni nazionali prima con Giorgio Amendola e poi con Pietro Ingrao.
Il partito unificato andando verso le elezioni del 1968 vede poi aprirsi due “falle”: i sindacalisti socialisti e i suoi amministratori locali, sotto la pressione della guida comunista nella Cgil e nelle giunte. La polemica che si registra in occasione delle leggi finanziarie e dei provvedimenti di riforma governative – esemplare il caso delle pensioni – vede i socialisti spaccati agli occhi del loro elettorato tra “governativi” (alleati con la Dc) e “popolari” (alleati con il Pci). E’ questo il principale “vulnus”. Quando si dovrà valutare il cosiddetto “craxismo” bisogna tenere presente come esso maturerà proprio alla luce della lettura critica della somma di tali “pugnalate nella schiena” subite da Nenni.
Nel 1967 e nell’avvicinarsi della scadenza delle elezioni politiche è proprio il dirigente socialista più vicino a Nenni, Giacomo Mancini, che dimostra di avvertire i pericoli del logoramento e di voler reagire. Nel partito Mancini accusa i cosegretari De Martino e Tanassi di “congelare” l’unificazione e a livello di governo, come ministro dei Lavori pubblici, investe il torpore democristiano con iniziative legislative sulla pianificazione urbanistica (con la “legge ponte” 1967) e di denuncia degli abusi e delle speculazioni di fronte alla frana di Agrigento nel settembre 1967. Il favore di Nenni verso Mancini è rispecchiato da Craxi, schierato in quel periodo a sostegno dell’autonomismo aggressivo di Mancini, che instaura una prassi di alleanza conflittuale con la Dc. Si accentua così anche l’appoggio a Loris Fortuna che sempre nel 1967, in giugno, è riuscito a ottenere l’avvio della discussione della legge per l’introduzione del divorzio.
Dopo la diaspora di Lombardi, con Nenni che è vincolato alla posizione di presidente-garante di tutto il partito unificato, e mentre De Martino e Tanassi coltivano il mantenimento di due apparati paralleli come base del proprio potere personale nel nuovo partito, Giacomo Mancini diventa così per i “nenniani” il punto di riferimento nazionale più operativo e combattivo.
La distinzione da De Martino è anche presa di distanza da Tanassi che con Saragat pensa di dar vita a una nuova maggioranza interna tenendo uniti tutti gli ex socialdemocratici e spaccando i socialisti. Mancini reagisce polemicamente nei confronti di Guelfo Zaccaria che sulla sua agenzia stampa ipotizza “la corrente Nenni-Tanassi-Mancini”.
È in questo quadro che in vista delle elezioni politiche del maggio 1968 Nenni candida a Milano Loris Fortuna ed Eugenio Scalfari, il direttore dell’Espresso che era stato protagonista con Lino Jannuzzi delle rivelazioni su manovre golpiste del generale De Lorenzo nel luglio 1964. L’inchiesta del settimanale diventa la conferma della politica seguita da Nenni per evitare il pericolo di svolte a destra e involuzioni autoritarie.
Ma mentre Jannuzzi ha da Mancini la candidatura al Senato in un collegio uninominale sicuro in Campania, Scalari è in lista alla Camera in balìa delle preferenze. Tocca a Craxi proteggerlo e farlo eleggere in quanto, gli dice Nenni, “ne va l’onore del Psi”.
La contestazione globale
Sarà l’insorgere e il successo della “contestazione globale” a speronare l’unificazione. Il neonato ribellismo studentesco si fionda in Italia sorprendendo i tre cosiddetti partiti di massa – la Dc, il Pci e il Psi – tutti governati sin dal 1964 da maggioranze interne di centrodestra. Gli estremisti non fanno differenza tra riformisti e riformatori. Programmazione democratica, lotta antimonopolistica, nazionalizzazioni sono “obiettivi riassorbibili nel sistema”, politiche fallimentari e negative: incapaci di produrre reali cambiamenti, possono invece ingabbiare le lotte operaie. In Italia il Sessantotto non è tanto un’importazione, quanto il punto di arrivo di una contestazione che sin dagli anni cinquanta si è sviluppata nei confronti del gradualismo e si configura quindi come una sorta di “controriforma”: rappresenta la “rivincita” contro l’autonomismo ed il riformismo del 1956 intrecciando il recupero dello stalinismo con le posizioni di critica dello stalinismo “da sinistra”. Radici e specificità del Sessantotto italiano più che nelle aule universitarie di Berkeley e di Parigi o nei testi diMarcuse e dei comizi studenteschi vanno ricercate nei testi degli adulti italiani. È la rivincita dei “nonni”, della sinistra sconfitta nel 1948 e nel 1956.
Il Sessantotto italiano, filocinese e cosiddetto libertario, ripropone soprattutto le tesi dell’anticapitalismo e del terzomondismo che furono soccombenti negli anni sessanta. II Sessantotto riporta a galla e in primo piano le tesi “operaiste” di Raniero Panzieri, secondo cui nelle lotte sindacali del 1962 si esprimeva “una fortissima carica, un fortissimo potenziale, una fortissima tensione non più sindacale”, ma “verso una rivendicazione di potere operaio”. Il “controllo operaio” significa “scardinamento del sistema capitalistico e sua soppressione”. L’analisi da lui condotta viene variamente sostenuta nei vertici della Cgil sul neocapitalismo come processo di “unificazione capitalistica” e di crescente proletarizzazione dallo psiuppino Vittoria Foa e dall’ingraiano Bruno Trentin. “Piano del capitale” e “insubordinazione operaia” sono eletti protagonisti della dialettica sociale. Posizioni che erano state emarginate nella sinistra diventano il “verbo” diffuso e condiviso. Già nel 1964 Mario Tronti aveva teorizzato “il blocco della produzione in punti strategici” per “trascinarsi dietro, con questo tipo di violenza, le vecchie organizzazioni” .
A differenza di quel che è accaduto in Francia, in Italia i comunisti hanno un atteggiamento non di scontro con l’estremismo: se ne differenziano, ma lo comprendono, vantano la Resistenza come propria primogenitura nella lotta armata e animano la concentrazione del fuoco sui “social traditori”, i socialisti che rompendo a sinistra sono andati al governo con i partiti “borghesi”.
Nel Sessantotto inizia così la caduta in disgrazia del socialismo italiano autonomo dal Pci.
Il contrasto che porta Nenni in minoranza nel Psi è di fondo.
Prevale contro di lui la convinzione che ormai il Pci, dopo la “riprovazione” dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, sia un partito autonomo e non più pienamente inserito nel “mondo comunista” che fa capo all’Urss. A ciò si aggiunge la diversità di valutazione della “contestazione globale”: per la maggioranza dei socialisti rappresenta una spinta a sinistra, per Nenni, se non combattuta, porterà alla crescita di un estremismo pericoloso che favorirà invece una svolta a destra.
Nelle capitali della contestazione infatti vincono le elezioni il generale De Gaulle e Nixon.
D’altra parte nel Pci ai primi bagliori del 1968 lo spostamento a sinistra è immediato: Longo apre ai leader della contestazione e rompendo con Amendola fa appello alla “scheda rossa” per le elezioni del maggio 1968. “Longo – ricorda Nello Ajello – appare il garante per i contatti fra la sinistra storica e quell’altra. […] La maggioranza dei sessantottini vota Pci” . I socialisti
al governo diventano il bersaglio principale della contestazione. Sin dall’inizio è quindi rotta di collisione tra contestatori e Nenni.
Nell’Aula Magna della Statale di Milano si grida: “Nenni fascista”, “Socialismo uguale fascismo”, e si decide di boicottare il comizio conclusivo di Nenni in piazza Duomo.
La flessione elettorale
Si arriva così al risultato elettorale che ridimensiona ogni disegno di protagonismo socialista. Si pensava di sfidare l’egemonia comunista e democristiana che invece si riafferma con raggruppamenti che sono più del doppio dei socialisti sia a destra sia a sinistra. Il Psi-Psdi raggiunge il 14,5% mentre la Dc supera il 39 e il Pci avanza sfiorando insieme agli scissionisti del Psiup il 30. Nel partito è subito crisi lacerante. Inutilmente l’Avanti! cerca di sdrammatizzare titolando “Nonostante la flessione confermata la rappresentanza parlamentare”: lo stesso numero di senatori (46) e tre deputati in meno (da 94 a 91). Ma mentre alleati di governo e opposizione di sinistra appaiono vittoriosi è lo stesso Saragat dal Quirinale a mostrare delusione e rabbia.
La maggioranza interna si divide e Nenni è messo in minoranza da De Martino e Tanassi che formano due proprie correnti - Riscossa e Rinnovamento - raccogliendo da un lato gli ex Psi e dall’altro gli ex Psdi. È la dimostrazione di un’unificazione non avvenuta e la prefigurazione della scissione che avverrà l’anno successivo. Nell’immediato De Martino e Tanassi sono alleati in quanto Saragat condivide la proposta che Lombardi aveva lanciato già prima del voto: un “governo ponte” di soli democristiani in attesa di un Congresso socialista di chiarificazione politica. Prevale così la maggioranza del “disimpegno” che apre la strada a un monocolore democristiano presieduto da Giovanni Leone. Il Psu va quindi al Congresso fissato per ottobre con cinque correnti: quelle di Tanassi, di De Martino e di Lombardi più la ricostituita “Autonomia” di Nenni e “Impegno” animata da Giolitti che ha rotto con Lombardi non condividendo il sostegno al monocolore democristiano.
Il recupero al Congresso ci sarà in quanto non sarà certo il Quirinale a patrocinare una prospettiva di instabilità istituzionale e un ruolo di opposizione dei propri seguaci, ma il disfacimento del disegno di unificazione socialista è evidente. Per i nenniani Craxi, alla vigilia del primo (ed ultimo) congresso del Psu, traccia una lettura della crisi socialista: “Vi è più in generale una vera e propria crisi di inefficienza del riformismo.
La predicazione riformista non persuade e non contrasta con fatti probanti, che dimostrino la superiorità del metodo democratico, le spinte estremistiche pseudo rivoluzionarie e protestatarie. Il centrosinistra ha prodotto una dose insufficiente di riforme. Noi rischiamo di giocare un ruolo del tutto subalterno tra una tecnocrazia industriale legata al potere cattolico e un mondo del lavoro in cui la presenza socialista si va indebolendo. Il centrosinistra rischia di divenire una semplice copertura parlamentare”. Le ragioni dell’unificazione socialista – aggiunge – possono ritrovare slancio a suo avviso recuperando la dimensione internazionale che è invece il punto debole del comunismo italiano dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia in agosto e quindi sollecita la condivisione della “piattaforma sulla quale agisce il movimento socialista europeo” al fine di contrastare “le spinte a destra nei maggiori Paesi dell’Europa occidentale”.
Al Congresso nazionale, che si svolge a Roma a fine ottobre, prevale una risicata maggioranza di “Autonomia” – “Rinnovamento” (11 contro 10 nella Direzione nazionale) che porta Mauro Ferri alla segreteria e rielegge Nenni presidente, ma evidenzia anche una forte differenziazione tra i nenniani. Giacomo Mancini guarda con attenzione a sinistra, alla “protesta dei giovani” e alla “vivacità del mondo operaio e contadino”, sollecitando il partito a dare “una risposta alle questioni sollevate dalla contestazione giovanile e dalla ripresa operaia”.
“Il discorso - ricorda Antonio Landolfi che all’epoca era un suo stretto collaboratore - piace poco ai componenti della ristretta maggioranza uscita dal Congresso; piace invece molto alle altre parti del Psi, che vedono in esso tracciata la piattaforma di una svolta politica nella vita del partito” . Si delinea quindi una chiara contrapposizione alla leadership di Mauro Ferri. Inizialmente sembra che l’obiettivo di Mancini sia quello di dar vita a una maggioranza non risicata e meno ostaggio di Saragat. Lo stesso Nenni non scoraggia, e Craxi viene conteggiato ancora tra i “manciniani”.
La nuova maggioranza
La formazione del governo con De Martino vicepresidente e Mancini ai Lavori Pubblici, mentre Nenni è agli Esteri registra una larga maggioranza nel partito sull’atto politico più rilevante. Ma Mancini punta alla segreteria e persegue non un allargamento, ma un rovesciamento della maggioranza.
Egli pensa che lo spostamento a sinistra possa costituire un’operazione di rilancio del partito senza traumi, in quanto è fuori discussione la partecipazione al governo presieduto da Mariano Rumor. Ma l’alleanza tra Mancini e De Martino con l’appoggio di Lombardi significa l’emarginazione dei socialdemocratici e in primo luogo di Saragat. A dare l’annuncio della svolta in termini entusiastici sono appunto i comunisti con il loro quotidiano romano Paese Sera, che l’8 maggio 1969 titola il pronostico: ”Mancini segretario del Psi”.
Il Quirinale diventa il quartier generale della reazione a Mancini.
Saragat con Nenni è perentorio: “La scissione è un dramma, una sciagura, una rovina, ma c’è qualcosa di peggio della scissione e cioè il cedimento ai comunisti” . Pietro Nenni si dissocia e tenta una mediazione dando vita a un “gruppo di equilibrio”. Aderiscono, tra i primi, insieme a Bettino Craxi, Rino Formica, Mario Zagari, Achille Corona e Lelio Lagorio con Venerio Cattani che era con De Martino, l’ex socialdemocratico Michele Pellicani e Loris Fortuna che lascia Giolitti. È il nucleo del gruppo ormai ristretto di “nenniani” destinato a rimanere nel Psi in minoranza. Il 14 maggio si riunisce il comitato Centrale, Nenni prende la parola dopo che Mauro Ferri, Mario Tanassi e Giacomo Mancini hanno tracciato la linea di demarcazione che prefigura la rinascita dei due partiti. “Credo di non sbagliare – afferma l’anziano leader - se dico che il primo risultato di una scissione sarà di ridurre enormemente la presenza socialista.
Credo di non sbagliare se dico che il pericolo è quello per gli uni precipitare nell’orbita del moderatismo; per gli altri precipitare nell’orbita del comunismo. Non nego l’onestà dei compagni. So che quando qualcuno viene alla tribuna a dire né frontismo né centrismo a questo pensa. Ma fra credere e potere ci sono di mezzo molti ostacoli e l’elemento che dà credito a quello che vogliamo è la forza politica in grado di esprimersi in termini di autonomia e di indipendenza”. E mette in guardia dal pericolo che poi si realizzerà: “Chi può escludere una involuzione moderata in Italia? Qui da noi in Italia una scissione aprirebbe la via al pieno successo del moderatismo”.
La ricerca di una tregua ottiene però solo un rinvio della riunione del Comitato centrale del Psi che serve a prepararsi meglio alla scissione in entrambi gli schieramenti. Inutilmente dal seno della stessa “nuova maggioranza” si levano voci per evitare la scissione. Giacomo Brodolini, ministro del Lavoro, dalla clinica in cui è ricoverato scrive una “lettera aperta” a Nenni in cui afferma: “Trovo necessario salvaguardare l’unità del partito”. E Luigi Mariotti, ministro dei Trasporti, avverte: “Scindersi può significare aprire la via del potere alla destra del Paese. Scindersi significa creare un alibi alla Dc”. Quando il Comitato Centrale si riunisce il 4 luglio all’Eur di fronte alla “nuova maggioranza” che si accinge a prendere le redini del partito, Bettino Craxi, intervenendo a nome dei “nenniani”, mette in guardia Mancini dalla presenza determinante di chi, come Gino Bertoldi, è “storico oppositore del revisionismo del 1956 e del processo che portò prima al centrosinistra poi all’unificazione socialista”. È tutta la politica socialista condotta autonomamente dal Pci sin dal 1956 che rischia di essere messa sotto accusa finendo così su “una posizione che mette il partito disarmato di fronte alla polemica comunista”. Mancini non ha esitazioni e con De Martino e Giolitti - 58 voti contro 52 - mette in minoranza Nenni che aveva presentato un documento di ricomposizione accettato da Ferri e Tanassi.
Saragat dal Quirinale capeggia la scissione anche in vista di una sua ricandidatura al Quirinale e la “nuova maggioranza” conquista il partito pensando di aprire una stagione politica di spostamento a sinistra. Ma, ovviamente, la “guerra civile” tra i socialisti regala alla Democrazia cristiana il ruolo di arbitro e di dominus politico in quanto ognuno dei partiti socialisti cerca in essa il proprio punto di forza contro l’altro: inizia la stagione della maggior subalternità socialista alla Dc che, a sua volta, apre il confronto diretto con i comunisti ipotizzando tra i due partiti maggiori ora la convergenza ora la contrapposizione tra blocchi rispettivamente egemonizzati.
Durerà dieci anni con elezioni anticipate, monocolori Dc, maggioranze con o senza Pci, governi di centrodestra e di centrosinistra, ma sempre con i socialisti in calo al di sotto del 10%. “Fare politica – aveva affermato Pietro Nenni nel Comitato Centrale di maggio – sarebbe il mestiere più facile del mondo, se non comportasse l’obbligo di domandarsi cosa succederà il giorno dopo aver preso una certa decisione”.