L’ACCORDO DEL SECOLO di Alberto Benzoni del 1 febbraio 2020

01 febbraio 2020

L’ACCORDO DEL SECOLO di Alberto Benzoni del 1 febbraio 2020

Così Trump chiama il suo piano di pace. E’ il suo stile grossolano e incontinente. Ma è anche un lapsus, magari volontario. E’ come dire: "è da cent’anni, dall’indomani della dichiarazione Balfour, che voi palestinesi ci avete assillato con i vostri problemi, ostacolando in ogni modo la realizzazione del grande sogno degli ebrei di tutto il mondo. Adesso intendiamo risolverli, una volta per tutte, chiudendo così la questione. Fareste bene allora ad accettare una proposta che è anche nel vostro interesse; perché, nel caso contrario, tutto quello che vi succederà sarà solo colpa vostra”.
Vediamola allora questa proposta. Nella sua gestazione. Nella sua sostanza. E nelle reazioni che ha suscitato. Il tutto ricondotto al tema centrale della nostra riflessione: le prospettive che chiude ma anche quelle che apre ai palestinesi.

Il testo dell’"accordo del secolo” è lungo 180 pagine ed è molto dettagliato in ogni sua parte. E’ dunque il frutto di una complessa elaborazione di due cervelli collettivi in cui quello israeliano ha certamente avuto un ruolo superiore a quello americano. Una gestazione da cui è stata totalmente e volutamente esclusa la controparte palestinese. Un po’ come avvenne a Monaco nel 1938, quando i dirigenti occidentali accettarono la liquidazione della Cecoslovacchia senza sentire il suo parere. Ma con due non piccole differenze. La prima è che allora i dirigenti occidentali si trovavano in una situazione di assoluta emergenza in cui l’alternativa era la guerra; mentre oggi l’operazione è compiuta a freddo e in tutta tranquillità. La seconda è che, allora, c’erano due parti a confronto con la totale vittoria di una di esse; mentre oggi, a decidere, c’è un solo protagonista, che si chiami Trump o Netanyahu.
Gli altri, selettivamente cooptati o totalmente ignorati. I paesi arabi sono stati chiamati in causa solo nel loro ruolo di ufficiali pagatori; anche nella comune consapevolezza che chiedere loro un qualsiasi parere sull’accordo gli avrebbe messi in difficoltà. All’Europa (o presunta tale) che pure mantiene in piedi con i suoi fondi l’Autorità palestinese e il sostegno ai rifugiati, nemmeno una telefonata o un messaggino sms. Per la collettività internazionale, le sue istituzioni e le sue risoluzioni sputi in faccia (purtroppo in larga parte meritati).

Del resto, il dialogo a due, leggi il monologo americano/israeliano, è scritto anche nell’accordo: dove Israele incassa, da subito e comunque vadano le cose, l’annessione del’area coperta dai suoi insediamenti, mentre il riconoscimento dello stato palestinese (con annesso blocco, temporaneo, degli insediamenti stessi) è subordinato a una serie infinita di condizioni di cui discutere in un secondo momento.

Non si tratta, dunque, di un progetto di accordo. Né nella forma né nella sostanza. Ma di una proposta comune israelo-americana; che assume, nei confronti dei palestinesi, le vesti di un ultimatum. Più o meno nei termini descritti all’inizio di questa nota. “La nostra offerta è generosa. Se la accettate avrete un sacco di soldi e pure uno stato. Se dite di no non avrete nulla di tutto questo; anzi la vostra situazione peggiorerà, e di molto”.
Siamo all’alternativa del diavolo. E per tante ragioni. Perché parte dall’esistente dandogli una veste formale e definitiva. Le centinaia di migliaia di coloni sono lì e nulla e nessuno potrà farli ritornare da dove sono partiti o addirittura accettare di vivere sotto la sovranità palestinese. E aggiungiamo che i sullodati coloni sono già cittadini israeliani a tutti gli effetti. E allora l’annessione non cambierà nulla al di là, appunto, della legittimazione dell’esistente. E, ancora, perché gli arabi nei territori occupati vivono già in regime di bantustan; e chiamarsi stato con bandiera, inni e rappresentanze diplomatiche (quanto bastava a soddisfare la vanità di Arafat) non muterà il loro status. E, infine, perché la logica dell’accordo riflette, ma in una situazione infinitamente peggiore rispetto a quella del 1993, quella di Oslo. Un recipiente carico di promesse - dialogo, collaborazione, gestione comune di problemi come passaggio per arrivare senza scosse ad un accordo definitivo - ma in realtà svuotato sin dall’inizio dal diritto del più forte di stabilire, a suo piacimento, cosa concedere e, soprattutto, cosa togliere.

Per altro verso, l’alternativa del diavolo, non va affatto intesa in senso biblico. Ma del tutto laico. Perché significa non soltanto che la dirigenza palestinese è sospesa per l’aria tra un sì che non può dire (perché sarebbe la rinuncia definitiva ad un obbiettivo perseguito lungo l’arco di decenni) e un no che non può pronunciare alla leggera perché sottoporrebbe il suo popolo ad ulteriori sofferenze. Ma anche che i palestinesi sono, nel decidere, assolutamente soli: nessuno a difendere la loro causa, tutti a guardare dall’altra parte e, ancora, nessun’altra prospettiva per cui lottare, ridotta, nel migliore dei casi, a caricatura di se stessa quella dei “due popoli due stati”.

Veniamo, allora, alle reazioni suscitate dal progetto. A partire da quelle, vergognose ma tutto sommato irrilevanti, della cosiddetta collettività internazionale. Per finire, passando per il mondo arabo, con quelle delle parti in causa.

Nel primo caso, il clima è di indifferenza se non di malcelato fastidio. Per anni, l’Europa, per non dire l’Onu e i vari mediatori a contratto (Tony Blair, ovviamente, il peggiore di tutti: non pago di avere svolto solo nominalmente il ruolo di mediatore tra israeliani e palestinesi, che dico tra Israele e il mondo arabo, ha offerto i suoi consigli ben retribuiti ai satrapi delle repubbliche centroasiatiche per comparire, infine, come consulente del governo indonesiano per la scelta della nuova capitale. Il tutto, magari, in nome della terza via), hanno dormito, cullati dalle voci sull’arrivo di nuovi piani di pace e dalla formula magica dei due popoli due stati. Pretendere che ritornino in una scena da cui sono stati esplicitamente esclusi, rispondendo all’appello di dirigenti palestinesi vecchi, stanchi e pateticamente irrilevanti sarebbe, allora, pretendere troppo. Di solidarietà e di “causa” neanche a parlarne; hanno, abbiamo già dato, fino a riempire i nostri armadi di keffieh oggi praticamente inutilizzabili. E, allora, non siamo né per il sì né per il no; in attesa di ulteriori informazioni.

In Medio oriente il quadro è sostanzialmente simile (scontato il no indignato, ma a futura memoria, di Turchia e Iran; per il resto, varie sfumature di grigio, che al massimo sfiorano ma senza raggiungerle le aree del sì e del no).

Ma è anche un quadro in cui la cautela non è certo il frutto di impotenza congenita o sopravvenuta ma di calcoli precisi; e in cui le varie posizioni sono frutto di calibrate scommesse sulll’altrui e proprio futuro.

In questo quadro , a sorprendere non è tanto l’assenza dei no quanto l’estrema riluttanza a dire apertamente il proprio sì.

Il “no”, irrilevante se individuale, significativo solo se collettivo, sarebbe stato giustificato come fedeltà alla causa palestinese. Fedeltà moralmente dovuta (almeno per come la vedo io): ma per la quale, a differenza del resto del mondo, i paesi arabi “hanno già dato”; un’infinità di guerre, tutte perdute, quindici anni di guerra civile in Libano, sofferenze e lutti per i popoli; per tacere della perdita della Cisgiordania in none di una malriposta “solidarietà araba”. Riproporla, oggi, sarebbe stata un atto puramente simbolico. E non a caso, il paese arabo a esprimere le maggiori riserve sull’accordo del secolo sia stata proprio la Giordania, ma per ragioni tutte politiche.

In concreto perché consapevole che, almeno nella logica della destra israeliana, il sullodato accordo significa annessione e nient’altro; e che il no allo stato palestinese in Palestina contiene in sé la proposta, non nuova del “fatevelo in Giordania”.

Ma qui stiamo parlando del passato. Mentre a contare, nel presente, sta il fatto che il sì esplicito non c’è stato; e, di più, che sia mancato qualsiasi giudizio di merito sulla natura del piano.

E’ l’atteggiamento di chi non può dire di no né chiamarsi fuori dalla vicenda. O, detto in altro modo, di chi si posiziona in una zona grigia in attesa degli eventi. Da una parte non si può dire di no a Trump per tantissime ragioni: antichi e solidissimi rapporti, necessità vitale del sostegno americano e israeliano nei confronti della minaccia iraniana. Dall’altra, si è perfettamente coscienti che il destino di Trump e del suo progetto è quanto meno incerto; e non in un futuro lontano ma qui e ora.
E qui veniamo alle parti in causa. Cominciando col dire che il no palestinese (espresso, per inciso, da un assise cui hanno partecipato anche Hamas e islamisti più o meno radicali) era scontato in partenza, così come la sua modalità: fermezza dignitosa nei toni, minimo sindacale nelle reazioni (giornate di collera ma senza violenze, razzi d’ordinanza sparati ma senza causare né danni né vittime, richiami ai propri diritti e al diritto internazionale dovuti ma percepiti in partenza come inutili).

Scontati, perché gli unici possibili; e gli unici razionalmente corretti.
Molto più forte, invece, e solo apparentemente paradossale, il no della destra israeliana. Questa ha interpretato “l’accordo del secolo” non nella sua veste formale – annessioni, più stato palestinese, più grandi progetti d’investimento per migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti - ma nel messaggio politico che contiene e che è rivolto specificamente a sostegno di Netanyahu: via libera alla politica delle annessioni, indifferenza per tutto il resto. Formalmente, dunque, quello della destra nazionalista e religiosa è il no all’accordo, nella misura in cui prevede la costituzione di uno stato palestinesi cui la destra nazionalista si oppone ferocemente e senza la quale Netanyahu non potrebbe governare; mentre sostanzialmente è un sì all’assist di Trump: "afferrate tutto quello che potete e subito; poi si vedrà ma potrete comunque contare sul mio sostegno”.

A questo punto scompaiono dell’orizzonte il progetto, il secolo, gli europei, gli arabi e, nell’immediato, anche i palestinesi. Perché tutto si gioca sulla sorte di due compari, Donald e Bibi legati tra di loro per la vita e per la morte: e su due date. Una prossima: il 5 marzo, elezioni israeliane; la prima settimana di novembre, presidenziali Usa.

Devono vincere tutti e due: perché, senza Netanyahu, la strategia di aggressione permanente di Trump perde un puntello fondamentale; e senza Trump, Netanyahu non va da nessuna parte.

L’esito è, allo stato, del tutto incerto. E dipenderà dagli degli antagonisti e dalla forza, anche emotiva, del loro messaggio.

Una cosa è, invece, certa; che, comunque vadano le cose, il progetto del secolo morirà ancora prima di nascere. Se vincerà il duo, perché sarà abbandonato dai suoi stessi autori; magari, a loro dire, perché i palestinesi non lo condividono. Se vinceranno gli altri perché sarà rimesso nel cassetto, magari (ma non ci crediamo molto) per rielaborarne un altro; anch’esso, come questo, destinato a morte precoce.
Rimarranno, però, i palestinesi. Certo la loro “questione”rimane accantonata in un Medio oriente travagliato da mille altre e non in grado di risolverne nessuna; e con essa la scorta di possibili progetti di pace, basati tra l’altro su di un’ipotesi - due popoli, due stati - più inattuale che mai.

Certo, i loro gruppi dirigenti, compreso quello di Hamas, sono più screditati e etero dipendenti che mai; anche perché la loro stessa esistenza in vita dipende da altri.
Certo questi stessi dirigenti hanno commesso una serie di errori e primi tra i quali il rifiutare, nell’arco di un secolo tutti i possibili compromessi (per poi trovarsi sempre più deboli di fronte ad avversari sempre meno disposti al compromesso) e la convinzione di poter sempre ricorrere al soccorso esterno - arabo, americano, della collettività internazionale - in caso di necessità.

Rimarrà, però, la gente. Otto milioni di persone. Che rimangono lì nonostante le miserie della loro vita quotidiana e le vessazioni individuali e collettive di cui sono oggetto. E nonostante il fatto che questo orizzonte appaia, in qualche modo, immodificabile: né con l’azione politica, né con il ricorso alla violenza, né con la pratica quotidiana.

Otto milioni di persone. Che non possono essere né eliminate (parlare di genocidio nel nostro caso è un atto politicamente criminale) né espulse, né sottomesse né cancellate dal nostro orizzonte. Otto milioni di persone che diventeranno domani, ne siamo certi, protagoniste del loro futuro.

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