Intervista a Guglielmo Epifani: “Resto in Cgil. Veltroni in Europa stia con i socialisti”. Intervista a cura di Tonia Mastrobuoni, da Il Riformista, 4 febbraio 2009

17 marzo 2009

Intervista a Guglielmo Epifani: “Resto in Cgil. Veltroni in Europa stia con i socialisti”. Intervista a cura di Tonia Mastrobuoni, da Il Riformista, 4 febbraio 2009

È ufficiale: Guglielmo Epifani non si candida alle prossime elezioni europee. La crisi economica e la spaccatura con Cisl e Uil hanno convinto il segretario generale della Cgil a dire di no al Pd per la terza volta negli ultimi cinque anni. In un forum che si è svolto nella sede del Riformista, Epifani dice la sua sul Pd, «il partito che ho votato e che voterò», spronandolo a sfidare apertamente la Lega ed esortandolo a tornare sul territorio e nei luoghi di lavoro: «Un grande partito di massa deve avere le antenne nel paese reale». Epifani, che si definisce «un socialdemocratico», dice che il Pd non si esaurisce certo in un partito del lavoro ma deve avere il lavoro al centro della sua azione politica, aderire al gruppo del Pse in Europa, essere chiaro sulla laicità. Nessuna nostalgia per Ds e Margherita, ma il maggior partito dell'opposizione deve essere in grado di formulare per tempo una posizione unitaria sulle questioni sociali, a partire dalla riforma dei contratti. Senza una riflessione sui grandi temi del lavoro e del welfare, rischia di dividersi ogni volta che si divide il sindacato. Epifani entra poi nel merito della riforma dei contratti e spiega perché ritiene che Confindustria abbia commesso un errore strategico: con il nuovo criterio per gli aumenti, legato all'inflazione energetica, le aziende rischiano di rimetterci, nel 2009 e 2010. Rischiano una «piccola scala mobile» a causa dal crollo del costo dell'energia. Sul governo, Epifani è netto: non ha fatto niente, per combattere la crisi, non sta neanche mettendo al riparo le banche dalle prossime ondate di crac finanziari. E non difende abbastanza la Fiat, che non dà lavoro soltanto al nordovest, ma anche a tremila piccole e medie imprese nel resto del paese.
Epifani, il Pd le ha chiesto di candidarsi alle prossime elezioni europee? Mi era già stato chiesto di candidarmi, sia alle ultime politiche sia alle penultime. Ma non c’era mai stato alcun impegno, rispetto alle europee. Già da quattro mesi avevo detto che sarei rimasto in Cgil. Adesso la crisi, la disoccupazione e l’accordo separato rendono più forte quella decisione. Il mio è un senso di responsabilità verso la funzione che svolge un sindacato, tanto più in un periodo di crisi. Inoltre, non è ancora pronto il quadro della mia successione. Lo sarà tra due anni. Io sono un socialdemocratico e il Pd è il partito che ho votato e che voto. Però a mio parere è anche frutto di un processo politico accelerato e si sono fatte delle forzature che pesano, col senno di poi. Su alcuni temi di fondo, come la laicità o l’appartenenza europea, i problemi restano. E si sapeva già allora che sarebbero emersi. Il Pd dovrebbe aderire al Partito socialista europeo? Una forza progressista, in Europa, o sta lì o non capisco dove possa stare. Il Pd è una forza progressista e non può che stare lì. Se deve stare in Europa, ci stia nel pieno dei poteri, altrimenti rischia di incidere meno. Zapatero sta lì, Gordon Brown sta lì, i socialisti francesi stanno lì. Che senso ha per un grande paese europeista come l’Italia avere il maggiore partito dell’opposizione che non appartiene a una delle grandi famiglie del Parlamento? Lei pensa che il Pd sia un partito del lavoro? No, a mio parere non si esaurisce in quella definizione. Però è un partito che, per la sua base elettorale e per i suoi consensi, prende molti voti all’interno del lavoro. Sono tantissimi gli elettori nel lavoro pubblico, soprattutto nella scuola, ma anche nell’impiego pubblico e nella sanità. Il Pd prende anche nel mondo del lavoro privato, anche se il voto operaio ha preso da vent’anni una diversa direzione. Lei ha nostalgia di Ds e Margherita? No, tornare indietro mi pare oggi impossibile. Non ci sono già più le due grandi famiglie di provenienza. Del Pd mi piace l’idea di una grande forza rappresentativa: non possiamo andare avanti con partiti piccoli o partiti un po’ cesaristi come rischia di essere il Pdl. Abbiamo bisogno di partiti grandi anche perché, quando non sono cesaristi, sono anche più democratici. Quando hai opinioni diverse al suo interno devi per forza avere delle regole. Invece il partito piccolo è personale, è per forza il partito di uno, come quello di Di Pietro. Soprattutto, il Pd deve essere capace di governare. Quando noi andiamo nelle fabbriche a parlare della crisi, in questo periodo, a spiegare che il governo commette degli errori madornali e che bisogna fare questo o quell’altro, i lavoratori ci rispondono: «sì, ma chi lo fa?». Non vedono alternative. C’è il governo ombra... Guardate, la verità è questa: malgrado la crisi, Berlusconi continua ad avere un consenso enorme. Perché la gente percepisce che, con tutti i limiti, il governo Berlusconi sta lì, mentre dall’altra parte il Pd non è pronto. Se il governo cadesse, il centrosinistra sarebbe del tutto impreparato. In realtà, ci sono problemi sia nel centrodestra sia nel centrosinistra. Ma questa difficoltà di transizione incontra una società molto più magmatica, fluida e molto più inquietante che in passato. Molto ripiegata su di sé, piena di paure, molto aggressiva. E la crisi la renderà ancora più aggressiva. I fatti di cronaca di questi giorni non sono fatti occasionali, sono frutto qualcosa che c’è, che continuerà ad esserci. E la politica che può fare? Una volta la politica era in condizione di percepire questi umori e di guidarli. Il compito della politica è non solo di rappresentare quello che c’è, ma anche di guidare - non curandosi giorno per giorno dei sondaggi - lungo valori e programmi che ritiene giusti. Questo compito della politica oggi non c’è. Non c’è nella destra, c’è troppo poco nel centrosinistra. E questo mi preoccupa. Le forze del centrosinistra hanno bisogno come il pane di avere dei valori forti. Se il Pd non può occuparsi solo dei più deboli, non può certo dimenticarli. Non mi riferisco solo ai diritti dei migranti, anzi, su quello devo dire che il Pd sta facendo una battaglia molto, molto forte. Dimostra anche attenzione verso gli ultimi: ma se questi valori non vengono riassunti in programmi forti, che abbiano anche il coraggio si sfidare un po’ di impopolarità, secondo me si corre il rischio di non aiutarli. Il risultato sarà la crescita dell’astenzionismo e della disaffezione e la mancanza punto di riferimento per tutto. Non a caso ho sempre detto a Veltroni e Bersani: non basta che il Pd dica le cose che dice o faccia le manifestazioni. Deve stare in mezzo alle persone, deve farsi vedere lì. Deve capire il paese reale. Alle ultime elezioni è emersa la forza della Lega, proprio nelle fabbriche. Non è vero che sul territorio non c’è nessuno. Io non ho mai pensato che il sindacato da solo o un partito da solo possano esaurire tutti i problemi dell’appartenenza o della battaglia ideale. Ma c’è una cooperazione che anche il sindacato o il partito più autonomo devono mettere in campo: i valori di fondo devono coincidere. Sulla Lega lo so bene qual è il fenomeno e secondo me va fatta una battaglia esplicita, da parte del Pd. Quando Maroni dice ieri (lunedì, ndr) che bisogna essere «cattivi» con i migranti, io mi chiedo: ma può un ministro parlare così? C’è una caduta di senso istituzionale che mi preoccupa. Quando Brunetta dice «la Cgil è il mio nemico», ma è tollerabile? Potrà dire che sbaglia, che non condivide. Ma «nemico» vuole dire che è l’avversario da distruggere. Pensa che l’autonomia dichiarata del Pd dai sindacati sia un errore? L’autonomia è una ricchezza. Ma se il Pd prende riferimento il mondo del lavoro o ha una sua opinione, deve formularla prima, sul merito. Questo è il problema: se ha una sua posizione, può incrociare la Cisl, alla Cgil, la Uil, ma sulle grandi questioni fondamentali deve avere un punto. Quello della democrazia non è un punto irrilevante. Il tema della rappresentatività deve avere un punto di vista. Parliamo della Fiat: una parte del governo è contraria agli aiuti. Aiutando la Fiat si aiutano 3000 piccole e medie imprese, delle quali 2600 stanno a Roma e al Nord. Non si può usare la Fiat, l’ho detto anche a Palazzo Chigi, come una metafora del fatto che aiuti solo la grande impresa o una parte. È vero il contrario: se tu aiuti la Fiat, aiuti una fabbrica di Torino che ha i più grandi stabilimenti al Sud e dà forniture al Centronord. Tutta la fornitura è nel Nordest. Durante l’ultima crisi Fiat, i primi a chiudere furono i fornitori del Nordest. Ma che politica industriale è quella di dire «il piccolo è bello» come se vivessimo su un’isola? Ma che idea ha, la Lega, del paese? Allargando il campo, dice Berlusconi che stiamo meglio degli altri paesi. Se intendiamo dire che il nostro sistema bancario sta meglio degli altri, è vero. Ma perché abbiamo fatto crescere – a differenza degli altri – tante realtà bancarie piccole legate al territorio. Banche popolari, agricole, cooperative: quel tessuto è la forza del nostro sistema bancario. Noi pensavamo alle grandi aggregazioni, invece la nostra forza stava lì. Si tratta di banche che non solo non hanno investito in derivati ma che fanno raccolta nel territorio e reinvestono lì. Le tre grandi ggregazioni hanno qualche problema, è vero, ma anche perché hanno speso molto per fondersi: nel momento in cui è arrivata la crisi si sono ritrovati con una capitalizzazione un po’ al limite. Cosa chiede al governo? Prima cosa, bisogna mettere in sicurezza le banche. Non dimentichiamoci che la crisi non è finita. Ci vuole poco a metterle in sicurezza, non si è fatto nulla. Il provvedimento di Tremonti è fermo perché le banche non sono d’accordo. Prima che arrivi la prossima tegola, proteggiamole ma senza fare prestiti da usura o condizioni capestro, senza legare l’ingresso nella proprietà, ad esempio, a riassetti del management. In cambio, si chieda alle banche di riaprire i rubinetti del credito. Che è fermo. Sul terreno sociale, la prima cosa sono gli ammortizzatori sociali. Ormai te lo spiegano tutti gli economisti che di fronte alla crisi la cosa che aiuta di più è la domanda. Anche lì, siamo fermi. Insomma gli otto miliardi non esistono, le Regioni pensano in ogni caso che più di due non si possono dare, il governo non vuole mettere nulla. Siamo in una situazione totalmente ferma. E la cassa integrazion si sta esaurendo. Perché il governo non fa nulla, secondo lei? È questo il vero mistero. Gli 80 miliardi di Berlusconi di ieri sono gli stessi del Tremonti di mesi fa. In realtà il governo ha messo sulla crisi soltanto cinque miliardi. Tremonti è preoccupato per lo spread tra i nostri Btp e i Bund tedeschi e teme che le aste vadano deserte. Ma in tempi di crisi l’unica cosa che la gente sottoscrive sono i buoni garantiti dallo Stato. Il rendimenti sono scesi moltissimo. Quel margine in più che dai all’investitore internazionale sul differenziale tra gli interessi con i tedeschi, lo recuperi tutto e abbondantemente con i Bot a tre mesi o a sei mesi. L’altra obiezione è: la solidità di un paese in tempi di crisi si vede solo da questo? O anche dal fatto un governo che prova a dare un sostegno alla domanda? Il nostro peggioramento dei saldi deriva dal fatto che il nostro denominatore, il Pil, sta precipitando. E Tremonti che fa? Niente. Dunque sta dicendo che il vostro sciopero solitario di dicembre non ha prodotto risultati. Ammetto, sono scarsi. Ma i primi a chiedere un tavolo sull’auto lo chiedemmo prima di tutti, prima di Confindustria. Vogliamo dirci qual è l’altra stranezza? Che la Marcegaglia due mesi prima del precipitare della crisi ha detto che ne eravamo fuori e che la finanziaria andava bene. A noi c’hanno andato degli irresponsabili. E l’altro giorno Confindustria ha detto la mattina che c’erano 250mila posti andati persi nell’edilizia, il pomeriggio 300mila nell’auto, in un solo giorno 600mila. C’è qualcuno che pensa che sia il momento ideale per fare delle riforme strutturali. Penso che l’unica riforma da predisporre sin d’ora sia quella degli ammortizzatori sociali. Quanto alla tanta discussa sentenza europea che ci obbliga ad allineare l’età pensionabile delle donne e degli uomini, io propongo di ripristinare quello che Maroni aveva tolto: l’età flessibile in uscita del sistema contributivo. La legge Dini aveva fissato un range: 57 o 62, ma uno poteva uscire un po’ prima o un po’ dopo, con vantaggi e svantaggi per la pensione. A regime, il sistema reggeva l’equilibrio. Non pensa che sia un problema, la spaccatura sindacale che è emersa sulla riforma dei contratti, in questo momento difficile? Ovvio che è un problema: un paese attraversato da una crisi come questa richiede un sindacato unito. Perciò avevo proposto di affrontare assieme la crisi che è la priorità e poi trovare tempi e modi per affrontare lam riforma. Invece si è voluto precipitare tutto. Il governo ha voluto isolare la Cgil, con Cisl e Uil che sono stati dentro questo gioco. Anche Marcegaglia, alla fine. Purtroppo. Perché non è d’accordo con l’intesa quadro firmata senza di lei? Perché non è innovativa. Perché riduce la copertura salariale nel contratto nazionale senza allargare la contrattazione, cioè il secondo livello. Perché contiene principi di corporativizzazione dei rapporti tra le parti che secondo me sono sbagliati. Anzitutto, per anni ci hanno detto che bisognava allargare il secondo livello. Quando noi abbiamo proposto di sperimentare quello di filiera, di istretto, Confindustria ha detto di no. Ha chiesto espressamente, anzi, di usare la stessa formula del ’93, «secondo la prassi in atto». Sul contratto nazionale, eravamo tutti d’accordo che almeno l’inflazione doveva coprirla, per due motivi non lo fa. Anzitutto, il valore di calcolo degli incrementi viene abbassato per tutti. Secondo, perché l’inflazione revisionale europea depurata della quota energetica rischia quasi sempre di far pagare ai lavoratori la bolletta due volte. Perché «quasi» sempre? Perché quel criterio è molto rigido. E nel 2009, siccome c’è stata una forte deflazione dell’inflazione importata di energia, darà più dell’inflazione reale. Sul periodo lungo, è ovvio che sarà uno svantaggio. Ma paradossalmente, nel primo anno e mezzo, ha esattamente l’effetto opposto. La verità che Confindustria non dice è che quest’anno le aziende in crisi pagheranno più cara l’inflazione, con il nuovo modello contrattuale. Si ritroveranno una piccola scala mobile. Terza obiezione, la «corporativizzazione», si riferisce agli enti bilaterali? Certo. Un ente bilaterale deve fornire servizi. Ma con un limite. Se Sacconi dice che dà l’indennità di disoccupazione a tutti purché la eroghino gli enti bilaterali, sapete cosa vuol dire? Che se un’azienda non è iscritta a un’ente bilaterale, i lavoratori non hanno diritto all’indennità di disoccupazione. Non si possono corporativizzare i diritti. Se l’ente bilaterale fa formazione, collocamento, gestisce le polizze assicurative e le impone alle aziende, dove va a finire la libertà delle aziende? Secondo lei perché Veltroni dice che avete sbagliato a non firmare? Veltroni pensa che un accordo così, senza la Cgil, non regga, anche se pensa che contenga delle cose buone. Ma sulle grandi regole, se tu dici che richiedono l’accordo di tutti, se affermi le stesse cose di Ciampi e di Carniti, la prima cosa riassume la seconda. Voglio fare un paragone: è come pensare di fare la costituzione senza il più grande partito del paese. C’è tempo per un’ultima domanda: cosa pensa della vicenda Englaro? Penso che uno Stato si regga sulle leggi, secondo me è legittima la battaglia per cambiare o per fare le leggi. Ma se c’è la legge, si rispetti la legge. Lo faccio anche io, quando faccio gli scioperi. Sul caso specifico, sono per lasciare la decisione in capo al padre, meno se ne parla, meglio è. È una di quelle questioni di difficilissima, difficilissima lettura in cui bisognerebbe forse affidarsi all’amore di un padre.

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