INTERVENTO. L’OPA MITTAL SU ARCELOR – di Antonio Gozzi, da Il Riformista del 7 febbraio 2006
21 febbraio 2006
La proprietà e lo stato contano. Perché bisogna fermare gli indiani e difendere il futuro dell’industria europea
Il tentativo di take-over ostile su Arcelor (secondo produttore mondiale di acciaio e primo europeo) da parte di Mittal (primo produttore mondiale di acciaio di proprietà dell'omonima famiglia indiana) ripropone – se mai ve ne fosse bisogno – il tema dolente del futuro dell'industria europea e non solo di quella di base. In qualche modo ne costituisce, anzi, una rappresentazione emblematica chiarendo i rischi prospettici del declino e del passaggio progressivo di proprietà dalle mani deboli e malferme del capitalismo nostrano a quelle forti al limite della brutalità degli “animals spirits” dei vari capitalismi orientali e asiatici. Sostenere che le proprietà siano tutte uguali e che bisogna lasciare agire il mercato e la sua “mano invisibile” anche in contesti come quello europeo segnati da progressivo spiazzamento competitivo e da incipienti crisi sociali è una grande idiozia e/o una grande ipocrisia, ascrivibile soltanto alla pigrizia dei sostenitori di una sempre meno sopportabile retorica “mercatistica”.
Da questo punto di vista i francesi, anche se parte in causa e toccati sul vivo dalla vicenda Arcelor (che ha in Francia il suo nucleo storico più forte provenendo il gruppo almeno per la metà dalla gloriosa Usinor) hanno ragione e sono stati gli unici in questi giorni a parlare il linguaggio della verità. In particolare il primo ministro De Villepin in una intervista televisiva, a tratti tesa, ha sostenuto che l'Europa non può accettare passivamente di perdere il controllo delle proprie principali industrie, e non lo può fare perché, essendo le sue industrie in molti casi più deboli di quelle asiatiche e americane, vi è il rischio che le acquisizioni ostili dall'esterno siano fatte principalmente per conquistare le quote di mercato europee (quelle sì ancora ricche e interessanti) e non rappresentino che i prodromi di smantellamenti e chiusure delle produzioni locali i cui costi sociali ricadranno, inevitabilmente, sulle spalle dei contribuenti europei.
Troppi sono gli esempi, anche all'interno dell'Unione, dell'importanza e del ruolo cruciale della proprietà delle imprese e della sua determinante capacità di indirizzo dei processi e delle decisioni strategici, dei connessi orientamenti culturali e di responsabilità sociale, nonché delle ricadute delle decisioni prese sui territori di riferimento. Per rimanere al mondo siderurgico non si ricorderà mai abbastanza l'esempio recente della chiusura da parte della Krupp-Thyssen della produzione di acciaio magnetico a Terni. In presenza della necessità di ristrutturare verso il basso la capacità installata (non comprendendo che di lì a poco la domanda mondiale sarebbe riesplosa) Krupp2 Thyssen non ha sacrificato l'impianto più inefficiente (quello tedesco) ma quello più lontano dal cuore della proprietà (quello italiano). Conseguenze: un intero settore industriale di eccellenza in Italia, quello dei produttori di trasformatori e di motori elettrici, è entrato rapidamente in crisi per impossibilità di approvvigionarsi a costi decenti di lamierino magnetico; riunioni su riunioni si susseguono al Ministero delle attività produttive per risolvere la crisi ma senza risultato perché la produzione nazionale di “magnetico” nessuno la restituirà.
Quando nel 1995, epoca della privatizzazione dell'AST di Terni da parte dei tedeschi della Krupp, qualcuno sostenne che non era prudente dare in mano a stranieri un settore strategico come quello dell'acciaio inox e magnetico, rimase completamente inascoltato. Ragionamenti di questo tipo sono ascrivibili a “patriottismo economico” di segno protezionistico, ridicolo e inefficace rispetto alla globalizzazione? Non ne sono convinto. E' evidente che l'unica protezione duratura e di lungo periodo sta nel cercare costantemente la competitività del territorio e delle imprese nella concorrenza globale. Ma il problema vero è arrivare vivi al lungo periodo e per fare ciò, in società aperte e democratiche come sono le nostre, occorre avere il tempo per gestire le trasformazioni e le riconversioni, ottenendo consenso sociale alle politiche per la competitività e non restando indifesi in questa difficile transizione.
Quella del commercio internazionale e dei vantaggi comparati delle nazioni è oggi una vera, moderna, guerra e in quale guerra, quando si è assediati e in difesa, ma si vuole preparare il contrattacco, si aprono i ponti levatoi e si fanno entrare i nemici? A queste e ad altre domande i “sacerdoti” del pensiero unico del libero mercato non sanno rispondere Nel caso dell'opa ostile su Arcelor la questione, se possibile, è ancora più spessa. A confronto vi sono infatti due concezioni dell'economia e dell'impresa divergenti, due visioni della governance opposte: una di una moderna public company attenta alle regole e alla trasparenza, l'altra di un gruppo familiare per definizione opaco e in cui il conflitto di interessi tra obiettivi degli azionisti e interesse dell'impresa è latente.
I francesi amano parlare di impresa “citoyenne” e Arcelor cerca davvero di esserlo e non solo perché paghe le tasse e rispetta l'ambiente o perché, fin dai tempi del mitico Francis Mer, un'attenzione spasmodica viene data dal top management alla sicurezza sul lavoro, ma anche perchè Arcelor spende budget impressionanti ogni anno in formazione e ricerca, perché i suoi dipendenti sono proprietari del 2,5% del capitale sociale, perché rispetta i suoi clienti e fornitori e perché gestisce i processi di ristrutturazione imposti dalla competizione globale con moderazione e attenzione vera alle persone e al loro destino sociale.
Tutto ciò (che a chi scrive sembra il portato del meglio dell'esperienza e della cultura industriale europea) riesce ad essere fatto da Arcelor senza sacrificare più di tanto i margini di redditività che restano di tutto rilievo. Molte altre grandi imprese europee si comportano così. C'è davvero qualcuno che pensa che sull'altare del libero mercato tutto ciò sia rinunciabile? E se non è così come si difendono queste conquiste di civiltà? Al riguardo il corto circuito politico e culturale a livello europeo è impressionante. Il Commissario europeo alla concorrenza l'olandese Neelie Kroes ha dichiarato: «Guarderemo al dossier solo dal punto di vista delle regole della concorrenza e non guarderemo a quali effetti potrà provocare sull'occupazione…» e ancora «la regolamentazione non ci da alcun potere di discutere altri aspetti del merger». Bene, brava!
A ben vedere anche dal punto di vista della concorrenza e della competizione molto c'è da osservare. Infatti la competizione per essere tale deve essere tra uguali. La globalizzazione è ineluttabile, e in molti casi benefica, ma i suoi tempi e le sue cadenze vanno governati. Oggi in siderurgia ad esempio la competizione non avviene alla pari ma gli europei e gli americani devono fare i conti con “i nuovi signori della guerra” (russi, ucraini, cinesi, indiani e brasiliani) che godono di redditività e cashflow sistematicamente più elevati perché dispongono di vantaggi competitivi naturali (quindi senza merito) quali materie prime ed energie a basso costo, basso costo del lavoro, dumping sociale ne ambientale.
Inoltre la competizione dell'Europa industriale avviene contro due sistemi quello statunitense e quello asiatico (in particolare sino-indiano) entrambi segnati da un fortissimo ruolo dello Stato nell'economia. Come tutti sanno negli Usa la spesa militare costituisce contemporaneamente un possente sostegno alla domanda attraverso le commesse pubbliche e un incredibile supporto alla ricerca scientifica e tecnologica. Esisterebbe l'hi-tech americana senza la spesa militare?
Quando tutto ciò non è bastato gli americani non hanno esitato ad assumere misure protezionistiche per difendere l'industria nazionale (ad es. quella siderurgica). E il nuovo presidente della Fed, Ben Bernanke non sembra discostarsi da questa tradizione. Sentite cosa ha dichiarato : «E' nostro compito sostenere e difendere le industrie e i lavoratori in difficoltà per effetto della troppo rapida apertura al commercio internazionale di settori fino ad oggi protetti». Altro che regole del mercato cara signora Kroes. Cina e India e anche il Giappone, sia pure nelle loro enormi differenze nel modello di sviluppo, sono due sistemi nei quali la forza del capitalismo rampante e degli animal spirits è imbrigliata, guidata, coordinata e programmata da una fortissima interazione dello Stato in forme autoritarie (Cina) e democratiche (Giappone e India). Anche nella Russia di Putin lo Stato sta riprendendo (per fortuna) peso e spazio sugli oligarchi neo-capitalisti che hanno fatto il bello e cattivo tempo per dieci anni, in molti casi saccheggiando senza ritegno ricchezze nazionali di ogni tipo (dall'energia, alle materie prime, all'industria) ricchezze che oggi, a fatica, si cerca di riportare sotto il controllo della mano pubblica.
Perché allora in un contesto mondiale di questo tipo solo in Europa si ha vergogna di evocare il ruolo dello Stato e della politica? E' possibile che i problemi di budget e di finanza pubblica siano stati così enfatizzati dal divenire l'unico criterio di orientamento dell'economia comunitaria? A ben vedere ciò che oggi più manca è una “vision” di ciò che l'Europa deve essere e deve fare nel mondo e quindi ciò che manca è la politica. Una politica vera che consenta di reggere lo scontro epocale che stiamo vivendo e che non si faccia dettare le regole e le cadenze del gioco e dell'azione da burocrazie guardiane variamente collocate ma tutte autoreferenziali. Una politica che rimetta il futuro nelle mani dei popoli attraverso le loro rappresentanze parlamentari, governative, economiche e sociali e che aiuti i popoli stessi a trovare la via. Una politica che prenda finalmente atto, realisticamente, che in una costruzione federale come quella a cui punta l'Unione gli equilibri tra i vari paesi non si costruiscono con astratti riferimenti a regole di mercato (che favoriranno sempre i più forti all'interno e all'esterno) ma con una dura e faticosa negoziazione sui ruoli di ciascuna economia e sulla divisione internazionale del lavoro. Giochi cooperativi tra le economie all'interno dell'Unione per meglio reggere i giochi competitivi all'estero.
Amministratore delegato di Duferco