INTERVENTO DI PIERLUIGI CIOCCA AL CONVEGNO "ALLA RISCOPERTA DELLA SOCIALDEMOCRAZIA REALE" TENUTOSI A ROMA IL 14 NOVEMBRE 2013
21 gennaio 2014

Cercare ancora
In economia – forse non solo in economia – seppure fra innumerevoli sfumature le posizioni tipo possono essere ridotte a tre.
Si può essere:
- liberisti “imperfettisti”: il capitalismo ha non pochi difetti – “fallimenti del mercato” – ma è il miglior sistema realizzato e l’intervento dello Stato non ne elimina i difetti;
- rivoluzionari utopisti: il sistema non funziona, è da sostituire con un altro;
- riformisti: un sistema migliore non è dietro l’angolo, ma l’attuale è notevolmente correggibile con politiche adeguate .
Più di un elemento invita a escludere l’imperfettismo liberista; sollecita un riformismo progressista; sconsiglia di rinunciare all’utopia, alla prospettiva di un cambiamento profondo.
L’economia di mercato capitalistica - per brevità il “capitalismo” – ha espresso una straordinaria positività. Marx la colse in pieno, meglio degli stessi classici inglesi che pure del capitalismo avevano fissato la mappa tematica: meglio di Smith, del prediletto Ricardo, di Stuart Mill. Il capitalismo è una formidabile macchina per sviluppare le forze produttive attraverso l’accumulazione, l’innovazione, il progresso tecnico, la produttività.
Dalla Rivoluzione industriale inglese e su un piano statisticamente preciso negli ultimi due secoli – in soli due secoli! – il Pil dell’umanità con il capitalismo si è moltiplicato di oltre 60 volte, per una popolazione mondiale passata da un miliardo a
7 miliardi di persone. Pro capite il reddito medio degli umani è quindi progredito di circa dieci volte: in euro odierni, da 500 euro l’anno per persona a più di 5.000 euro l’anno. Invece, dal Paleolitico sino alla Rivoluzione industriale il Pil pro capite, per millenni, aveva solo di poco oscillato su valori inferiori ai 500 dollari…
Il progresso degli ultimi due secoli ha cambiato radicalmente e in meglio la vita materiale – il consumo e la ricchezza patrimoniale – degli esseri umani, compresi i meno abbienti delle economie più arretrate.
Non sorprende che nel volgere di questi stessi due secoli l’economia di mercato capitalistica, in varie forme, si sia estesa a tutte le nazioni del mondo (Cina e India comprese), con rarissime eccezioni (Corea settentrionale).
Nondimeno, il sistema ha tre difetti, le tre “i”: la crescita è instabile, iniqua, inquinante. E’ instabile perché gli investimenti fluttuano con le mutevoli aspettative e con gli “spiriti animaleschi” dei capitalisti. E’ iniqua perché il mercato esalta e premia oltre misura gli operatori più dotati. E’ inquinante perché i prezzi non includono nei costi le “esternalità negative”, i danni che i produttori infliggono a terzi con cui non hanno rapporti negoziali.
La crisi del 1929 – anche perché una risposta di politica macroeconomica non vi fu – provocò nei tre anni successivi una caduta del 17 per cento del Pil mondiale e del
30 per cento del Pil degli Stati Uniti. Alla caduta si unì una disoccupazione che in
Germania toccò il 40 per cento della forza di lavoro, con gli stessi operai che nel
1933 sostennero l’ascesa di Hitler al potere. Alla crisi finanziaria del 2008 – una delle più gravi della storia – è seguita nel 2009 una discesa del Pil mondiale contenuta nello 0,4 per cento. Si è riusciti a limitarla grazie a politiche keynesiane (ignote o ignorate negli anni Trenta) somministrate in dosi massicce, anche da governi di dichiarata cultura liberista-imperfettista. L’esplosione dei debiti pubblici e della liquidità fornita alle banche dalle banche centrali è tuttavia sfociata nella crisi fiscale degli Stati e nel rischio di inflazione monetaria per il medio termine. Dal 1820 a oggi la diseguaglianza nel reddito pro capite fra i cittadini del mondo è raddoppiata (in termini di scarto logaritmico medio). L’un per cento dei più ricchi percepisce un reddito complessivo pari a quello percepito dal 60 per cento più povero della popolazione mondiale. Negli Stati Uniti dagli anni 1980 l’indice di Gini è balzato da
0,37 a 0,45, il rapporto tra l’indice di borsa e quello dei salari è aumentato di quattro volte. Nel 1750 la concentrazione di CO2 nell’atmosfera era di 280 parti per milione.
Oggi è di 390 parti. Se non si agisce nel 2100 si arriverà a 700-900 parti per milione. La temperatura del globo lieviterà allora di 3-5 gradi centigradi, con i disastri ecologici ed economici che ne deriverebbero per l’intera umanità.
Mentre le tre “i” – i tre aspetti negativi del sistema – si aggravano, lo sviluppo del Pil tende a rallentare. Nelle economie avanzate – metà del Pil mondiale – la crescita su base pro capite è stimata in flessione dal 2,1 per cento l’anno del 1995-
2004 al di sotto del 2 per cento nel 2014-2018. Così, nell’altra metà del mondo dai picchi storici del 6-7 per cento degli anni immediatamente precedenti la crisi del
2008-2009 lo sviluppo delle economie emergenti è stimato scemare a poco più del 4 per cento, sempre nel 2014-2018.
In sintesi, vi è connessione perversa fra le negatività, che si accentuano, e le positività, che si attenuano. Quindi non si può essere liberisti-imperfettisti. Non si può pensare che l’attuale resti il migliore dei mondi possibili. Le contraddizioni che il capitalismo vive sono profonde, potenzialmente laceranti, al limite tali da portare alla sua implosione. Il rischio è duplice. Il sistema può implodere senza che un altro e diverso sistema sia stato pensato, configurato, reso almeno potenzialmente disponibile. Lo sbocco finale in tale scenario estremo è il caos. L’alternativa è che il sistema permanga invariato, infliggendo costi sempre più pesanti alla società. Sono molti i sociologi, soprattutto negli Stati Uniti, seriamente preoccupati per il futuro.
Si deve essere, al tempo stesso, riformisti e utopisti. Occorrono un pensiero e un’azione – in economia, ma non solo – che siano contemporaneamente alimentati dall’aspirazione anche utopistica al cambiamento e dalla concreta volontà e capacità riformatrici.
“Cercate ancora”: fu l’ultimo messaggio di Claudio Napoleoni, economista fra i più colti. L’invito è a non rinunciare all’ipotesi che anche il capitalismo termini, che si dimostri transeunte, storico al pari dei modi di produzione (consuetudinario, schiavistico, feudale, mercantile) da cui fu preceduto. A livello di riflessione e di proposta l’utopista può criticamente ripercorrere almeno due piste, troppo presto abbandonate: quella di un socialismo democratico che, facendo perno sullo Stato,
subordini il mercato all’investimento pubblico, piegando il mercato a un uso strumentale (la strada indicata da economisti come Kornai), ovvero miri a un assetto cooperativistico nel controllo della produzione (la strada indicata, fra gli economisti italiani, da Jossa). Nell’impegno e nell’attesa della palingenesi l’utopista ha, tuttavia, il dovere civile di essere anche riformista, per il tempo presente. Dedito a servire il popolo, avrà cura di evitare al popolo sofferenze che si prospettano dolorosissime e che l’azione riformatrice può prevenire, o lenire. Le vie sono quelle tracciate da Keynes, contro l’instabilità; da Sen, contro l’iniquità; da Nordhaus, contro l’inquinamento.
Sarebbe tuttavia imperdonabile rinunciare alla crescita. Ancor più imperdonabile sarebbe scegliere di puntare a una decrescita, detta “serena” (come sostiene Latouche). In un’economia ristagnante l’instabilità (dei prezzi, dell’occupazione, della finanza) sarebbe più alta; la redistribuzione perequatrice (delle libertà civili, democratiche, e delle risorse materiali) sarebbe più difficile; mancherebbero i mezzi per disinquinare l’ambiente. Per rendere meno tossiche le attività produttive occorrerebbe investire risorse dell’ordine dell’1-2 per cento l’anno del Pil mondiale – una cifra pari al Pil dell’Italia – sottraendole per diversi decenni al consumo
La crescita va perseguita. Non è un risultato scontato del capitalismo. Non lo è, in primo luogo nelle economie più avanzate, mature. Fra l’altro in queste economie il ridimensionamento dell’agricoltura – settore a bassa produttività – a favore dell’industria e del terziario – settori a più alta produttività - è avvenuto da gran tempo.
Il caso italiano è dei più gravi. L’attività economia è di quasi 10 punti inferiore al livello che aveva raggiunto nel 2007, prima della doppia recessione da allora sperimentata. La sperequazione distributiva è fra le più alte nel novero delle economie avanzate, con un indice di Gini di 0,40. Il territorio del Bel Paese è in sfacelo. Il reddito pro capite, che era cresciuto dell’1,5 per cento l’anno nel 1995-
2004, è stimato in diminuzione, dello 0,9 per cento l’anno, nel 2005-2014.
La massa dei cittadini italiani è impoverita da una pesante fiscalità, che sempre
meno alimenta beni pubblici, beni comuni, beni meritevoli offerti dallo Stato. I consumatori … risparmiano. Sono tuttora traumatizzati dall’opera del governo Monti. A differenza della recessione del 2008-2009, che fu da investimenti ed esportazioni nette, la recessione provocata dagli errori tecnici del governo dei “tecnici” nel 2012-
2013 è una recessione da consumi. Senza una spinta esogena alla domanda, che solo il bilancio pubblico può dare, i consumi endogenamente non si riprendono. Le famiglie vedono taglieggiato il reddito, erosa la ricchezza, a rischio il lavoro, senza prospettiva la prole. L’economia quindi striscia lungo il pavimento su cui è precipitata dopo il 2007, depauperata di 150 miliardi di Pil, dell’8 per cento del consumo, di centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Dal pulviscolo dei 4,5 milioni di cosiddette imprese non vengono autonome soluzioni: investimenti, innovazione, progresso tecnico, qualità. Solo 3.468 aziende occupano più di 250 addetti. Sono quasi sempre le stesse, di censimento in censimento. Non c’è dinamismo dimensionale. Gli stranieri non investono nella Penisola. I grandi gruppi industriali che producono in Italia scarseggiano. Anche le aziende manifatturiere meno piccole attendono. Sperano che qualche deus ex- machina le riconduca al profitto. Se continueranno, neghittose, a rinviare, a perdere, a licenziare non si potrà escludere il ricorso a una nuova IRI, in qualche forma riveduta rispetto all’IRI del passato. Come nel 1933, si tratterebbe di una necessità, non di una deliberata scelta interventista.
Cosa può fare la politica economica? Almeno tre cose, da troppi anni disattese:
1) Aumentare gli investimenti in opere pubbliche – a cominciare dalla messa in sicurezza del territorio - e ridurre la pressione fiscale. Come? Va contenuta la spesa pubblica non-sociale di parte corrente (al netto degli interessi). Va contenuta in una misura – tre, quattro punti di Pil - che nell’arco della legislatura vada oltre la misura strettamente necessaria a consolidare l’equilibrio del bilancio. Anche se a costi altissimi, corretto per il ciclo, il bilancio è stato ricondotto in prossimità del pareggio dal governo dei “tecnici”.
2) Riscrivere il diritto dell’economia. Vanno riformulati e coordinati fra loro sei
blocchi dell’ordinamento giuridico, divenuti manifestamente inadeguati: societario, fallimentare, processuale, amministrativo, antitrust, del risparmio (non il diritto del lavoro, il lavoro non avendo “colpe” in questa crisi).
3) Imporre alle imprese italiane in via definitiva la concorrenza, statica e dinamica, a colpi di innovazioni e non solo di prezzi. È la condizione mancando la quale le imprese non si situano sulla frontiera dell’efficienza, date le tecniche. Soprattutto, non sono costrette a ricercare il profitto attraverso il progresso tecnico.
Ai fini dell’uscita dalla recessione – la questione più urgente – gli investimenti pubblici sosterrebbero potentemente la domanda globale. Hanno il moltiplicatore più alto, maggiore di uno. Insieme con una fiscalità minore e progressiva rianimerebbero la domanda più di quanto non la deprimerebbero zero budgeting e tagli a specifiche spese correnti: non per pensioni e sanità – la spesa sociale, il vero collante del Paese
– bensì per a) acquisto di beni e servizi a prezzi esosi, b) personale, quando ridondante, c) trasferimenti, allorché non essenziali. Le tre voci di uscita per consumi intermedi, personale, trasferimenti pesano per il 22 per cento del Pil, oltre 300 miliardi. Diverse loro sottovoci hanno un moltiplicatore di domanda molto modesto e abbattono la produttività del sistema.
Ai fini del rilancio della crescita di lungo periodo – la questione più spinosa – le opere pubbliche infrastrutturali e la detassazione favorirebbero la produttività e la competitività, motore dello sviluppo.
Solo percorrendo entrambe le vie – più domanda globale per il breve termine, crescita della produttività per il lungo termine – l’occupazione può aumentare. Naturalmente, ammesso che le imprese rispondano: se non rispondono, la politica economica è impotente. Produttività, crescita e occupazione trarrebbero grande giovamento dallo stimolo rivolto alle imprese da una rinnovata pressione concorrenziale. Trarrebbero un giovamento non minore dalla riscrittura organica del diritto dell’economia.
Il problema dei problemi è che la crescita dipende solo in prima approssimazione dalla quantità delle risorse impiegate nel produrre e dalla efficienza
e dal tasso di innovazione tecnologica con cui le imprese producono. In ultima analisi la crescita economica dipende da forze metaeconomiche. Nelle parole di Luigi Einaudi “chi cerca rimedi economici a problemi economici è sulla falsa strada. Il problema economico è l’aspetto e la conseguenza di un più ampio problema spirituale e morale”. Segnatamente, la crescita economica è determinata dall’intreccio fra la politica, le istituzioni, la cultura di un paese.
Anche su questo cruciale fronte la tradizione utopista e la tradizione riformista devono rinnovarsi, dire parole che altri non dicono.
Pierluigi Ciocca