INTERVENTO DI MIGUEL GOTOR – Socialisti in Movimento, Roma 12 marzo 2017

14 marzo 2017

INTERVENTO DI MIGUEL GOTOR – Socialisti in Movimento, Roma 12 marzo 2017

Care compagne, cari compagni,
vi porto i saluti di «Articolo 1 - Movimento democratico e progressista» e, in particolare, di Enrico Rossi, Roberto Speranza e Arturo Scotto.
L’obiettivo che vi proponete, quello di rimettere in moto un’area larga e unitaria del socialismo italiano, coincide con una parte del nostro impegno. Spero quindi che in futuro non mancheranno momenti di ulteriore confronto e forme di collaborazione tra noi.
Siamo nati da meno di un mese con l’obiettivo di aprire un processo costituente per dare vita a un nuovo centrosinistra plurale, non soffocato da ambizioni leaderistiche e da pretese di arrogante autosufficienza, ma che sappia trarre nuova linfa vitale dai valori costituzionali dell’antifascismo e dalla storia repubblicana migliore, a partire dall’esperienza dell’Ulivo.
In questo tempo serve costruire e radicare un nuovo campo di esperienze democratiche e progressiste legate alle culture socialiste, liberali, cattoliche democratiche e ambientaliste, al mondo civico dell’associazionismo e del volontariato, alla grande mobilitazione popolare manifestatasi nel recente referendum costituzionale.
Sbaglierebbe, però, chi pensasse che sia stata la contingenza politica a determinare la nascita di questo nuovo soggetto. In realtà, siamo dentro un processo più vasto e profondo che riguarda il mondo progressista a livello europeo: dalla Francia, alla Spagna, alla Germania, all’Inghilterra. Ovunque è in corso una riflessione a sinistra per comprendere come rispondere nel modo più efficace all’onda montante della nuova destra populista e alla demagogia delle forze anti-sistema, due realtà spinte entrambe in avanti dalla crisi economica e finanziaria del 2007. Una crisi ormai quasi decennale, la più lunga senza guerra della storia del capitalismo moderno, che ha contribuito allo sviluppo di tre nuovi processi ormai giunti a maturazione che stanno caratterizzando gli affanni e i problemi delle attuali democrazie tra Europa e Stati Uniti.
Il primo processo ha riguardato l’emergere ovunque di terze forze che mettono in crisi il funzionamento dei sistemi maggioritari. Negli ultimi venticinque anni i sistemi politici si sono organizzati contrapponendo la destra alla sinistra, i conservatori ai progressisti nell’agone nazionale e in quello europeo. Ma dal 2007 a oggi sono emerse ovunque terze forze, anti sistema e anti-establishment che si sono fatte strada prendendo a bersaglio la convergenza tra destra e sinistra, entrambe accusate in ugual misura di essere le responsabili della crisi economico-finanziaria, incapaci di differenziare le loro ricette in nome prima di un comune orientamento neo-liberista che ha smantellato il ruolo e la funzione dell’iniziativa pubblica in economia e poi in noma della scelta dell’austerità come risposta alla crisi.
L’Italia, ancora una volta, con il successo del Movimento 5 stelle nel 2013, ha svolto una funzione di laboratorio a livello europeo. Questa «tripolarizzazione» dei quadri politici mette in crisi le culture maggioritarie dominanti: le elezioni danno risultati incerti e, anche se i sistemi elettorali consentono di individuare un vincitore (si pensi a quello semipresidenziale francese), costui poi non riesce a governare in modo efficace perché gli altri due poli sconfitti hanno la maggioranza nel Paese, costringendolo a un penalizzante esercizio di minoranza in crescente deficit di rappresentatività.
Il secondo processo ha segnato la fine del mantra dominante e cioè che la destra e la sinistra per vincere hanno l’obbligo di conquistare il centro, luogo immaginifico della geometria politica, abitato dalla classe media. La crisi economica e la miopia delle classi dirigenti che avrebbero dovuto provare a governarla hanno aumentato il divario delle uguaglianze producendo un doppio fenomeno: i poveri hanno peggiorato le loro condizioni di vita, ma il ceto medio ha subito anch’esso un processo di impoverimento che lo ha reso incerto e impaurito, sensibile ai venti della demagogia o alle sirene anti-parlamentari e antipolitiche delle forze anti-establishment. Oggi non si vince più conquistando il centro, ma le periferie, interpretando un processo di radicalizzazione che è in atto e che i riflettori della comunicazione non riescono a illuminare. Per questo motivo sono sempre sorpresi dai risultati effettivi delle competizioni elettorali dalla Brexit, alla vittoria di Trump o del No al referendum. E quando dico periferie non mi limito soltanto a quelle sociali, ma mi riferisco a quelle politiche, culturali, antropologiche che ormai abitano anche il centro delle nostre città. Soltanto il papa Francesco prova a dare loro voce, ma la nuova destra, aggressiva, identitaria e sovranista risulta più attrezzata di noi, maggiormente capace di catturare quel voto sfruttando incertezze e alimentando paure che poi cavalca a livello elettorale. Il partito dal quale sono uscito, il Pd, purtroppo sempre più in questi anni si è caratterizzato come il «partito di quelli che stanno bene», il soggetto politico del ceto medio riflessivo urbano e metropolitano, incapace di interpretare e di rappresentare i bisogni e gli interessi di fasce di popolazione «periferiche» che si sono comprensibilmente rivolte altrove.
Il terzo processo è rappresentato dalla crescita delle disuguaglianze nel tempo della crisi della globalizzazione che sta mostrando l’altra faccia della luna, non più quella delle «magnifiche sorti e progressive» degli anni Novanta. Ridurre le disuguaglianze non è una richiesta di ordine morale, ma ha una sua natura e logica economica: se si allarga la forbice sociale si minano le condizioni stesse della crescita e quindi la possibilità di un’equa ridistribuzione dei profitti. Che il ciclo economico abbia alti e bassi è cosa nota. Ma i bassi della globalizzazione, della delocalizzazione e della finanza non regolata producono un’esclusione paurosa che ormai divide le società più sviluppate in tre fasce: i garantiti (i lavoratori del pubblico impiego, l’operaio delle grandi fabbriche), con stipendi sempre più bassi che subiscono un processo di impoverimento, i non garantiti (gli artigiani, le partite Iva, gli imprenditori, i piccoli commercianti, i liberi professionisti) esposti ai rischi del mercato e una terza fascia di esclusi, progressivamente la più larga (i giovani, i precari, i disoccupati) senza rappresentanza.
La crisi economica non ha solo allargato le forbici delle inuguaglianze, ma alimentato – e sarebbe stato inevitabile – una crisi della politica e della rappresentanza che non è più in grado, anche perché priva di risorse, di organizzare il consenso a partire dai livelli amministrativi e locali, appunto quelli più periferici Se la politica si mostra inefficiente a risolvere i problemi, prima fra tutti quello del lavoro e della lotta alla disoccupazione – l’impegno politico retribuito (la funzione parlamentare, ad esempio) viene vissuta come un’intollerabile privilegio, alimentando pulsioni anti-istituzionali e anti-parlamentari. Intendiamoci queste pulsioni, alimentate dal sistema dei nominati, non costituisce una novità nella storia italiana ed europea (mi piace ricordare che uno dei primi best- seller dell’Italia unita si chiamava «I moribondi di Palazzo Carignano» del giornalista liberale Petruccelli della Gattina, precursore della premiata ditta anti-casta Rizzo-Stella), ma un’onda ciclicamente ritornante nei momenti di crisi economica che sono sempre accompagnati da forme di declino civile. Un’onda che induce a confondere gli sprechi da eliminare con il costo della democrazia da difendere e rischia di trascinare via il bambino con l’acqua sporca.
Se questo è il quadro generale, le ragioni che ci hanno portato ad accelerare la fondazione di un nuovo movimento politico di centrosinistra riguardano anche l’analisi di quanto avvenuto in Italia con il risultato del 4 dicembre. Una data la cui importanza finora è stata sottovalutata perché essa ha segnato la fine di una lunga stagione in cui le leggi elettorali sono stante concepite per stabilizzare i governi (senza particolari risultati), ma al tempo stesso scomporre e ricomporre i partiti con l’obiettivo di indebolirli (risultato raggiunto) e favorire così un cambiamento a maggioranza ristretta della Costituzione italiana. L’assalto alla carta, di rapina, è diventato alla possibilità di qualunque maggioranza parlamentare anche perché l’impegno costituzionale è visto dal ceto parlamentare come automatica garanzia di durata della legislatura.
Non a caso è stato il Pd a trazione renziana a rendersi protagonista del più vigoroso programma di cambiare la Costituzione a maggioranza ristretta. Un disegno il cui vigore mediatico, economico e politico è dipeso dal fatto che il segretario del partito era anche presidente del consiglio. Per provare a farlo, però, Renzi ha dovuto contraddire alla lettera lo stesso Manifesto dei Valori del partito di cui era segretario Renzi, in cui si specificava che il Pd «si impegnava a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difendere la stabilità, a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza». Parole e concetti puntuali che, a mio giudizio, in questi anni abbiamo tradito insieme con lo spirito originario del Pd e la cultura politica della mitezza e della temperanza, ispirata ai valori del cattolicesimo democratico e del socialismo riformista, che dovrebbero caratterizzarlo.
Questa contraddizione e la conseguente forzatura non è stato però un incidente della storia, ma era insito nella natura maggioritaria di questo partito. Esso, infatti, è un soggetto pensato, sin dal suo statuto, per un sistema maggioritario e bipolare che addirittura aspirava a essere bipartitico, fondato sulla leadership di un segretario che è anche candidato premier e sulla svalutazione del ruolo degli iscritti a favore del popolo degli elettori.
Dopo il risultato del 4 dicembre si annuncia una stagione politica nuova e non so valutare in che misura il Pd, per come è fatto, sia in grado di ripensarsi. Non escludo che, con la nostra uscita, sia iniziato un processo di dispersione più profondo, la cui durata e intensità è tuttavia di difficile previsione.
Le ragioni che ci hanno indotto a votare «No» al referendum sono note ed è inutile ritornarvi: se c’è una crisi dello Stato-Nazione non erano consentite scorciatoie di carattere populistico e plebiscitario che non avrebbero fatto altro che aggravare la malattia invece di risolverla. A mio parere, infatti, l’aspetto più grave di quel passaggio oggi alle spalle è stato l’uso plebiscitario dell’articolo 138 che ha trasformato l’Italia nell’ultimo mese di campagna elettorale in una democrazia più vicina nei toni, negli stili e nell’invadenza mediatica e politica del premier al Venezuela che non a una moderno sistema politico europeo. Questo non lo dimentico, come non dimentico la disponibilità della gran parte delle classi dirigenti di questo Paese ad acconciarsi a questa deriva da Repubblica delle banane. Un atteggiamento miope e politicamente suicida perché in una fase di affanno democratico è del tutto evidente quanto costituisca un valore positivo l’esistenza di sistemi istituzionali flessibili e non rigidi come quello che stavamo sciaguratamente costruendo con la pretesa di cambiare la Costituzione con una risicata maggioranza parlamentare. E dico sciagurato perché nel caso in cui avessero vinto i «Si», oggi, ossia nel marzo 2017, è assai facile prevedere che l’Italia sarebbe già andata ad elezioni anticipate e che, col sistema del ballottaggio, che la Corte costituzionale avrebbe esitato a modificare, oggi saremmo già governati dal Movimento 5 stelle o dalla destra.
Ma perché il Pd, da partito plurale, è diventato il «Pdr», per usare la formula coniata da Ilvo Diamanti, ossia il partito di Renzi e del codazzo dei suoi seguaci? Credo che quest’esito sia il frutto di un triennio in cui il segretario ha cumulato anche la carica di presidente del consiglio. Egli così ha utilizzato per la prima volta e in modo spregiudicato la leva dell’esecutivo per costruire consenso e stringere legami dentro un partito sempre più indebolito e sempre meno autonomo sul piano culturale, potendo contare anche su un eccesso di trasformismo e di opportunismo delle sue classi dirigenti, sintomo di una crisi etico-civile più generale.
Ciò però ha prodotto una scissione silenziosa di centinaia di migliaia di iscritti e di elettori (si pensi al campanello d’allarme delle elezioni regionali in Emilia Romagna dove votarono il 37 per cento degli aventi diritto) che si sono chiusi nell’astensione o hanno scelto di votare il Movimento 5 stelle. Si è trattata di una reazione motivata da diverse ragioni: gli errori commessi nelle politiche sulla scuola e sul lavoro, l’esercizio di una leaderhisp arrogante e autoreferenziale, la continua ricerca di un «nemico interno» nella sinistra del Pd con l’obiettivo di provare a conquistare i voti della destra e ad allargare la maggioranza di governo verso il gruppo guidato da Denis Verdini all’insegna di una politica trasformista e consociativa. Una finalità che i deludenti risultati delle amministrative e la sconfitta del referendum hanno rivelato errata nel merito senza che sia seguito un minimo di analisi e di accento autocritico.
Credo che l’errore principale di Renzi come segretario sia stato quello di non avere unificato il partito dopo l’elezione del presidente Mattarella nel febbraio 2015, avvenuta, nonostante questo imbarazzante precedente, con la partecipazione leale di tutti i parlamentari del Pd. Per me resta inspiegabile come egli abbia potuto pensare di rompere impunemente l’alleanza con Berlusconi (almeno nei suoi aspetti visibili e più politici del cosiddetto Patto del Nazareno) e, contemporaneamente, continuare a «schiaffeggiare» la minoranza interna. Così facendo egli ha preferito assumersi la responsabilità di frantumare il Pd sotto la sua segreteria ed esperienza di governo, che per di più si è svolta senza passare da un mandato elettorale diretto, ma grazie ai consensi conquistati nel 2013.
L’obiettivo del nuovo movimento politico che si propone di avviare un processo costituente, è quello di diversificare e di rafforzare la proposta politica del campo democratico e progressista e del centrosinistra rivolgendoci a quanti non vogliano essere costretti a scegliere tra Renzi e Grillo. Sia chiaro: i nostri avversari sono la vecchia e la nuova destra e il Movimento 5 stelle. Con il Pd avremo un rapporto competitivo e concorrenziale, ma siamo convinto che, complessivamente, la proposta politica del centrosinistra possa essere più forte così perché più larga e diversificata. Non ristretta nella camicia di forza del renzismo che ha condotto milioni di elettori di sinistra a voltarci le spalle.
Ci muoviamo in una fase nuova, dunque, in cui servono umiltà, generosità e coraggio, che sono l’opposto del narcisismo, dei vecchi rancori, dei posizionamenti tattici autoreferenziali di pezzi di ceto politico. La sfida che abbiamo davanti richiede di seminare un campo largo e aperto e fa tremare le vene dei polsi, ma è quella della nostra generazione, l’unica che vale la pena di cogliere. Auspichiamo che alla fine di questo processo, con uno sforzo unitario, sia possibile dare vita a una lista comune e poi a un unico soggetto politico in grado di raccogliere l’impegno di questi mesi. Per questo iniziative come la vostra sono importanti così come la semina che state anche voi facendo. Che ognuno faccia il proprio lavoro, quindi, portando avanti l’aratro per seminare un campo largo, plurale e comune. Non «una cosa rossa», non una «linke» tedesca, ma qualcosa di più ambizioso, innovativo e riformista che sappia guardare alla storia italiana, anche precedentemente l’importante esperienza dell’Ulivo.
I paragoni storici servono poco al presentismo della politica, ma se devo trovare un’analogia con una fase del passato, trovo che il tempo attuale, con la sua incertezza e apparente inconcludenza, possa assomigliare alla prima stagione del centrosinistra, quello nato dalla crisi del centrismo degasperiano. Anche allora finì un sistema che sembrava eterno e immutabile perché stabilizzato dalla guerra fredda, ma i moti giovanili riformisti e sindacali dei primi anni Sessanta seppero indicare una nuova strada che Pietro Nenni e Aldo Moro percorsero accomunati dalla condivisione di un’idea fondamentale: il primato della politica, della buona politica sull’economia, ciò di cui anche noi oggi abbiamo bisogno.
Con questo auspicio, care compagne e compagni, vi auguro buon proseguimento dei lavori con la speranza che ci siano presto nuove occasioni di incontro e di collaborazione. in nome di comuni interessi e ideali riformisti.


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