IN MEMORIAM. Abbiamo il dovere morale di capire chi lo ha ucciso. di Alberto Benzoni del 21 gennaio 2020
21 gennaio 2020
I capitalisti e, in generale, i difensori dell’ordine costituito, non
hanno bisogno della memoria. A loro il presente; e, beninteso, anche il
futuro. E, calvinisticamente parlando, perché il loro successo è di per
sé testimone della bontà della loro causa.
Neanche gli ex comunisti
(penso, in particolare, a quelli italiani) ne hanno bisogno. Perché il
partito è, e rimane, il punto di riferimento essenziale
nell’interpretare, con gli opportuni aggiornamenti, il corso della
storia. Così che, nell’orizzonte dell’oggi, bastano e avanzano Veltroni,
Prodi, Renzi e Bettini; mentre pochi intimi, passabilmente anziani, si
presentano al Verano per ricordare un leader a cui il partito deve tutte
le sue fortune.
Per i socialisti sparsi per il mondo il passato è,
invece, ragione di vita. Tanto più in quanto il “sole dell’avvenire”,
loro vero simbolo unificante, fa ormai parte di un orizzonte sempre più
lontano e confuso; se non, come ci impone il “pensiero unico”, chiuso
per sempre.
Sarà, allora, il passato a rischiarci la via e a
confortare il nostro percorso. E non parlo qui delle grandi conquiste
collettive - benessere, sicurezza, dignità, solidarietà - frutto
dell’impegno di generazioni, della nostra forza ma anche della nostra
saggezza, di alleanze e, ebbene sì, di ragionevoli compromessi. E della
civiltà pacifica che si è costruita grazie a noi fino ad apparire come
definitivamente acquisita mentre invece non lo era affatto.
Parlo
invece dei nostri grandi morti. Mai vincenti o appagati. Ma perdenti,
anzi vittime, cadute perché impersonavano una causa giusta. Parlo dei
morti della Comune e di Kronstadt, di Jaurès e di Turati, di Kear
Hardie, di Martov, degli operai di Vienna, delle vittime dello
squadrismo fascista; dei morti insepolti della guerra civile spagnola;
ma anche di Allende e di Palme. E di altri e altri ancora, seguendo il
filo della passione e della memoria.
Di questi dobbiamo parlare.
Perché vivano per sempre nella nostra memoria a rappresentare la
fragilità della nostra civiltà e il valore perenne della nostra causa.
Oggi, e particolarmente (anche se non solo) in Italia, questo legame
vitale tra passato e presente si è spezzato; e proprio quando ce n’era
più bisogno. Per qualche tempo, all’indomani della caduta del muro,
un’orchestra di pifferai ci ha raccontato che non ce n’era più bisogno.
Perché il capitalismo aveva vinto e il socialismo aveva definitivamente
perso; ma anche perché i socialisti disponevano della formula magica
(terza via, nuovo centro, riformismo) per garantire al nuovo ordine il
necessario consenso popolare.
Ma poi è passata la sbornia. E ci
siamo ritrovati in un paese in cui il socialismo era scomparso, di nome e
di fatto, dalla politica e dalla cultura. E in cui i tanti socialisti
in circolazione, senza identità nel presente e senza speranze per il
futuro, sono all’affannosa ricerca di figure del passato cui appoggiarsi
per ripartire.
E qui, misurarsi con Craxi è assolutamente
necessario. Qualsiasi sia la preferenza personale di ciascuno di noi.
Perché la sua distruzione politica e umana ha coinciso con la
distruzione della prima repubblica nel nostro paese e perché la seconda
sta naufragando in un contesto di totale fallimento. Perché la sue
eredità politica è stata confiscata da una destra, responsabile, allora
non meno di altri, della sua uccisione (non so voi; ma a me fa
francamente senso vedere affidata a Forza Italia l’eredità della sua
politica nel ventesimo anniversario della sua morte). E, infine, perché
il bellissimo film di Amelio, ha riproposto agli italiani la sua figura,
tragica, di grande perdente.
Abbiamo allora, tutti, il dovere,
morale prima ancora che politico di capire chi l’abbia ucciso; e perché.
Un esercizio tutt’altro che accademico; e del tutto privo di spirito di
vendetta o di richieste riabilitative. Perché, guardando al fondo delle
cose, le ragioni per cui fu distrutto anzi linciato dai suoi innumeri
carnefici costituiscono oggi non solo un suo titolo di merito ma anche
una base, necessaria, anche se tutt’altro che sufficiente, per
riprendere il nostro cammino.
Prima sua colpa, ma oggi titolo di
merito, il suo revisionismo. Che fu, certamente, anticomunismo. Ma non
per questo “di destra”; allora, chiunque osasse misurasi polemicamente
con i comunisti o con il comunismo veniva automaticamente bollato come
“di destra”, spettando di diritto agli interessati di redigere l’elenco.
Una narrazione allora inconfutabile in nome del “politicamente
corretto"; ma, alla luce di quello che è successo dopo, semplicemente
risibile. Anche perché non aveva niente a che fare con l’esaltazione del
mercato, del privatismo e dell’ordoliberismo. Quello che al Nostro
premeva era da una parte rivendicare l’assoluta e superiore alterità del
socialismo rispetto al comunismo, fino a sostenere che qualsiasi
processo unitario dovesse passare per una sorta di capitolazione
ideologica del secondo; pretesa insieme irricevibile e, alla luce di
quello che accadde poco tempo dopo (la capitolazione ideologica : ma
rispetto al liberismo e all’ordine costituito…), semplicemente
irrilevante. Mentre rilevante eccome era la feroce polemica contro il
berlinguerismo: che, spogliato del suo fervore ideologico dopo la morte
di Berlinguer, sarebbe sopravvissuto come compiacimento per la propria
superiorità morale, rifiuto di qualsiasi disegno alternativo e, per il
resto, eco subalterna delle tesi di Repubblica (governo dei tecnici o
degli onesti, disprezzo per lo stato e per il pubblico e per la politica
eccetera eccetera). Un concime utile, nel passaggio dalla prima alla
seconda repubblica, per distruggere, con il gradito concorso di una
maggioranza di Filistei, il capo dei Pubblicani, orgoglioso di esserlo.
Una vicenda esemplare, allora e dopo, per ricordare le ragioni e la
dignità del suo revisionismo.
Ancora, Bettino Craxi, fu ucciso come
simbolo della prima repubblica. E difensore, sino all’ultimo, delle sue
pratiche e delle sue ragioni. Allora, uno dei suoi errori più gravi: la
riuscita, sin dall’inizio altamente improbabile, dello schema
mitterrandiano aveva comunque bisogno di un discorso rivolto a tutto il
popolo di sinistra. Mentre era assurdo pretendere di identificarla con
l’aumento, peraltro estremamente lento del consenso elettorale o, peggio
ancora, del potere (questo assai più consistente e, per certi aspetti
scandaloso) del Psi. Un partito che sarebbe stato la sua palla al piede;
che avrebbe interpretato il suo disegno nel modo più volgare possibile;
e che, al dunque, l’avrebbe abbandonato per cercare vendetta o
protezione (o magari le due cose insieme) nelle più diverse direzioni.
L’altro errore fu quello di non vedere e non capire la tempesta che si
stava addensando; magari contando sulla solidarietà di quelli che ne
avevano condiviso, assieme a lui, le pratiche, gli errori ma soprattutto
la cultura della prima repubblica.
Rimane però, anzi deve essere
impresso nella nostra memoria, il fatto che, nel momento decisivo (che
potremmo far coincidere con il suo discorso alla Camera) quelli che
avrebbero dovuto difendere - comunisti e democristiani in testa -
assieme a lui, la prima repubblica e contribuire al suo collettivo
rinnovamento voltarono il capo dall’altra parte, lo lasciarono
crocifiggere (guidando la carretta o, peggio, applaudendo al suo
passaggio) per prosternarsi senza reagire di fronte ai nuovi dei “falsi e
bugiardi” della seconda. Assieme alla constatazione che l’esperienza di
quest’ultima sarebbe stata un totale disastro e in tutti i campi; sino a
tradurne in burletta propositi, protagonisti e istituzione. Esito che
Craxi aveva ampiamente previsto...
Infine, Craxi fu ucciso perché
era un socialista. Socialista senza bisogno di precisazioni ridondanti
(tipo liberale, moderno, riformista e così via).
Lo era perché era
un internazionalista vero. Il primo a render omaggio alle tombe di
Allende e di Nagy. Il difensore dei dissidenti dell’Est e, insieme, il
protagonista di un dialogo proficuo con quei comunisti che avrebbero
reso possibile la transizione pacifica del 1989 nell’Europa dell’Est. Il
difensore dei diritti dei popoli oppressi - dal Nicaragua alla
Palestina, dall’Eritrea all’Afghanistan, dal Cile ai rappresentanti del
mondo comunista - tutti presenti al congresso di quell’anno. E non
certo a titolo formale.
Lo era nei rapporti con il mondo che lo
circondava. Fino all’ultimo cercò il consenso della Cgil al progetto di
riforma del meccanismo della scala mobile; e successivamente si presentò
al suo congresso accolto da applausi. Non fu certo colpa sua il mancato
accordo (e, detto per inciso, in materia di scala mobile e di diritti
dei lavoratori si è fatto molto di peggio e senza che nessuno fiatasse).
E, ancora, fino all’ultimo difese lo stato e il buon uso del settore
pubblico (a partire dalle partecipazioni statali) respingendo,
sistematicamente, al mittente i lamenti periodici delle grandi imprese
private e dei loro portavoce.
Lo era, infine, nella sua difesa del
ruolo centrale dello stato e dell’indipendenza del nostro paese. Prima,
durante e dopo Sigonella: e sempre con il richiamo, mai udito né prima
né dopo, alla difesa dei nostri interessi nazionali.
Non a caso,
allora, la sua fine politica e la sua sofferenza personale coincisero
con l’avvento di un nuovo pensiero unico; con la distruzione totale
delle istituzioni e della cultura politica della prima repubblica e,
infine, con la cancellazione dal nostro orizzonte del socialismo.
Quanto basta per ripartire da questi punti fermi?
Secondo me, sì. Anche perché nelle nostre attuali condizioni sono le
uniche di cui possiamo disporre. Non foss’altro per rispondere alla
nostra vera vocazione: contestare gli (ex o fu) comunisti; ma da
sinistra.