IN DANIMARCA, LA SINISTRA VINCE CON NUOVE IDEE di Paolo Borioni
06 giugno 2019
Seguendo la vittoria della socialdemocrazia danese diamo anche un’occhiata ai titoli dei media italiani, e notiamo almeno due imprecisioni. La prima è che la sinistra danese avrebbe vinto grazie solo alle restrizioni sull’immigrazione, la seconda è che “l’ultradestra crolla”. Ambedue titoli molto imprecisi e parziali. In realtà la strategia socialdemocratica ha puntato a combinare la severità sull’immigrazione con un ritorno a più welfare: per esempio garanzie per il pensionamento anticipato dei lavori usuranti e rafforzamento di scuole e asili nido grazie a una proporzione gestibile fra numero di minori e personale pedagogico.
Solo la combinazione di queste due strategie, peraltro con molta innovazione riguardo a come fermare e gestire il flusso di immigrati e rifugiati, spiega la vittoria socialdemocratica e della sinistra tutta. Inoltre, sul piano strettamente politico, la socialdemocrazia ha vinto affrancandosi dallo storico alleato radicale-liberale, il partito dei globalisti entusiasti ed acritici, forti nei diritti civili e ampiamente neoliberali nelle politiche economiche (potremmo chiamarli i +Europa del Nord).
Da un paio d’anni nel quartier generale dei socialdemocratici si è compreso che perpetuando le alleanze organiche con questo partito mai avrebbero riconquistato almeno parte delle classi lavoratrici e medie perdute verso il nazional-populismo del Partito Danese del Popolo (che nel 2015 era giunto al 21%).
Ora, se una sconfitta di questo ultimo partito in effetti si è verificata (crollo al 9% circa) ciò si è dovuto proprio alla doppia politica socialdemocratica, nonché alla determinazione di non fare mai più governi con i radical-Liberali, il partito degli idealisti economicamente sodisfatti (8,6%).
Il successo della sinistra
Altro chiaro risultato: la strategia socialdemocratica ha giovato a tutta la sinistra, poiché mentre la socialdemocrazia recuperava voto disagiato dalla destra, molti elettori Socialdemocratici andavano verso Socialisti del popolo (SF) e la Lista Unitaria (postcomunisti). Questi due partiti sono giunti a quasi il 15% perché nell’insieme capaci, in questi anni e in questa elezione, di raccogliere i dissenzienti che la socialdemocrazia andava perdendo per le sue scelte.
Ora tutto lascia credere che i Socialdemocratici governeranno con un proprio governo di minoranza, sostenuto dai buoni risultati del resto della sinistra, per cui (come richiede il parlamentarismo negativo) in Parlamento non vi sarà maggioranza contro. E governeranno come progettato: i problemi migratori e le più stringenti politiche di integrazione verranno gestite con la destra, ma in parte anche coi socialisti popolari (7,7%) d’accordo per esempio su politiche che rompano le aree in cui le subculture allogene anche dopo generazioni non si integrano e si emarginano (spesso nella malavita). Saranno politiche metà sociali (con nuove soluzioni di trasferimento abitativo), metà repressive (speciali leggi per i reati e le irregolarità commessi nelle cosiddette 15 “zone-ghetto”).
Sull’altro fronte, quello delle nuove politiche economiche e sociali, si garantisce una inversione rispetto al centro-sinistra ordoliberale degli anni 2011-15, e tutto verrà negoziato e sostenuto con gli altri partiti socialisti. Ma su questi temi si potrà contare anche sull’apporto dei deputati socialisti spettanti ai “territori del Nord-Atlantico” (Isole Faer e Groenlandia), ma in buona parte anche sui nazional-populisti (attenti alla questione sociale).
Ma il nazionalpopulismo non arretra
A proposito: non è vero che “il nazionalpopulismo” abbia perso: vale per l’Europa come per la Danimarca. In realtà, se crolla Il Partito Danese del Popolo, alla sua destra approdano in Parlamento nuove e più radicali formazioni (come i Nuovi Borghesi, sia xenofobi sia neoliberali: 2,4%). Inoltre il partito estremista Stram Kurs (Linea Dura), che in campagna elettorale brucia il Corano per le strade, prende l’1,8%, giungendo vicinissimo alla soglia elettorale del 2%.
E soprattutto: i temi del nazional-populismo sono ampiamente diffusi in tutto lo spettro politico, a partire dai liberal-conservatori classici. Venti anni fa il vecchio leader socialdemocratico Nyrup Rasmussen aveva condannato la destra xenofoba proclamando: “non sarete mai accettabili come una forza pulita”. Ma la realtà è che i temi nazional-populisti si sono imposti a tutti: pochissimi ormai vogliono accogliere nuovi flussi di profughi, al massimo chiedono di trattare bene quelli già approdati.
Certo, esistono versioni diverse di questa realtà. Per esempio, al di là delle semplificazioni polemiche, i Socialdemocratici intendono spendere le risorse della loro qualificata cooperazione internazionale (tradizionalmente ingenti nei paesi nordici) per contrattare con paesi terzi l’accoglienza delle quote di rifugiati riservate alla Danimarca. Tale accoglienza però non sarà più intesa come fase di smistamento verso la Danimarca stessa, ma come soggiorno definitivo la cui qualità sarà garantita dalle risorse e dalla sorveglianza danese.
Del resto, va ricordato che la umanissima Merkel ha pagato miliardi di Euro affinché la Turchia detenesse i profughi siriani in condizioni molto peggiori di quelle che la cooperazione danese saprebbe assicurare. La realtà è insomma che molte critiche alla socialdemocrazia danese nascono dall’ipocrisia. Infatti, mentre una gestione comune dei migranti è inesistente, il regime economico tipico della Ue perpetua squilibri regionali tali per cui i danesi sanno che ogni nuova ondata di profughi lascerà il sud del continente per ammassarsi nelle zone più sviluppate.
Al contempo, sempre a causa di questo regime economico europeo, anche in Scandinavia esistono ceti e periferie in cui molti sentono giustamente di arretrare, divenendo perciò sfavorevoli a nuove accoglienze, comunque non semplici anche in condizioni sociali migliori.
Il risultato dell’elezione danese è che i partiti del socialismo oggi in Danimarca valgono da soli oltre il 40% dei voti. Il 26% della socialdemocrazia la rende nettamente prima, sebbene rimanga ben lontano dai numeri di soltanto 20 anni fa. Per riguadagnarli occorre altro. Chi riesce ad ascoltare le ansie popolari e a rivedere almeno in parte il regime ordoliberale Europeo (come anche il Portogallo) può resistere e evitare che la destra e la protesta strabordino come da noi o in Usa. Ma per riguadagnare l’egemonia e ricostruire una cultura democratica più evoluta occorre ribaltare questo regime, ovvero rifiutare la progressiva ma inesorabile immissione di dosi di sfruttamento in ogni mercato del lavoro europeo. Compresi quelli nordici.
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