IL SOCIALISTA SOLITARIO di Eugenio Scalfari, la Repubblica 7 novembre 2007
16 novembre 2007
Non parlerò di come e quando l'ho conosciuto, di come e quando io lavorai per lui e lui lavorò per me qui, sulle pagine di "Repubblica" che per alcuni anni fu la sua casa giornalistica. La morte di un amico porta sempre un pezzetto di noi sottoterra insieme con lui, sicché è inevitabile personalizzare il compianto. Cercherò di resistere a questa tentazione. Enzo Biagi ha avuto centinaia di migliaia di lettori dei suoi articoli e dei suoi libri e milioni di telespettatori delle sue apparizioni televisive. Dunque di amici, le persone che condividevano le sue parole, i suoi pensieri, il suo stile. Uno stile asciutto, intessuto di proverbi, di citazioni, di luoghi comuni elevati a dignità letteraria. Uno stile corroborato da fatti precisi e circostanziati che di solito si concludevano con un giudizio tagliente e definitivo. Non è mai stato fautore della regola che vuole i fatti separati dalle opinioni; per lui valeva una regola diversa: mai un'opinione senza un fatto e viceversa, poiché sono le due facce della stessa medaglia e quindi vanno insieme. Questa massima non ha significato faziosità e spirito di parte; la sua ricerca di imparzialità era un'ossessione per lui e lo sanno bene i suoi collaboratori che lo aiutarono a raccogliere il materiale per quella rubrica televisiva che gli valse la scomunica berlusconiana e l'estromissione dalla Rai. Si può essere imparziali e neutrali oppure imparzialmente partecipi. Biagi non fu mai la prima cosa, fu sempre la seconda. Nonostante la moltitudine di amici lettori e telespettatori, Enzo è stato un solitario. Non so se per scontrosità o innata timidezza o per superbo orgoglio di sé. Propendo per la timidezza e per un pizzico di diffidenza verso l'umana natura. Questo mostro sacro del nostro giornalismo non si è mai trovato a suo agio in veste direttoriale. Quando ha diretto "il Resto del Carlino" e il telegiornale Rai ai tempi del monopolio televisivo, l'ha fatto con sicura professionalità ma facendo forza alla sua natura. Infatti furono tutte brevi le sue esperienze direzionali e cessarono più per suo desiderio che per decisioni editoriali. La sua vocazione era quella del cavaliere solitario e l'ha realizzata per più di mezzo secolo come grande cronista, grande intervistatore, grande commentatore. I suoi libri erano lo sviluppo del suo giornalismo e furono seguiti in massa dai suoi abituali lettori. Aveva alcuni punti di riferimento molto chiari e direi elementari nella loro semplicità. Era di idee socialiste, d'un socialismo all'antica, quello che riscaldava i cuori dei lavoratori agli inizi del Novecento, la solidarietà delle leghe cooperative, delle Case del popolo, delle associazioni di mutuo soccorso nella Bassa Padana e nelle Romagne. Quello era il socialismo che gli piaceva e che ha continuato fino all'ultimo a ricordare nelle sue pagine: il socialismo di Treves e di Turati, il socialismo di Pietro Nenni, delle scuole serali e delle università popolari. Tutta roba che ormai non c'è più e di cui è stato l'ultimo cantore. Biagi non era e non si riteneva un intellettuale. Ha voluto essere un giornalista, punto e basta. Non a caso il suo esempio preferito e da lui spesso citato era Giulio de Benedetti, direttore per dieci anni della "Gazzetta del Popolo" negli anni Venti e della "Stampa" dal 1948 fino al '68. Erano fatti della stessa pasta, perciò si capirono e si piacquero a prima vista. I suoi affetti profondi sono stati la famiglia e la professione. Un giorno senza scrivere era per Enzo una penitenza. Scrisse anche nei giorni di malattia e di interventi chirurgici e quando usciva dalla narcosi già aveva in mente la sua rubrica e come avrebbe ricominciato a raccontare. Non so che cosa scriveranno sulla sua tomba ma penso che cosa avrebbe voluto lui: Enzo Biagi, giornalista. Riposa in pace, caro amico.
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