IL SOCIALISMO EUROPEO LA CRISI INTERNAZIONALE, di Salvatore Biasco, relazione al convegno, 17 giugno 2010, Roma

09 luglio 2010

IL SOCIALISMO EUROPEO LA CRISI INTERNAZIONALE, di Salvatore Biasco, relazione al convegno, 17 giugno 2010, Roma

I socialisti sono a disagio con l’Europa. Un disagio su cui non si sono mai soffermati apertamente e sino in fondo. E che nasce dal fatto che la costruzione che hanno contribuito ad edificare si basa su principi che sono variamente in contrasto con la loro memoria storica e con il loro immaginario collettivo.
Perché è il luogo dell’economia retta con parametri fissi più che della politica.
Perché vede il mercato e la concorrenza come le regole e l’intervento pubblico (degli Stati) come l’eccezione.
Perché – sia a livello di stati che di partiti – è stata formata, nel corso di decenni, seguendo le regole del consenso, rendendo quindi, in un’epoca di prevalenza neoliberale, difficile distinguersi dai propri avversari politici.
E, infine, perché ha avuto sempre l’esigenza di porre la “tecno-struttura” (sia come elaborazione delle regole che nelle individuazione di istituzioni delegate a garantirne l’applicazione) al riparo della politica.
Per decenni, comunque, i socialisti europei – o, più esattamente, le loro èlites – hanno potuto ignorare la potenziale contraddizione insita nella loro politica. Sono stati così europeisti (nel senso di continuare a promuovere il processo di unione) ma non europei (nel senso di pensare alle loro azioni in termini e secondo dimensioni sovranazionali). Parallelamente, hanno sostenuto la politica di trasferimento della sovranità dagli stati a Bruxelles; ma nel contempo sono rimasti sostanzialmente nazionali nei loro orizzonti.
I nodi sono però arrivati al pettine con il volgere del nuovo secolo. Alla base l’intreccio tra globalizzazione e crisi economica; fenomeni tra loro distinti ma percepiti come una cosa sola, almeno da parte di quell’area operaia e popolare, che ha rappresentato, per oltre un secolo, il punto di riferimento della sinistra e che subisce il principale impatto da parte del “nuovo”. Si aggiunga – ed è questo il dato politicamente rilevante – che l’onda d’urto arriva in Europa in una fase estremamente delicata del suo processo di unificazione. Una fase in cui, per dirla in estrema sintesi, il deficit in termini di democrazia e di capacità d’intervento da parte dello Stato, determinato dalle sempre più “pesanti” cessioni di sovranità nei confronti dell’Unione e dalla dimensione dei processi economici, non viene affatto “recuperato” a livello sovranazionale.
È perfettamente comprensibile, a questo punto, che le varie formazioni socialiste si dissolvano in tutto questo, oppure in qualche caso (vedi Fabius) siano fortemente tentate dal ritorno nelle loro vecchie trincee e dall’innalzamento delle loro tradizionali bandiere. Comprensibile perché gli stati nazionali ci sono; e manifestano, anzi, una rinnovata reattività. E soprattutto perché (vedi referendum francese e olandese) sulla linea della riscoperta dello “stato protettore” c’è non solo un forte consenso popolare (quello che rifiuta l’Europa che c’è, in nome di quella che non esiste); ma anche la destra populista e identitaria che, proprio su questo punto, sta acquisendo sempre nuovi consensi nei luoghi di lavoro e nelle periferie.
Ora, la socialdemocrazia non può certo abbandonare questo terreno. Dopo tutto, il tema dello stato sociale le appartiene storicamente: e non può essere certo lasciato in mano ai Tremonti e ai Sarkozy (se non ai Wilders o ai Bossi).
Difficile però reggere alla loro concorrenza. A meno di trasformare da passivo in attivo l’altro versante della socialdemocrazia: la sua dimensione liberale e internazionalista. Si tratta, in definitiva, di dimostrare, e nel concreto, a partire dalla dimensione europea, che una gestione politica della globalizzazione è possibile e rilevante in termini di risposta alla crisi economica internazionale e di difesa delle conquiste democratiche e dei diritti sociali.
Perché ciò accada dovrebbero, però, cambiare i paradigmi della politica europea; o più esattamente quelli che orientano i futuri sviluppi dell’Unione. Sinora ci si è affidati alla creazione di sempre nuovi meccanismi istituzionali, varati con un consenso degli stati più che dei partiti e in una logica comunque “bipartisan”. Oggi questo meccanismo non funziona più (vedi referendum e vedi nomine); sempre più alti gli ostacoli da superare e sempre più scarsa la forza propulsiva.
E allora, l’Unione, se vorrà andare avanti, dovrà muoversi sul terreno delle politiche comuni e della cooperazione rafforzata. Un terreno su cui dovrà essere molto più forte il ruolo delle forze politiche e sociali organizzate e l’attenzione della pubblica opinione; un terreno su cui il confronto tra posizioni diverse sarà la regola e non l’eccezione.
Attenzione: che si tratti di fisco o di immigrazione, di politica estera o di politiche sociali, la posta in giuoco è chiara ma l’esito dei vari possibili confronti è del tutto incerto. Il che equivale a dire che, per i socialisti europei, l’interrogativo riguarda sia la natura dei problemi da affrontare sia la volontà collettiva di affrontarli.
Le politiche adottate in quasi ogni paese per uscire dalla crisi sono importanti (anche se l’Italia fa purtroppo eccezione) perché fanno apparire cosa del passato le politiche puramente monetariste della Bce. E chiariscono maggiormente l’impressione di inaffidabilità e di inappetibilità suscitata dall’ultimo governo Prodi, del tutto in mano a logiche derivanti dall’europeismo tecnocratico. Le politiche europee, istituzionaliste ma senza politica e senza politiche, impediscono alla socialdemocrazia di fare il lavoro dei suoi decenni d’oro: programmare la crescita, determinarne (o almeno co-determinarne) la modalità, innalzare quindi con più facilità la qualità del lavoro e dell’investimento immesso in questa crescita. E assicurare quindi le risorse per il welfare, che a sua volta garantisce il modo europeo di stare nella globalizzazione.
Pare quindi evidente che la socialdemocrazia debba delineare un’Europa diversa, ovvero dedita alla crescita e alla produzione di risorse per rinnovare ed ampliare il modello sociale di crescita e di convivenza proprio degli Stati europei. La socialdemocrazia deve indicare le politiche e le risorse necessarie per questo scopo, consapevole che solo a queste condizioni si produrrà nelle popolazioni della UE un consenso verso ulteriori approfondimenti democratici, comunitari e costituzionali delle istituzioni comunitarie europee. Senza di questo si continuerà a dare l’impressione di una sovranità che migra senza approdare in alcun luogo, il che, per la socialdemocrazia, significherà ancora e sempre perdita di consensi verso la disaffezione/astensione operaia (e del lavoro dipendente) e verso il populismo di destra (a volte anche di sinistra). La ricetta è aperta ai contributi di tutti. Ma non si parte da zero, perché la socialdemocrazia non ha in effetti smesso di produrre idee nemmeno in questi anni di difficoltà e smarrimento. Piuttosto, occorre il coraggio di metter insieme le migliori conquiste della sinistra europea negli ultimi vent’anni: le proposte di Delors (dal Libro Bianco agli Eurobonds) e l’incrocio fra welfare e innovazione proposto dalle socialdemocrazie nordiche. Su questa via si stanno inoltrando, peraltro, anche altri importanti centri di riflessione socialisti europei. Gli strumenti migliori sono a disposizione, manca il coraggio politico e intellettuale di utilizzarli insieme, condizione che li potenzierebbe al massimo in modo reciproco e produrrebbe la base materiale di una nuova sinistra europea e di una nuova UE. I socialisti europei e i loro alleati sperimentati o potenziali possono però riguadagnare credibilità e consistenza di massa se sapranno proporre la riforma del capitalismo e dell’Europa solo monetarista, costruita solo su regole e non anche su politiche comuni. Anzi, i socialisti europei hanno in questo senso la possibilità di differenziarsi dall’unanimismo delle elites. Questa differenziazione ha fatto la fortuna dei movimenti populisti, che sfidano, per quanto in modi più che altro speciosi, e in termini politicamente ed intellettualmente inaccettabili, proprio quegli ambienti. Il riformismo socialista europeo ha oggi la possibilità, rivalutando il meglio della propria funzione storica, di ingaggiare battaglie politiche che possono inserirsi nel vuoto di proposta e di cultura politica apertosi fra populisti ed elitisti. Essere per questo attaccati dai giornali elitisti, e rispondere con convinzione all’attacco, non potrà che produrre credibilità agli occhi dell’elettorato perduto in questi anni, e quindi consensi. Ciò significa ricollegarsi al meglio della propria storia, convinti della sua attualità e della sua capacità di produrre ancora soluzioni efficaci.
In parallelo, e per questo stesso fine, dovranno recuperare l’associazionismo politico e partitico di massa, che può prevenire l’elitismo e il populismo che hanno colpito tutti gli Stati europei, e in specie l’Italia.

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