Il SOCIALISMO È MORTO PERCHÉ IN RITARDO CON LA STORIA - di Federico Punzi, da L’Opinione del 20 ottobre 2006
25 ottobre 2006
Con l’articolo pubblicato sulla Repubblica, il 29 agosto, Anthony Giddens, uno dei maggiori teorici del blairismo emetteva una sentenza lapidaria che voleva essere qualcosa di più di una provocazione: “Il socialismo è morto. La data precisa del decesso è nota - il 1989 - ma già da tempo la sua salute era malferma”. Quella sentenza lapidaria (“Il socialismo è morto”) la scrissi, nel settembre 2005, su questo giornale, L’Opinione, cercando di contribuire al dibattito sul nuovo soggetto politico che vede insieme Radicali e socialisti dello Sdi. Costruire un’ “alternativa liberale” a sinistra significa innanzitutto essere consapevoli che oggi non si può essere “di sinistra” senza dirsi con convinzione liberali e senza abbracciare pienamente il libero mercato. Certo, recuperando la memoria di quelle storie umane e politiche che rappresentano i pochi “frutti liberali” del socialismo italiano. Caduto il Muro di Berlino, finito il socialismo reale in Europa, anche la socialdemocrazia ha esaurito il suo compito storico. Per anni ha assicurato sviluppo e benessere alle società europee, ma i costi del suo modello di welfare sono incompatibili con la crescita economica e la corporativizzazione dello stato sociale ha messo in discussione libertà individuali e conquiste fondamentali dello stato di diritto. Se nel secolo scorso il costruttivismo ha sequestrato la sinistra, casa naturale delle istanze di libertà, e le socialdemocrazie ne hanno occupato lo spazio politico nei parlamenti democratici, oggi si presenta un’occasione unica per ricondurre la cultura liberale nel suo alveo naturale: a sinistra rispetto a un polo conservatore. Innesto finora vissuto con successo solo dalla sinistra britannica. A liberali e socialisti però, nel non concedere spazio a rigurgiti statalisti e costruttivisti, sta l’onere della prova.
A molti queste considerazioni suoneranno persino ovvie, ma per altri rappresentano un’utile doccia gelata per risvegliare gli intorpiditi “sensi della politica”. Il “socialismo rivoluzionario”, quello “reale”, osserva Giddens, “è scomparso quasi senza lasciare traccia”. Non servono contorte analisi o alibi raffazzonati per farsene una ragione. “La stessa idea di un superamento del capitalismo attraverso una rivoluzione politica laica è quasi del tutto scomparsa... Perché l’idea centrale che ha fatto da propulsore al socialismo rivoluzionario, la nozione alla base della definizione stessa del socialismo – l’idea cioè che un’economia controllata e rispondente ai bisogni umani possa sostituirsi ai meccanismi dei prezzi e del profitto - una volta messa alla prova, è fallita dovunque”. Semplice: non che fosse stata male applicata, “era un’idea sbagliata”. I più svegli se n’erano accorti leggendo von Mises in “Gemeinwirtschaft” e “Kritik des Interventismus” (1919) e poi Hayek negli anni ‘30. Anche il “socialismo riformista”, che “ha creduto in un'economia mista”, ritenendo possibile “imbrigliare le irrazionalità del capitalismo riservando allo Stato un ruolo parziale nella vita economica” – “compromesso” che nel secondo dopoguerra “era sembrato in grado di funzionare” più grazie alla teoria economica di un liberale, John Maynard Keynes, che al socialismo - ebbene “anche questo tipo di socialismo [è] morto”. Il socialismo è morto, dunque, senza eccezioni. “Il più delle volte, lo stato ha dimostrato la sua inadeguatezza nella conduzione diretta delle imprese. D’altra parte, la gestione della domanda in senso keynesiano ormai non è più efficace, e può anzi diventare controproducente nel contesto di un mercato globale”.
“Cosa resta della sinistra?”, si chiede allora Giddens. La sinistra è sopravvissuta, con i suoi valori, alla fine del socialismo. Tuttavia, oggi “non può più definirsi semplicemente negli stessi termini del socialismo d’un tempo, come la via per limitare i danni inflitti dai mercati alla vita sociale”. I mercati hanno bisogno di regole che li facciano funzionare. Hanno bisogno di espandersi, di liberalizzazione del mercato del lavoro, le cui bardature corporative e stataliste oggi sono d’ostacolo alla causa della giustizia sociale. La sinistra “non può più definirsi in contrapposizione alle riforme del welfare”. Dalla logica assistenzialista deve passare a quella dell’investimento: “In un’era di libertà individuali e di aspirazioni sempre maggiori, dobbiamo investire nelle persone per aiutarle ad aiutarsi da sé”. Tutta una serie di tabù deve essere superata: “Non è di destra ammettere che la criminalità e il disordine sociale rappresentano un grave problema” per i cittadini, soprattutto i meno abbienti; “non è di destra sostenere che l’immigrazione dovrebbe essere controllata, o chiedere agli immigrati di farsi carico di una serie di responsabilità civili”; “non è di destra cercare di dare risposte efficaci al terrorismo”. Le nuove minacce “non sono paragonabili” a quelle delle Brigate rosse, dell'IRA o dell’ETA. Il terrorismo islamista è “potenzialmente di gran lunga più letale” e “il diritto di sentirsi al sicuro dalla violenza terroristica è di per sé una libertà importante, che va ponderata rispetto alle altre”.
La Repubblica ha pubblicato l’articolo di Giddens come provocazione diretta ai riottosi, tra i Ds, all’idea del partito democratico, innescando in realtà sui giornali - ed è significativo - un dibattito sul socialismo, dove non sono mancate voci sarcastiche che hanno inteso snobbare gli argomenti di Giddens, come se fossero ormai dati scontati della realtà della sinistra italiana. Credo che invece la sinistra, a cominciare dai Ds e dallo Sdi di Boselli, per non parlare della sinistra reazionaria vetero-comunista, non abbia ancora metabolizzato che, appunto, “il socialismo è morto”. A rivelarlo sono le policies dei diversi partiti chiamati a raccogliere l’eredità socialista o, meglio, le loro arretratezze e inadeguatezze culturali. Le difficoltà nell’accettare autentiche politiche di liberalizzazione in economia. Gli ostinati pregiudizi verso riforme che introducano merito e concorrenza nella scuola e nell’università. conservazione di assetti statalisti, e onerosi per le casse dello Stato, in settori quali il pubblico impiego, la sanità e le pensioni. Le ambiguità su temi come la sicurezza e la guerra al terrorismo. L’approccio, in politica estera, verso gli Stati Uniti e Israele. Dunque, anche se a qualcuno può sembrare stucchevole, a oltre 15 anni dal decesso, annunciare la morte del socialismo ha ancora un senso per una sinistra italiana affetta dall’incorreggibile vizio di apprendere con decenni di ritardo le lezioni della storia.