IL SOCIALISMO DEMOCRATICO NEL FUTURO ULIVISTA - di Giorgio Napolitano da “Le Nuove Ragioni del Socialismo” di febbraio 2006
24 maggio 2006
Non mi persuade né mi esalta l’esistente, inteso come Ds, sulla cui attuale condizione ci sarebbe molto da discutere, e con crudezza
Ha ancora senso parlare delle “ragioni del socialismo”? Ha ancora senso richiamarsi a quel patrimonio di valori ideali e culturali, di esperienze storiche - movimenti sociali, stagioni di governo - di organizzazioni politiche, che ha identificato e identifica il socialismo democratico? A quanto pare, se ne dubita ormai fortemente nella sinistra italiana, e nel suo maggior partito, benché sia membro dell'Internazionale socialista: e si tratta di un dubbio che si riflette anche nell'approccio al tema di gran moda, quello del possibile concorso alla costituzione di un nuovo partito democratico (o riformista).
Occorre a questo proposito distinguere, innanzitutto, tra due problemi che vengono spesso confusamente intrecciati. Un problema è l'esistenza o meno delle condizioni per far crescere in Italia un grande partito socialista democratico dello stampo e del peso di quelli affermatisi da lungo tempo negli altri paesi dell'Europa democratica. Altro problema è quello della validità, ancora oggi, di un ancoraggio a quell'area e a quel patrimonio da parte delle attuali formazioni della sinistra italiana e segnatamente da parte del partito che è nato dallo scioglimento del Pci. Sul primo aspetto, non ripeterò la mia convinzione: che l'ultimo tentativo, compiuto anni fa a Firenze con la trasformazione del Pds in Ds, è sostanzialmente fallito anche perché era probabilmente tardivo in modo irrimediabile. Troppe occasioni erano state mancate, a partire almeno dall'inizio degli anni '80, per far approdare le forze ancora vitali del Pci alle sponde della socialdemocrazia europea e per rendere così possibile una autentica unità della sinistra italiana di ispirazione socialista. Era stata mancata addirittura anche l'occasione della svolta del 1989, che aveva sì sancito la conclusione della parabola del Pci, ma senza caratterizzare in senso socialdemocratico il nuovo partito cui si diede allora vita. La conseguenza del tipo di scelta che si volle compiere con il Pds e dei comportamenti politici che ne accompagnarono la nascita fu tra l'altro una fatale dispersione di energie - quelle, in sostanza, provenienti dal Psi - e quindi un assai grave ridimensionamento del peso della sinistra.
Può dunque facilmente concludersi che non sia ormai realistico perseguire l'obbiettivo del far assumere al partito dei Ds la fisionomia e l'influenza di un partito socialista democratico capace, al pari dei più significativi confratelli europei, di svolgere il ruolo di forza determinante e di guida dello schieramento da contrapporre al polo conservatore, di destra o centro-destra, nella competizione per il governo del paese.
Ma ciò non significa (e vengo al secondo dei problemi prima indicati) che i Ds non potrebbero - senza proporsi più ambiziosi, irraggiungibili traguardi - operare e consolidarsi come forza pur sempre essenziale per assicurare all'Italia un governo democratico avanzato, concorrendovi in condizioni di parità con altre forze e caratterizzandosi per il suo apporto di partito del socialismo europeo. In fin dei conti, è così che i Ds si presentarono alla sfida elettorale del 1996 e sembrarono intenzionati a muoversi, almeno fino al congresso di Pesaro. Vero è - di certo non lo dimentico - che il sistema maggioritario indusse a presentare candidati comuni nei collegi uninominali, all'insegna dell'Ulivo e sotto la guida di Romano Prodi, e che l'Ulivo sprigionò una forza di attrazione e un valore aggiunto tali da configurarlo come soggetto politico unitario, cioè qualcosa di più di una tradizionale alleanza elettorale. Ed è egualmente vero che in tutte le elezioni locali e regionali - regolate anch'esse da sistemi maggioritari - la forza d'attrazione e il valore aggiunto dell'Ulivo si confermarono notevoli.
Tuttavia, che cosa fosse da intendersi per “soggetto politico unitario”, rimase per parecchio tempo dubbio e controverso. Fu in definitiva solo col congresso di Roma (2005) dei Ds, che dopo le aspre dispute di anni precedenti sul rapporto tra i partiti, l'Ulivo e il suo leader, i Ds si pronunciarono per la confluenza delle forze riformiste del centro-sinistra, a cominciare dagli stessi Ds e dalla Margherita, in una Federazione. Se, sulla base di regole che furono in qualche misura concordate, la Federazione avesse preso corpo, i partiti aderenti avrebbero conservato fisionomie e organizzazioni distinte, e l'esperienza avrebbe suggerito i possibili ulteriori sviluppi di quella esperienza comune. Ma quasi di colpo alla scelta presto abortita della Federazione si è, dall'autunno del 2005, sovrapposta la prospettiva di un nuovo partito in cui Ds, Margherita e altri dovrebbero fondersi: e vi si è sovrapposta come prospettiva ravvicinata, sui cui tempi si sono sentiti vari accenti - i prossimi anni, l'arco della prossima legislatura, o addirittura l'immediato dopo-elezioni per l'avvio, almeno, del progetto. Mentre sul nome, si è finito col dare quasi per scontato quello di “Partito Democratico”.
La molla che ha prodotto una simile accelerazione, una specie di brusco salto in avanti, è stata, come si sa, la vicenda delle primarie che hanno investito Romano Prodi come candidato presidente del Consiglio per l'Ulivo e per l'intero centro-sinistra. Ma come si può sostenere che nel successo delle primarie, per quanto indubbiamente rilevante e significativo, si sia espressa una concreta e perentoria petizione per il partito unico dei riformisti, per il “partito democratico”? Da quei quattro milioni di uomini e donne è venuta piuttosto una forte richiesta di coesione tra le forze dell'Unione e innanzitutto tra quelle dell'Ulivo: richiesta del tutto comprensibile, di fronte a tensioni e spesso ad aperte divergenze e polemiche che incrinano la credibilità e le possibilità di vittoria dello schieramento di opposizione e alternativa alla destra. Ma un tale, necessario impegno di coesione non richiede di per sé la fusione in un solo partito (che comunque non riguarderebbe tutte le componenti del centro-sinistra): né la nascita - magari a tappe forzate - di siffatto partito garantirebbe comunque il superamento delle divergenze e tensioni di varia natura determinatesi tra partiti finora rimasti distinti e alleati.
Ma indipendentemente dall'interpretazione delle istanze espresse da un'ampia base di militanti e di elettori, si propone una motivazione “oggettiva” per la nascita del partito democratico: la necessità di assicurare al governo di centro-sinistra, nell'ipotesi di vittoria sulla “Casa delle libertà”, un sicuro timone riformista, tanto più indispensabile quanto più frammentata ed eterogenea sia la coalizione vincente. Questo timone dovrebbe essere rappresentato dalle forze dichiaratamente riformiste e comunque portatrici di una coerente visione di governo dei problemi: ma tale fu la motivazione che si diede già per la scelta della Federazione, né un'esperienza concreta ha dimostrato l'inadeguatezza di quella scelta.
Non ritengo di dovermi soffermare sull'altro argomento, secondo cui il passaggio dall'ipotesi della Federazione al partito democratico sarebbe necessario e urgente per dare al leader dell'Ulivo e possibile presidente del Consiglio, privo di un partito di riferimento, la guida, appunto, di una “sua” formazione politica. Non mi soffermo su questo argomento, perché mi sembra intrinsecamente debole una visione così personalizzata del complesso problema dell'articolazione di uno schieramento come quello aggregatosi attorno a Romano Prodi, e non mi pare una risposta convincente all'“anomalia” della designazione di un leader dell'alleanza che non è il leader né del maggior partito di tale alleanza né di nessun altro.
Vengo piuttosto alla questione di fondo: come i sostenitori della soluzione - o formula - del partito democratico, tendono a delinearne i contorni, e come questi si possano rapportare alla fisionomia che i Ds hanno scelto di darsi finora, al loro ruolo di forza del socialismo europeo. Pretendere di esaurire il problema con definizioni del tipo «un partito in cui confluiscano i diversi riformismi propri della storia d'Italia», non basta e non convince. Perché si rischia così di banalizzare una verità storica - l'esistenza, in Italia più che altrove, di molteplici culture e correnti riformiste: di banalizzarla per l'assenza di una riflessione e di un confronto che conducano a un giudizio ben fondato su quanto di peculiare presenti ciascuna di quelle correnti e tradizioni, e quanto di comune, di riducibile “ad unum” e non solo di compatibile con una condivisa piattaforma di governo.
I più zelanti fautori del “nuovo” si sono perfino spinti a dichiarare il superamento delle tradizioni e culture del Novecento, riferendosi in particolare alla tradizione del socialismo democratico (non già, dunque, della sola ideologia comunista). I teorici di questa tabula rasa, orientati soprattutto a considerare un “cane morto” l'esperienza e l'elaborazione socialdemocratica, arrivano magari a lodare, oggi, la pretesa lungimiranza di quei dirigenti del Pci e promotori della svolta del 1989, che vollero connotare il Pds come partito non socialista democratico ma semplicemente “democratico”, sia pure di sinistra. In quel modo essi mostrarono in realtà di non saper rompere con le ambiguità del Pci di Berlinguer e tesero a coprire quell'antico condizionamento con la provinciale presunzione di poter indicare a tutti, in Europa, un passaggio nuovo “oltre” le tradizioni sia comunista sia socialista. E tuttavia non poterono non chiedere, contraddittoriamente, di aderire all'Internazionale socialista.
D'altronde non era sostenibile allora, e non lo è oggi, una rappresentazione del socialismo democratico europeo come isterilito dalla crisi delle elaborazioni e impostazioni di governo che culminarono nel Welfare State e che ressero fino agli anni '70. Quella crisi è stata riconosciuta e analizzata da partiti socialisti, laburisti, e socialdemocratici che hanno saputo formulare e perseguire seri tentativi di correzione e innovazione; né quella crisi ha abbracciato l'intero arco delle esperienze e dei valori di cui il socialismo democratico è portatore. E per socialismo democratico non intendo tanto organizzazioni, oggi visibilmente poco attive e vitali, come l'Internazionale socialista o il Partito dei socialisti europei (Pse), ma piuttosto l'insieme dei partiti e delle forze operanti su scala nazionale e anche su scala sovranazionale attraverso il gruppo socialista nel Parlamento europeo. Accenti più accorti, rispetto alla sommarietà e alla furia sollecitatrice di certi appelli per il partito democratico, sono venuti da Francesco Rutelli in una sua recente esternazione sul tema (apparsa in Europa il 19 gennaio). Egli ha negato che si vogliano «svuotare i bagagli delle eredità politiche e culturali del XX secolo», e ha proiettato in un orizzonte più ampio e lontano la soluzione del problema di un rapporto che non si può chiedere ai Ds di abbandonare, quello col socialismo europeo e le sue organizzazioni.
E allora, l'interrogativo fondamentale appare quello posto di recente anche da Massimo Cacciari, non certo classificabile tra i difensori dell'esistente. «I processi politici non si impongono dall'esterno» (dei partiti costruiti e delle storie vissute dai tanti). «Occorrono processi condivisi, congressi di partito, un dibattito culturale di alto livello». Solo così si potrà definire seriamente lo sbocco a cui tendere. E dico questo, non perché mi persuada e mi esalti l'esistente, inteso specificamente come partito dei Ds, sulla cui attuale condizione e in particolare sulla cui vita democratica, ci sarebbe molto da discutere, e con crudezza; ma perché se si tendesse con superficialità, sulla base di approcci frettolosi e in qualche modo strumentali, a un nuovo sbocco politico e organizzativo chiamato “partito democratico”, si rischierebbe di dissolvere più che di costruire.