IL SILENZIO DI WALTER SULLA GIUSTIZIA, di Gianni di Cagno, il Riformista 14 dicembre 2007
30 dicembre 2007
Veltroni ha parlato di sicurezza, ma non ancora di giustizia. Un piccolo consiglio, allora. Il Pd provi a volare alto, sulla giustizia. E a sparigliare rispetto agli usurati stereotipi del '900. Da quasi vent'anni, ormai, il "partito dei magistrati" e quello "degli avvocati" ripetono stancamente le proprie litanie. Il primo, attribuendo le gravissime disfunzioni della giustizia a tutti fuorché ai magistrati. Il secondo, individuando la separazione delle carriere tra giudici e pm come panacea di tutti i mali. Non se ne può più. In realtà occorre affrontare in un'ottica radicalmente nuova i problemi della giustizia italiana, a cominciare da quelli dell'insopportabile durata dei procedimenti e dell'alterazione dei rapporti tra la magistratura e gli altri poteri. Su quest'ultimo punto il governo Prodi ha perso un'occasione irripetibile, varando una riformetta dell'ordinamento giudiziario che rischia di creare più problemi di quanti non ne risolva (basti pensare all'assurda contemporanea scadenza di centinaia di uffici direttivi e semidirettivi). Superato - male! - lo scoglio dell'ordinamento giudiziario, peraltro, il governo non dà segni di vita. Così, non si parla più della riforma dell'ordinamento professionale forense, che avrebbe dovuto procedere di pari passo con quella dell'ordinamento dei magistrati. Né delle indispensabili misure per l'accelerazione dei processi. E meno che mai si parla di come equilibrare i rapporti tra i poteri (Procure e Comuni in materia urbanistica, ad esempio). È il Pd, allora, che deve superare questa catalessi politica, avanzando proposte coraggiose e infrangendo vecchi tabù. Primo. Il cancro della giustizia italiana è l'abnorme durata dei processi. Per fare un esempio, di recente il Tribunale di Foggia ha fissato la prima udienza di una causa previdenziale al… 2020! Poi ci si lamenta della sfiducia dei cittadini nello Stato. Questa situazione è inammissibile. Che fare? Le ricette del secolo scorso sono note. Per i magistrati, è tutto un problema di risorse e di organizzazione. Per gli avvocati, è soprattutto un problema di numero e di impegno dei magistrati. Ovviamente, in entrambe le posizioni c'è del vero. E tuttavia negli ultimi anni le risorse sono aumentate, l'organizzazione è migliorata, e con l'introduzione dei giudici di pace è cresciuto il numero dei magistrati. Eppure, la durata dei processi non cala. Bisogna convincersi, allora, che il problema è anche di procedure. Che sono troppe. Troppo farraginose. E mai davvero attente al diritto dei cittadini alla sollecita definizione dei procedimenti. Cambiare, allora. E cambiare subito. Nel civile occorre puntare su due sole procedure, una per il giudice monocratico e l'altra per quello collegiale. Nel penale, invece, occorre sanare una contraddizione. Abbiamo un processo gravato da innumerevoli istituti non essenziali alla salvaguardia delle garanzie fondamentali del cittadino. In cui, ad esempio, andrebbe drasticamente riformato il regime delle notifiche a imputati e difensori, fonte di rinvii a catena dei dibattimenti. Ma abbiamo, anche, una fase delle indagini preliminari in cui il cittadino non è sufficientemente garantito. Nessuno, ad esempio, dovrebbe essere oggetto di provvedimenti cautelari, reali o personali, sulla base di perizie tecniche operate senza contraddittorio. Insomma, bisogna finirla con l'artificiosa contrapposizione tra garanzie dell'individuo ed efficienza del sistema, che ha segnato il dibattito sulla giustizia negli ultimi anni. Deve essere assicurato ai cittadini italiani il diritto costituzionale a un processo giusto, che ne rispetti le garanzie senza durare all'infinito. Bisogna finirla, anche, con questa storia della separazione delle carriere. La vicenda di De Magistris dimostra una volta di più che il vero potere del pm risiede nello scudo mediatico di cui gode. Ed è un potere in larga parte oggettivo. Fondato sulla natura di una società che vive immersa nel presente. Per cui l'attenzione mediatica si concentra non sui giudici, le cui decisioni arrivano a distanza dai fatti. Ma sugli unici magistrati che operano in tempo reale. I pm, appunto. O, al più, i gip. Sono questi i nuovi eroi dei media. E anche se mesi o anni dopo gli eclatanti arresti da loro disposti, che ne hanno alimentato la popolarità e la conseguente intoccabilità, un tribunale dirà che hanno sbagliato, la notizia apparterrà ormai al passato. E dunque verrà confinata in un trafiletto nelle pagine interne, senza che il grande pubblico ne sia informato. Chi ha saputo, infatti, che il povero Sottile, arrestato con la ridicola imputazione di «concussione sessuale», è stato prosciolto dall'accusa appena il fascicolo è passato dalla Procura di Potenza a quella competente di Roma? È la forza mediatica del pm, insomma, che genera un'alterazione nel rapporto tra alcuni magistrati e altri poteri. Il rimedio, allora, è esattamente inverso a quello della separazione delle carriere. Occorre affermare la temporaneità della funzione di pm. Esattamente come temporanee sono altre funzioni giudiziarie particolarmente delicate (direttive, semidirettive, fallimentari e gip). Solo così potrà essere limitato il rischio di abnorme utilizzo da parte di singoli magistrati dell'oggettivo potere mediatico di cui il pm gode. Certo, conosco l'obiezione. Con una rotazione periodica le Procure perderebbero professionalità. E già sento lo stucchevole coro di quanti accuseranno i politici di voler tagliare le unghie ai magistrati. Ma il Pd ha un senso solo se ha il coraggio di dire verità scomode. Se riesce a emanciparsi da tutte le corporazioni. E se riafferma non la supremazia, ma l'autonomia della politica rispetto ai poteri di controllo. ex componente del Csm e commissario nell'Authority sullo sciopero.
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