IL SECOLO LUNGO DI UN RIFORMISTA, intervista a Emanuele Macaluso, da il Riformista del 9 febbraio 2010

07 marzo 2010

IL SECOLO LUNGO DI UN RIFORMISTA, intervista a Emanuele Macaluso, da il Riformista del 9 febbraio 2010

VIAGGIO NELLA SINISTRA. Comunista, deputato alla Costituente, rompe col Pci nel ’56. Va coi socialisti, più volte ministro, poi Commissario europeo. Litiga con Craxi e ritorna coi comunisti nell’87.

«Il suo sogno era un grande partito socialista. Per me resta attuale»: Emanuele Macaluso, storico esponente dell’ala migliorista del PCI e direttore della rivista Le nuove ragioni del socialismo, sfoglia l’album dei ricordi. E si ferma alla pagina di Antonio Giolitti, morto ieri.
Senatore, come definirebbe Antonio Giolitti?
Un socialista riformista. È questa l’impronta di tutta la sua storia, sin dall’inizio.
E perché iniziò a fare politica nel PCI?
Il suo rapporto col PCI parte dall’antifascismo. Nel senso che Giolitti faceva parte di quel gruppo di intellettuali, come Aldo Natoli e Paolo Bufalini, che nella lotta al fascismo trovò nel partito comunista la forza più organizzata e più combattiva. Poi in quel partito continuò il suo impegno intellettuale politico, soprattutto sul fornte della politica economica.
Ma non essendo ortodosso nel ’56 lo abbandonò…
Le sue dimissioni arrivarono dopo il discorso che tenne all’VIII congresso, nel dicembre del ’56, che si svolse in un clima teso a seguito dei fatti di Ungheria. Un folto gruppo di intellettuali criticò la scelta del PCI di sostegno all’Urss e lasciò il partito. Ma in Giolitti ‘era anche un elemento in più di dissenso.
Quale?
L’idea che si era entrati in una fase nuova, e che per affrontarla servivano riforme economiche e sociali da realizzare attraverso un governo con la DC. La preparazione del centrosinistra fu una grande stagione in cui molti, come Giolitti, si misurarono con i cambiamenti dell’Italia dell’epoca.
Si spieghi.
La modernizzazione del miracolo economico aveva fatto esplodere nuove contraddizioni sociali, dall’immigrazione nel nord Italia a una nuova questione meridionale. Questo dibattito coinvolse un po’ tutti.
I socialisti, innanzitutto
I socialisti che dovevano chiudere l’esperienza frontista. Ma non solo loro: settori della DC volevano uscire in avanti dal centrismo, basti ricordare il convegno di San Pellegrino e il piano Vanoni; e anche il PCI si interrogò sul cambiamento, come accadde al convegno dell’Istituto Gramsci sulle “tendenze del capitalismo italiano” segnato dal confronto tra Amendola e Trentin.
Solo in parte però questo dibattito fu recepito dai governi di centrosinistra.
E’ vero, tanto che dopo che fece il ministro e ne rimase deluso, Giolitti preferì andare a fare il commissario europeo. Durante la sua esperienza di governo però si impegnò sulla linea della programmazione tentando riforme incisive e mantenendo un rapporto stretto col gruppo di Lombardi, ,anche quando Lombardi uscì dall’esecutivo.
Torniamo al PCI. Come reagì Togliatti all’uscita dal partito di Giolitti?
Cercò di non farlo andare via. Fu lo stesso Giolitti qualche tempo dopo a raccontare che gli arrivò in ritardo, quando la rottura si era già consumata, una lettera in cui Togliatti lo invitava a non lasciare il partito e a rimanere anche in una posizione di dissenso. La mia sensazione però è che lui aveva già maturato la scelta.
Sulla base del fatto che il PCI non poteva cambiare?
Ancora oggi penso che quel gruppo dirigente del PCI, per come era nato e cresciuto, non poteva fare ciò che Giolitti giustamente chiedeva. La svolta avrebbe dovuto farla la generazione successiva, quella di Berlinguer e avviare una riflessione profonda pro-socialista, invece di procedere a strappi. Solo così si sarebbe potuto realizzare l’auspicio contenuto nella lettera con la quale Giolitti lasciò il PCI: «Il distacco di oggi prepari la più sostanziale e efficace unità di domani».
E invece è arrivato il duello a sinistra con Craxi
Esatto. E anche in quella stagione Giolitti esercitò un ruolo autonomo e critico. Non è un caso che nell’87 fu eletto con Foa e Arfè come indipendente nelle liste del PCI al Senato. Non considerava i comunisti come dei nemici, anzi. E col tempo la sua divaricazione con Craxi divenne incolmabile. Mente Craxi provò a realizzare una socialdemocrazia, conflittuale col PCI e che aveva raporti col capitalismo, Giolitti pensava a una socialdemocrazia attenta all’evoluzione del PCI e che si muoveva nell’ottica della riforma e del superamento del capitalismo.
E addio unità sotto le bandiere socialiste, anche una volta caduto il muro
Era il suo sogno, quello di una grande partito socialista. E non solo il suo. Con Giolitti abbiamo sempre avuto un dialogo, io Giorgio Napoletano, Paolo Bufalini, Napoleone Colajanni nell’ottica di costruire in Italia un partito socialista. Per me, quel sogno, resta attuale.

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