IL SALARIO DELLA POLITICA, di Alain Garrigou, da Le Monde Diplomatique, giugno 2010
25 agosto 2010
Per evitare che la politica diventasse appannaggio dei ricchi, la si è dovuta trasformare in una professione in grado di dare vivere. Con il rischio che gli eletti si allontanino dai propri elettori.
Qualsiasi lavoro merita un salario... salvo il lavoro politico. Da quando democrazia e regime rappresentativo si confondono, la relazione tra eletti e elettori è sempre stata attraversata da un sospetto: possono veramente i primi rappresentare i secondi se ne traggono interessi personali, a cominciare da una retribuzione economica? Nel 1789, i delegati agli Stati generali non avevano previsto di restare a lungo lontani dalla loro provincia. Pressati dalle spese a Versailles, dove gli affittacamere approfittavano dell'occasione, poi bloccati a Parigi dalla trasformazione degli Stati generali in Assemblea nazionale costituente, lontani da casa e dalla famiglia, si trovarono finanziariamente a disagio - più o meno rapidamente - a seconda della loro condizione sociale e, per i più poveri, della consistenza del gruzzolo concesso loro dai mandanti. Fin dal 1° settembre 1789, l'Assemblea votò dunque un'indennità legislativa di 18 libbre al giorno, ma con tanta discrezione che il voto non fu neppure registrato nel verbale delle sedute...
In seguito, il regime censuario, subordinando la capacità di elettori ed eletti al pagamento di una certa imposta, e dunque alla ricchezza, escluse qualsiasi remunerazione del mandato. Il principio rimase valido fino agli inizi del suffragio universale: se tutti gli uomini (non ancora le donne) avevano diritto di voto, per essere eletti bisognava possedere un patrimonio. Come avrebbe potuto un povero avere la folle idea di farsi rappresentante? In Francia, fu l'indennità legislativa, adottata senza discussione nel 1848, con il suffragio universale, ad aprire la strada a eletti provenienti da ambienti più modesti. Probabilmente mai assemblee furono più «popolari» di quelle dell'inizio del XX secolo. In paesi come il Regno unito, dove la remunerazione non era legalizzata (si dovette aspettare il 1911), la «democratizzazione» del reclutamento politico passò attraverso i sindacati (trade unions), che si fecero carico degli emolumenti dei deputati del partito laburista.
Quando perdere un'elezione vuol dire finire disoccupati, ci si pensa due volte prima di mettere a rischio il consenso Alla fine, tutti i regimi politici hanno fissato un'indennità parlamentare - un modo per dire che il mandato non è un lavoro, ma merita una compensazione economica. Nonostante la cosa sia di una logica elementare, sarebbe sbagliato credere che sia stata accettata facilmente. Fissando subito un'indennità di 25 franchi al giorno, la II Repubblica suscitò una protesta antiparlamentare, perché il salario giornaliero di un operaio parigino era allora compreso tra 2 e 4 franchi. La sua soppressione da parte del Secondo impero, poi la reintroduzione a favore della sua Assemblea legislativa, non risolsero il problema. Per molto tempo ancora, i 25 franchi al giorno, reintrodotti nel 1871 - sotto forma di 9.000 franchi l'anno - , furono motivo di ironia, quando non di ostilità nei confronti dei deputati A tal punto, del resto, che fu necessario attendere il 1906 e l'istaurarsi di una Camera più popolare, con il Blocco delle sinistre, per vedere aumentare l'indennità a 15.000 franchi. Anche in questo caso, la misura fu così furtiva che provocò una levata di scudi. I suoi sostenitori si guadagnarono lo sprezzante appellativo di «quindicimilisti». Il 23 novembre 1906, ricordando la sorte del parlamentare Alphonse Baudin, ucciso mentre si opponeva al colpo di stato del 2 dicembre 1851, Le Matin scriveva ironicamente: «Baudin moriva sulle barricate per 25 franchi al giorno.
I nostri deputati hanno deciso ieri di vivere per 41 franchi e 9 centesimi». Andava perciò inventata un'altra modalità per adattare l'indennità all'aumento dei prezzi. Nel 1938, fu indicizzata sugli stipendi dei massimi dirigenti della pubblica amministrazione, in modo che potesse crescere regolarmente senza che i parlamentari dovessero votarla.
Alla fine di questa movimentata vicenda, l'istituzione della remunerazione dei mandati sembra ormai acquisita. I manuali di diritto, benché discreti sull'argomento, ne fanno addirittura un principio democratico.
Il sociologo Max Weber, senza dubbio più realista, in una conferenza del 1919 («Politik als Beruf») suggeriva che si trattasse di «una condizione per il reclutamento non plutocratico del personale politico (1)». Ma la sua generalizzazione non ha risolto tutto, perché resta da intendersi sul suo ammontare e sulla trasparenza (leggere l'articolo sulla Norvegia). Lo scandalo delle somme spese dai parlamentari britannici per loro uso privato ha recentemente ricordato il carattere esplosivo della questione.
Rendere il rappresentante più libero, d'accordo, ma rispetto a chi?
La questione venne sollevata all'interno dei partiti socialisti, dove alcuni militanti non vedevano di buon occhio la retribuzione legale dei propri eletti. Soprattutto quando, come nel Regno unito, avevano già provveduto ai loro bisogni prima dell'intervento dello stato. L'istituzionalizzazione dell'indennità parlamentare in un primo tempo allontanò i rappresentanti dai loro compagni, dato che la loro rielezione non dipendeva più dal partito ma dagli elettori.
Soprattutto per questa ragione, il Partito comunista francese esigeva che i suoi deputati gli cedessero l'indennità e in cambio versava loro un salario - pari a quello di un operaio qualificato - e si faceva carico delle loro spese.
Oggi l'investitura di partito è diventata condizione obbligatoria per la rielezione dei parlamentari. Questa dipendenza impone una rigida disciplina, che li costringe a votare per il governo, o con il loro gruppo, talvolta addirittura contro le loro convinzioni.
Così si comprende meglio come un'istituzione, accettata come necessaria, ingeneri nuove tensioni. Nel caso specifico, la retribuzione dei mandati ha contribuito a «democratizzare» socialmente il reclutamento politico, ma ancor più sicuramente ha contribuito a professionalizzarlo.
La politica, nel corso di un lungo processo iniziato nel XIX secolo, è dunque diventata un mestiere. Non era così facile per un medico come Georges Clemenceau, sconfitto nel 1893, ritornare all'attività professionale. Si capisce allora la ragione del sempre maggior numero di funzionari presenti nelle assemblee parlamentari dopo la seconda guerra mondiale (prima la cosa era incompatibile), perché la reintegrazione automatica nel posto di lavoro costituisce una garanzia apprezzabile contro le incertezze elettorali.
L'idea è volgare, ma quando perdere equivale a ritrovarsi disoccupati, uno ci pensa due volte prima di rischiare in politica. In seguito, evitare questa dolorosa esperienza merita bene qualche concessione alla disciplina e al compromesso. Questo tipo di evoluzione si è sempre più accentuata fino ad oggi, quando si vedono dirigenti politici che non conoscono altro mestiere che la politica, iniziando ad esempio come assistenti parlamentari, per poi vincere in una circoscrizione e essere sempre rieletti nello stesso feudo. Altri ancora esercitano solo un mestiere di facciata. E che dire degli alti funzionari la cui carriera si svolge tra i gabinetti ministeriali e la sede di lavoro?
Probabilmente non vi sono solo inconvenienti in queste carriere che sembrano garantire la competenza degli eletti. Ma ve ne sono certamente nel fatto che una professione - con i propri interessi, abitudini, relazioni - finisca per allontanarsi dai cittadini che è chiamata a rappresentare. Potrebbe essere una delle ragioni della riduzione del divario ideologico tra le formazioni politiche? La problematica tra il vivere di e il vivere per la politica resta più viva di quanto non lascerebbe pensare l'apparente consenso sulle regole del gioco democratico.
(1) Max Weber, La scienza come professione - La politica come professione, Mondadori, 2006. (Traduzione di G. P.)