IL RUOLO DEI SOCIALISTI, UN CONTRIBUTO AL DIBATTITO di Angelo Sollazzo , Roma 22 maggio 2013
20 giugno 2013
La grave crisi che ha colpito la politica italiana dovrebbe indurre ad una seria riflessione sul perché nel nostro Paese, il gradimento delle formazioni politiche sia sceso cosi in basso.
E’ utile ricordare l’antefatto. Tangentopoli cancellò tutti i Partiti che avevano costruito la lo Stato democratico e le Repubblica dopo aver lottato contro il fascismo con la guerra di liberazione e la resistenza.
In particolare le formazioni del vero centro-sinistra che avevano fatto dell’Italia la quinta potenza del mondo.
La caduta del muro di Berlino di fatto seppellì il più grande Partito comunista dell’occidente.
Le scelte successive di tutti furono costellate da una serie incredibile di errori.
Si scimmiottarono altre esperienze politiche, dalle americane alle asiatiche.
Si inventò il Polo del buon governo, la casa della libertà, i democratici di sinistra e via dicendo.
Insomma si fece il possibile per accantonare le vere culture politiche che governano e gestiscono la cosa pubblica in Europa ed in gran parte del mondo.
Le culture liberale,cattolico-democratica, conservatrice,comunista e socialista, vennero in un solo colpo cancellate per fare posto a delle invenzioni che ricordano le scelte fatte in paesi del terzo mondo.
In un Paese libero che senso ha avere un Popolo della libertà ? E che senso ha in una democrazia parlamentare avere un Partito che si chiama democratico?
Ora siamo al capolinea: occorre ridare alla politica la nobiltà che le compete e, dopo il fallimento del comunismo e del capitalismo senza regole, ritornare alle culture politiche escludendo quelle chiaramente fallimentari.
Chi pensa di inventarsi nuove sigle e nuovi contenitori fa finta di non ricordare il fallimento della Rosa nel Pugno e di trascurare il travaglio che sta vivendo il PD.
Bisogna invece riunire tutti coloro che si richiamano realmente alla sinistra riformista che oggi non può che essere una promanazione del socialismo europeo.
Pensare di coinvolgere di nuovo i radicali, ormai con numeri inferiori ai nostri, i liberali e laici, inesistenti e svaporati, improbabili Circoli ed Associazioni non ben individuati, significa essere velleitari e rinunciare al nostro ideale forte e vincente in Europa e nel mondo.
Non possiamo fare politica con le solite trovate che poi lasciano il tempo che trovano.
Un’invenzione al giorno non toglie il medico di torno, ma crea confusione e sconcerto, quando invece abbiamo la nostra stella polare che potrebbe tornare a brillare senza mutuare alcunché da altri.
Perché la nostra stella non brilla più? Vi sono problemi e responsabilità.
Certamente insistere sul come e quanti eravamo non ci aiuta. Non si può vivere di solo ricordo.
Ben altra cosa è la nostra storia che va difesa e tutelata, ben altra cosa è l’attualità e la modernità del socialismo. Per circa vent’anni, con una sola ed impreparata eccezione, abbiamo evitato di presentarci alle elezioni con il nostro simbolo passando attraverso le alleanze più disparate, con Segni, con Dini, con i Verdi e con i Radicali. Con tali comportamenti abbiamo consentito la elezione di qualche dirigente , tutelato una piccola cooperativa o cricca, ma abbiamo fatto disamorare l’elettorato socialista che per tanto tempo ha cercato invano il proprio simbolo sulla scheda elettorale.
Avevamo, infine un’occasione storica, dovuta alla legge elettorale detta Porcellum. Si poteva cioè, dopo tanti anni, eleggere sotto le nostre vere insegne un gruppo nutrito di parlamentari socialisti. Si è scelto di imboscarsi nelle liste del PD, partito in crisi perché senza identità, garantendo qualche amico, ma perdendo una grande occasione. Ciò che non si comprende è il fatto che nessuno si assume le responsabilità delle disfatte, come se fosse dovuto il tutto al destino cinico e baro. Boselli dopo la cocente sconfitta che ridusse il PSI allo 0,9 %, con dignità fece un passo indietro. Oggi che siamo allo 0,5 % e forse meno nulla si muove, come se le colpe fossero di altri ed il Congresso, che si sarebbe dovuto celebrare un anno fa, viene spostato all’autunno.
La catena degli errori è stata lunghissima: l’accettazione di una legge elettorale regionale senza preferenze e con listino che nomina e non elegge, la presenza in Giunte regionali monocolori di altro partito, la rinuncia alla candidatura alle europee del massimo esponente del Partito, l’assenza di un nostro candidato alle Primarie, la non presentazione della lista socialista alle nazionali, l’esclusione da qualsiasi incarico di Governo. Resta difficile capire che tutto ciò non abbia uno o più responsabili. Il Partito, dopo l’ultimo risultato elettorale, aspettava le dimissioni di tutta la Segreteria e non l’esaltazione di avere garantito il seggio a qualcuno.
L’ultima trovata è quella di riproporre la Rosa nel Pugno, più o meno modificata.
Come si fa a convivere con i Radicali che nel Parlamento Europeo aderivano al Gruppo liberale mentre noi siamo parte integrante del PSE? Come è possibile creare un nuovo soggetto politico con chi predica una politica economica liberista e reaganiana, mentre noi siamo un partito di sinistra e del lavoro? I Radicali predicano l’abolizione dei servizi che rendono i sindacati, anzi sono per la chiusura del sindacato. Un partito del lavoratori tutto ciò non lo può consentire. Parimenti i Radicali sono per una legge elettorale con turno unico all’americana, noi siamo sempre stati per il proporzionale con le preferenze. Crediamo che possa bastare. I socialisti devono stare e guardare a sinistra e non a destra, altrimenti cadono in una contraddizione in termini. Un Partito socialista è, per definizione, un partito di sinistra e deve essere aperto a tutte le possibile evoluzioni di partiti e movimenti che hanno fatto la chiara scelta di sinistra.
Un partito di lavoratori si rivolge ai più deboli, lotta per soddisfare i bisogni, agisce in una cornice ben definita di sinistra. Prima dei pur importanti diritti civili ,vi sono i diritti sociali, le questioni del vivere quotidiano, non le scelte di nicchia dei radicalchic.
ATTUALITA’ E MODERNITA’ DEL SOCIALISMO
Il socialismo è attuale e costituisce la ricetta giusta per uscire dalla crisi. Obama negli Stati Uniti, e molti leaders occidentali hanno affrontato la crisi con interventi di stampo prettamente socialista. Lo Stato che interviene direttamente nelle aziende strategiche in crisi con propri capitali,ne controlla la gestione e ne fuoriesce a risanamento avvenuto.
In ogni crisi epocale è stata la mano pubblica a rilanciare le economie e, senza disturbare Keynes, oggi risulta indispensabile porre freno alla finanza famelica, sottoporre a controllo il mercato e sostenere l’economia reale. Le liberalizzazioni e le lenzuolate non creano posti di lavoro ma li tolgono. La concorrenza non crea sviluppo ma decrescita. Su ogni euro che investe lo Stato, i privati per restare al passo ne investono tre. Le grandi opere sono state sempre il volano del rilancio economico.
Per tutto ciò l’attualità del socialismo e la sua modernità risultano evidenti. Il socialismo, infatti, è solidarietà, è cultura, è civiltà. La nostra cultura politica da risposte contro tutte le crisi, da quella politica a quella economica, a quella morale.
Una ragione sociale chiara e fondamentale, un’ideale che è il più importante della storia dell’intera umanità, tutto questo ,oggi, rappresenta il socialismo democratico.
Il socialismo si batte per l’uguaglianza e la giustizia sociale, per la ridistribuzione della ricchezza e si preoccupa dei poveri.
Lo stesso concetto di libertà è socialista.
La libertà non solo di parola, di pensiero, di religione e di movimento, libertà gia acqusite in gran parte dei paesi evoluti.
Ma occorre battersi per la libertà dai bisogni, dalla malattia e dall’ignoranza.
Libertà dai bisogni che diventano ogni giorno più assillanti, con la soglia della povertà che si è abbassata paurosamente, con le famiglie sempre più povere e con redditi che non riescono a soddisfare le esigenze minime ed arrivare a fine mese.
Libertà dalla malattia, con una sanità pubblica efficiente e riorganizzata. Ospedali pubblici finanziati in maniera adeguata in luogo di sostegni a cliniche e strutture religiose e private. Una sanità totalmente gratuita per i meno abbienti, una ricerca con risorse al pari di quelle concesse in altri Paesi europei, anche per evitare l’emigrazione dei nostri giovani talenti e dei migliori cervelli.
La libertà dall’ignoranza, per una scuola pubblica meritocratica, con finanziamenti adeguati e con una graduale diminuzione degli stessi alle scuole private. Una scuola ed una università che garantiscano pari opportunità a tutti senza differenza di censo in modo che si possa diventare medico,avvocato o notaio anche se si è figli di contadini e non per eredità delle attività dei genitori. Una formazione professionale utile a sfornare tecnici che riescano a trovare lavoro e non nuovi disoccupati preparati in settori assolutamente inutili.
Il socialismo deve servire a dare speranza, a tutelare il bene comune, a riaffermare la validità di un ideale.
Oggi la disaffezione nei confronti di tutta la politica è dovuta alla mancanza di ideali. I giovani non si avvicinano ai partiti, gli adulti con qualità culturali e professionali se ne tengono alla larga, i più preparati si allontanano, e la politica viene fatta dai facoltosi, che operano per lucrare e tutelare i loro interessi e dai lestofanti e nullafacenti che sono impegnati a a rubare ed a ricoprire incarichi non dovuti.
I socialisti devono tenere la barra dritta verso i loro fondamentali, pensare alla economia reale e non alla virtuale, rilevare come il male supremo della crisi economica sia stato l’avere lasciato campo libero alla finanza ed aver trascurato la produzione dei beni, l’industria manufatturiera, il lavoro come risorsa.
Certamente i venti anni della seconda Repubblica hanno creato un disastro immane mettendo il Paese in ginocchio. Il berlusconismo ha tentato di rappresentare una realtà inesistente. La politica dell’apparire, della pubblicità come vita reale, la negazione di crisi e di povertà, ci hanno portato al discredito internazionale ed alla scoperta di un Paese povero e senza volontà e capacità di reagire. La soluzione trovata per l’immediato ha aggravato la situazione.
Il Governo Monti, legato alla finanza internazionale ed ai suoi dettami, ha ulteriormente impoverito le famiglie, con tasse inique e provvedimenti errati, riforma del lavoro, esodati, falcidia delle pensioni, IMU, aumento IVA etc. . Siamo passati da un teatrante come Berlusconi, ad un manettaro come Di Pietro, ad un cinico esattore come Monti e stavamo precipitando nella scelta di un comico come Grillo. La seconda Repubblica ha dato il meglio di sé nel portare il Paese alla rovina.
Oggi ci troviamo di fronte a tre grandi crisi: la crisi politica, la crisi economica e la crisi morale.
LA CRISI POLITICA
Il populismo non è un’invenzione recente. Dal dopo guerra con l’Uomo Qualunque di Giannini, fino ad oggi vi è stato spesso un periodo storico in cui riusciva ad allignare un certo populismo. Negli ultimi due decenni, di populismi ne abbiamo visti parecchi anche se di caratura e impostazioni diverse. Da Berlusconi a Di Pietro, da Bossi a Ingoia, a Grillo hanno rappresentato stagioni del peggior populismo e del ripudio delle culture politiche.
La qualità della cultura politica è tanto scadente da far rivalutare anche il peggior esponente della prima repubblica.. Le nuove formazioni che dovrebbero avere la rappresentanza democratica, rifuggono da ideali precisi, teorizzando la assurda tesi che non vi sono più in politica una destra ed una sinistra, immettendo un personale incompetente, che non ha fatto alcuna gavetta, ai posti più alti della rappresentanza popolare, cadendo nel ridicolo nominando parlamentari, con la attuale antidemocratica legge elettorale, i parenti, gli amici di infanzia, i propri avvocati e le amanti di turno.
Il Bene comune sembra non interessare la classe politica attuale, e si va alla ricerca di clienti e scudieri pronti agli ordini dal capo. In tal modo si sono allontanati dall’agone politico l più capaci, gli onesti e gli idealisti per sostituirli con i personaggi ricchi, imprenditori ed industriali, per sostituire ad imprenditori altri della stessa categoria, ovvero i lestofanti che si buttano in politica per arricchirsi, per rubare, o semplicemente per usare il potere a fini personali quando non a sostegno della criminalità organizzata.
Gli scandali degli ultimo anni hanno ridicolizzato tangentopoli. Negli anni novanta si eccedeva soprattutto nel reato di illecito finanziamento dei partiti. Spesso si violava la legge per finanziare il partito non se stessi. I casi di Penati, di Lusi, di Fiorito,di Maruccio e di tanti altri hanno superato di centinaia di volte il numero di corruttele della prima repubblica.
Altro che Tangentopoli. E’ strano ,ma non tanto, che ancora oggi di fronte a tale spettacolo indecoroso, molti capi e capetti per parlare dei mali della politica rievocano in continuazione tangentopoli. La solita “pagliuca” nell’occhio invece della trave.
Come socialisti da anni, e per primi, abbiamo sottolineato la necessità di applicare l’articolo 49 della Costituzione, con il riconoscimento giuridico dei partiti, garantendo trasparenza finanziaria e democrazia interna e con il controllo dei bilanci da parte della Corte dei Conti.
L’iscritto ad un partito deve poter avere piena agibilità politica all’interno del Partito.
Occorre combattere le cooperative e le cricche che inevitabilmente si formano nei gruppi dirigenti e ciò è possibile solo con la certezza della democrazia interna. I partiti personali sono la negazione della politica. Da sempre abbiamo lottato ed applicato la regola di non inserire il nome del Capo di turno nel simbolo del partito. Purtroppo a destra e a sinistra (SEL) questa prassi è stata adottata per anni. Riteniamo opportuno inserire nella nuova legge elettorale una clausola di esclusione delle liste che si rifanno ad una sola persona con l’inserimento del nome del leader. Il partito politico deve essere un soggetto collettivo e non padronale.
LA CRISI ECONOMICA
La crisi economica che ci ha investito rende drammatico anche il vivere quotidiano. Non è utile riversare le responsabilità sulle congiunture internazionali, sulla bolla finanziara americana, sui disastri provocati da derivati, sul monetarismo esasperato di certi paesi ed altro ancora. Concordiamo con quanti predicano la necessità di un controllo serio e vero del mercato, sulla urgenza di porre fine ad un capitalismo selvaggio e pericoloso che impoverisce i popoli e le nazioni, ma in Italia abbiamo fatto tutto il possibile per infilarci in una situazione che inizialmente era migliore di quella di tanti altri Paesi. Non aver voluto ammettere che la crisi ci avrebbe comunque colpito e non aver adottato contromisure precise nei tempi e nei modi necessari, ha creato una situazione gravissima che ha penalizzato fortemente l’intero Paese.
Siamo arrivati ad avere otto milioni di poveri, oltre tre milioni di disoccupati, con la disoccupazione giovanile che ha toccato il 40%, I consumi con una diminuzione del 4% ,che ci riporta al dopoguerra, le pensioni falcidiate da un governo di professori inconcludenti e spesso incapaci, i salari più bassi d’Europa, l’edilizia abitativa che perde il valore del 20%, le infrastrutture fatiscenti che presentano ritardi, rispetto ad altri, di circa trenta anni.
Le imprese fallite, di media dimensione, sono oltre sedicimila, la tassazione che ormai complessivamente supera il 55%, l’evasione fiscale che arriva a centosessanta miliardi di euro e l’incidenza della corruzione che tocca i sessanta miliardi.
A ciò bisogna aggiungere che il debito dello Stato verso le imprese tocca i cento miliardi ed i pagamenti, da parte della Pubblica Amministrazione, vengono effettuati con ritardi che toccano i tre anni. L’IVA lo Stato pretende di riscuoterla, invece, all’atto della emissione della fattura e non dopo la riscossione del dovuto.
In tale contesto difficile molte aziende italiane stanno delocalizzando in Paesi vicini, dove la certezza del diritto e la incidenza delle tassazioni sono più accettabili.
In contemporanea gli investimenti esteri sono crollati. Non funziona più la favola di un eccesso di sindacalizzazione e quindi di scioperi nel nostro Paese. Nella vicina Gerrmania i sindacati sono molto più potenti e si sciopera di più.
Gli investitori non vengono in Italia perché le tasse sono troppo alte, perchè la giustizia è lentissima, con cause civili che durano decenni, perché la burocrazia è asfissiante e per ottenere quanto dovuto, tra permessi e lungaggini, passano mesi.
LA CRISI MORALE
La solidarietà tra i cittadini non alberga più nel nostro Paese. Ci si riunisce solo in presenza di gravi calamità naturali ed in poche altre occasioni. Quando non si è solidali si tende ad essere furbi e ci si rifugia nel cinismo e nell’egoismo becero. Circa il 50% degli italiani non paga le tasse come dovrebbe ed un euro su tre è frutto di traffici illeciti o criminali.
Si ha una specie di idiosincrasia nel richiedere la fattura o lo scontrino per il pagamento effettuato, dal dentista al bar. Si mostra insofferenza quando si viene controllati, dal vigile urbano, dalla guardia di finanza o da altra autorità. La corruzione non è solo quella dei grandi numeri ma anche quella delle piccole cifre, quando si tenta di pagare meno, con lo sconto, frodando lo Stato.
Si imbrattano i muri, si danneggiano i giardini, si lascia immondizia ovunque, insomma non si sa più cosa è la educazione civica.
E’ venuta meno la voglia di appartenenza ad una comunità, alla Nazione. Lo stesso concetto di Patria è svuotato.
Per non parlare delle caste. La casta per antonomasia è quella dei politici. Vi sono verità ma anche scandalismi di troppo. Si dimenticano però, troppe altre caste.
Quella dei manager privati e pubblici che guadagnano molto di più dei politici, quella degli altri burocrati, veri detentori del potere pubblico, quella dei magistrati che guadagnano di più, lavorano di meno e non rispondono dei loro errori, quella dei giornalisti di prima fila che incassano somme enormi per gettare veleno sugli altri, quella dei vescovi e dei cardinali che quando parlano di povertà suscitano sorrisi ed ilarità. Per tosare le pecore non bisogna badare al colore delle stesse, altrimenti si creano privilegi inaccettabili.
PROPOSTE E SOLUZIONI
Per anni abbiamo insistito sulla necessità di una patrimoniale che potesse colpire le grandi rendite parassitarie ed assenteiste ed i redditi eccessivi. Purtroppo anche le formazioni politiche di centrosinistra, su questo tema, si sono arenate. In Italia il 10% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Il divario tra ricchi e poveri cresce paurosamente. Occorre, quindi, pensare seriamente ad una politica che permetta una ridistribuzione della ricchezza.
La stessa Confindustria ha avuto modo di dichiarare la sua disponibilità alla applicazione di una patrimoniale, ma la politica si è dimostrata divisa.
Basterebbe un prelievo dell’uno per cento sulle grandi ricchezze, per non più di cinque anni per assestare colpo duro al debito pubblico e riportarlo su valori accettabili. Concordiamo sulla necessità di ridimensionare il fiume di danaro incanalato verso le Regioni a statuto speciale. Una spesa di diciotto miliardi all’anno che il Paese non si può permettere.
Con lo scudo fiscale il nostro Paese ha consentito il rientro di capitali trasferiti all’estero di 105 miliardi di euro con una ridicola tassazione del 5%. Portandola ai livelli europei, dove è stata adottata la stessa misura, al 20 %, si otterrebbe un introito significativo su somme frutto di grandi evasioni fiscali.
Un capitolo a parte merito il settore degli armamenti.
Per primi abbiamo sollevato il problema dei cacciabombardieri F35. Una spesa di 15 miliardi insostenibile per combattere nemici invisibili, per garantire il lavoro solo a poche migliaia di persone, quando con tale cifra si potrebbe mettere in sicurezza il sistema sanitario nazionale, o almeno in parte di esso. Sono stati anche commissionati sei droni, aerei senza pilota, e due portaerei.
A parte il fatto che l’Italia, non è proprio portata ad essere militarista, ci domandiamo a che servono tali arsenali e chi ha l’interesse a spendere tali iperboliche cifre. Parimenti con la crisi che ci attanaglia non ci possiamo permettere di avere migliaia di soldati all’estero, per missioni di pace o di guerra che siano. Sarebbe invece utile dismettere caserme e porti militari, incamerando cifre importanti.
La vendita del patrimonio pubblico potrebbe portare nelle casse dello Stato circa 400 miliardi.
Nonostante i roboanti annunci degli ultimi due Governi, il capitolo è fermo, quando basterebbe evitare nuove sovrastrutture ed incaricare per la vendita la funzionante Cassa Depositi e Prestiti.
Non dobbiamo sottacere sulla esigenza di una diminuzione significativa dei costi della politica. Si sta affrontando il tema del finanziamento pubblico ma non è bastevole.
Bisogna abolire le Province, accorpare i Comuni, con entità non inferiori a cinquemila abitanti, ridurre drasticamente i 24 mila consiglieri di amministrazione di Società pubbliche e miste, i 18mila consiglieri circoscrizionali, eliminandoli nella città al di sotto di trecentomila abitanti, abolendo, finalmente, gli Enti inutili e riducendo da 500mila a 50mila i consulenti ai vari livelli , più o meno collegati con le attività politiche.
Altra spina dolente è quella relativa alle tasse non pagate da Vaticano. Si tratta di circa 11 miliardi all’anno che sfuggono al fisco.
100mila edifici di proprietà, di cui molti extraterritoriali, e dopo 150 anni dall’Unità d’Italia, tale privilegio dovrebbe sparire, 1600 cliniche ed ospedali, 180 università private, 1500 musei ( la sola Cappella Sistina ha 20mila visitatori al giorno al costo di 30 euro ognuno, senza pagare tasse, SIAE od altro, per un totale di seicentomila euro pro-die). Sono migliaia i monasteri, i conventi e i palazzi trasformati in alberghi e ristoranti, per il Vaticano esentasse, senza parlare delle scuole religiose che sottraggono finanziamenti statali a quelle pubbliche.
Necessita infine un rilancio del settore delle costruzioni con particolare attenzione al riassetto idrogeologico del Paese, con il varo di un vero Piano Casa e con interventi per le infrastrutture. Le riprese economiche sono ,da sempre, collegate al rilancio delle grandi opere.
Avviene ovunque, auguriamoci che possa accadere anche in Italia. Speriamo bene..
Il dramma che incide sulla società italiana è quello della mancanza di lavoro.
Come si diceva ormai la disoccupazione attraversa generazioni e categorie.
Disoccupati sono i giovani che non riescono ad entrare nel mondo del lavoro, neanche se trentenni, disoccupati sono i cinquantenni che hanno perso il lavoro perchè le loro aziende sono fallite, senza reddito sono gli autonomi, poiché la domanda dei loro prodotti subisce un calo continuo, poiché, con la crisi, i consumi calano mentre i costi di produzione restano stabili.
I cassaintegrati, gli esodati, i lavoratori precari,quelli a termine ed a progetto, rappresentano il nuovo proletariato che soffre e chiede risposte.
Urge una politica dell’occupazione, un nuovo impegno per un problema che è divenuto drammatico.
Per una politica a favore delL’OCCUPAZIONE
Il lavoro, per una forza che si ispira al socialismo europeo, costituisce, ad un tempo, un problema ineludibile ed una indiscutibile base programmatica e di impegno politico. naturalmente parliamo di un argomento che, la crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando, ha reso particolarmente teso e drammatico. Infatti assistiamo allo stesso tempo a due fenomeni: la disoccupazione crescente e lo sfruttamento attuato da una sostanziale precarizzazione dei rapporti di lavoro. Anni di lotte sindacali e di conquiste sociali sembrano svanire di fronte ad una offerta di lavoro sempre più scarsa e dequalificata.
Diciamo subito che a nostro avviso il tema, al di la di alcuni “tecnicismi”, deve essere ricollocato nel più ampio capitolo della distribuzione di ricchezza anche se questo poi ci riconduce ad una analisi sulla sua produzione e quindi sul sistema economico nel suo complesso. La crisi, per certi versi, sta erodendo spazi soprattutto nei Paesi, come l’Italia, a più alta vocazione manifatturiera ed è quindi di lì che bisogna partire. Scontiamo probabilmente criticità che si sono venute accumulando nel corso degli anni: da una sostanziale obsolescenza produttiva (pochi investimenti in ricerca); la distruzione della grande industria che ha reso l’itero tessuto di Piccole e medie imprese prive di punti di riferimento; infine la mancanza da troppo tempo di politiche industriali che hanno ulteriormente indebolito il sistema-Paese, in un contesto, quello europeo, in cui, al contrario politiche governative ed accordi di partenariato tra le parti sindacali (datoriali e dei lavoratori) hanno irrobustito e rafforzato i vari livelli di produttività e di competitività delle imprese. E’ successo in Germania.
Ma oramai occorre guardare al futuro ed a recuperare quanto prima il terreno perduto.
La nostra attenzione dev’essere quindi rivolta, oltre che ai temi generali dell’economia, ad alcuni segmenti emergenziali da cui è necessario partire, al fine di assicurare quella necessaria serenità sociale e ritornare successivamente a riflettere sul vero cuore del problema che è rappresentato dalla produttività del lavoro.
Del resto non è obbligatorio che “tutti i lavori” debbano essere produttivi. Negli anni del boom economico una forma di reimpiego fu trovata nel’àmbito dei servizi: la scuola, le poste, prima ancora che i lavori pubblici, costituirono significative forme di impiego per intere categorie e di lì nacque quel ceto medio che ha poi fatto gran parte della fortuna del nostro Paese. Riteniamo quindi che non sia di secondaria importanza riconsiderare il pubblico impiego anche senza guardare troppo per il sottile ma in una specifica idea di welfare o di ammortizzatore: la tradizione del socialismo democratico ci abituato a guardare in faccia la realtà e a non rinnegare mai il “meglio” in nome dell’ “ottimo” ! I tempi che attraversiamo, del resto non ci consentono fughe in avanti ma di individuare sentieri e percorsi in cui ci sia posto per tutti. Per i primi della classe ma anche per gli ultimi.
A) Il Lavoro nella Pubblica amministrazione
Premessa
La lotta alla disoccupazione va inquadrata, al di là dell’ovvio riferimento alle crescita ed allo sviluppo, all’interno delle più complessive politiche di welfare. Lavori “migliori”, “stabili” e “duraturi”, hanno relazioni intense e per niente occasionali tra di loro e con i temi della crescita, della produttività e della sostenibilità dei sistemi pensionistici, degli ammortizzatori.
Per un verso, infatti, il prototipo di primo inserimento lavorativo, incentrato essenzialmente sull’apprendistato, accentua la componente formativa (di formazione “sul” lavoro), necessaria a supplire un sistema scolastico che dovrebbe somministrare gli elementi base (di carattere non solo tecnico) ma che non può più rincorrere lo sviluppo tecnologico a causa della rapidità esponenziale dell’innovazione; per l’altro il “luogo” di lavoro contiene degli elementi che sono difficili da riprodurre in “laboratorio” (le “prassi”) e quindi possono essere appresi meglio attraverso il confronto diretto.
La trasformazione, oramai completa del sistema pensionistico, da retributivo a contributivo, impone un “progetto di accantonamento” di circa quarant’anni e dunque un suo avvio in età precoce. Calcolando il limite pensionistico a settant’anni, significa che occorre incominciare ad accantonare almeno a partire dai trent’anni. Cosa che oggi non avviene.
Occorre inoltre considerare che, l’altissimo tasso di denatalità espone il nostro Paese ad ulteriori rischi nei prossimi anni. Il fenomeno è indubbiamente riconducibile alle troppe “incertezze” ed alle vistose crepe del sistema complessivo del nostri sistema di welfare. Politiche vere a favore della famiglia non possono non contemplare alcune “certezze” fondamentali che vanno ad ogni costo garantite. Si tratta di una sorta di diritti irrinunciabili, il primo dei quali è rappresentato dalla certezza ad una vita lavorativa (con conseguente approdo al sistema pensionistico) in grado di consentire una qualche forma di modello esistenziale.
Occorre dunque (almeno a partire dai trent’anni) accumulare, metter famiglia e determinare condizioni quanto più favorevoli alla nascita. Questi due primi elementi forniscono una prima chiave di lettura ai fini dell’impostazione di politiche di welfare in una fase di razionalizzazione delle risorse economiche: infatti descrivono un target di riferimento e, al contempo, una priorità. Entro un quadro complessivo di crescita che non può ignorare i temi della produzione della ricchezza e, ad un tempo, della sua distribuzione.
La Crisi
La fase di profonda crisi che il Paese, come gran parte dell’Europa sta attraversando, si combatte, viene ripetuto con sempre maggiore frequenza, con la crescita. Che con tale termine si debba individuare non un solo indicatore economico (ad esempio l’aumento del PIL) ma un insieme di fattori, è la vera linea di demarcazione tra impianti politici e programmatici diversi.
Noi (eredi di tre grandi tradizioni, quella liberale, quella cattolico-democratica e quella socialdemocratica), dobbiamo mediare un’insidia che è tipica dei moderni sistemi democratici. La mediazione tra le indicazioni che le classi dirigenti devono rendere e le esigenze che si determinano nel territorio e che condizionano fortemente i modi di pensare. Siamo perciò convinti che serva una forte mobilitazione del Paese e delle sue forze produttive sul tema del lavoro e che, prima di tutto, occorra combattere una sorta di rassegnazione di persone che hanno perduto la speranza: occorrono interventi forti; capaci di coinvolgere numeri importanti di persone; di avviare processi capaci di forte mobilitazione di masse. I numeri diventano importanti almeno quanto i conti. La “quantità” e la “qualità” dei posti di lavoro sono fortemente intrecciati dal momento che evoluzione dei processi dell’informazione tendono a ricondurre sempre di più la realtà alla sua “percezione”: i “numeri” (ad esempio quello di occupati che potrebbero derivare da un terminato provvedimento) sono fondamentali, anche ai fini di una “percezione di crescita” e al rilancio di una fattiva cooperazione per la ricerca di lavoro (per inciso, sono drammatici i dati riferibili a coloro che non cercano più lavoro, specie tra la popolazione giovanile).
Un primo problema è rappresentato dai circa 400.000 precari della Pubblica amministrazione. Si tratta di una delle componenti maggiori della cosiddetta area del precariato, costituitasi nel corso degli anni e senza che siano stati attivati processi veri e radicali di ottimizzazioni delle risorse umane impegnate.
Prospettare un processo di stabilizzazione significa ripensare a strumenti di welfare nuovi ed in parte da reinventare: in modo da “efficientare” e, ad un tempo, creare una sorta di “ammortizzatore attivo”, per cui il salario viene concesso a fronte di prestazioni in qualche modo riconducibili all’utilità pubblica. Del resto, come si dicava, la ricostruzione nel nostro Paese è stata accompagnata dal sostegno delle assunzioni pubbliche. Specie al Sud, ad esempio, le “poste” hanno rappresentato (in particolare negli anni ‘60) un ammortizzatore importante. Non si propongono, naturalmente, meccanismi capaci di incoraggiare il clientelismo, ma di inserire (anche come misura di ammortizzatore) nella P.A. un numero ingente di giovani, a partire dagli attuali precari.
Occorre innanzitutto considerare:
un numero rilevante di loro presta servizio in maniera più o meno ininterrotta da più di dieci anni;
la stragrande maggiorana di loro rientra nella fascia di età 35-45, esattamente nel periodo più propizio a metter su famiglia e di massima fertilità. Lo stato di precariato, evidentemente, scoraggia molto tale prospettiva;
la soluzione prospettata non implica necessariamente costi aggiuntivi e potrebbe essere collocata nel contesto di un’azione di spending rewue intelligente, dal momento che una parte dei costi sono già sostenuti e si tratta solo di un problema, certamente, non secondario di “classificazione” della spesa.
2. Il precariato e la Pubblica amministrazione
Negli anni, per una serie di fenomeni, il precariato nella PA ha raggiunto cifre impressionanti. In un sistema pubblico (niente affatto superaffollato in Italia, rispetto ad altri Paesi europei), sempre più articolato ed in gran parte ammodernato (basti pensare ai livelli di responsabilità oggi gravanti sulle amministrazioni), il livello occupazionale è rimasto sostanzialmente invariato.
Qui bisogna essere intellettualmente onesti. In quasi tutti i casi, i limiti imposti dal sostanziale divieto di occupazione, sono stati aggirati facendo ricorso a personale precario. Sicuramente più giovane, sicuramente più preparato (se non altro perché più fresco di studi) ed in genere “supplente” di professionalità sulla carta in qualche modo presenti.
Ma solo sulla carta ! Nei fatti !
Ringiovanimento della Pubblica Amministrazione e problema pensionistico
Occorre ancora mettere tutto questo in connessione con l’ultima, radicale, riforma del sistema pensionistico. L’estensione del sistema retributivo costituisce una sicura misura di equità. Non altrettanto l’allungamento della vita lavorativa: è vero che la pensione di “anzianità” è presente ancora nell’orizzonte delle opzioni possibili ma è sostanzialmente disincentivata.
Questo significa che una numerosissima platea di persone, per le quali la prospettiva pensionistica a medio periodo (2 o 3 anni) era a portata di mano, saranno costretti a ritardare l’uscita dal lavoro. Considerando che gran parte di tali persone appartengono proprio all’apparato pubblico, tale ritardo comporta altre tre, pericolose conseguenze:
l’ingessamento della PA nei prossimi anni e
l’appesantimento di personale; poco qualificato; del tutto demotivato; per nulla disponibile a sperimentare quei percorsi di ammodernamento strutturale che sono invece assolutamente necessari alle nostre P.A.
l’impatto improvviso nei prossimi anni sul sistema pensionistico, quando si saranno scaricate le tensioni ora bloccate.
L’opportunità di avviare processi di fuoriuscita dalla P.A. potrebbe, infine, servire a spostare il peso di un ipotetico inserimento di forze giovani sul sistema pensionistico, alleggerendo, allo stesso tempo, il peso di un impatto improvviso che lo spostamento dell’età potrebbe avere nei prossimi anni, per graduarlo nel tempo.
Ipotesi di lavoro
Portare forze nuove nella P.A. non deve, necessariamente comportare spese aggiuntive
L’ipotesi che qui si propone consiste nel “ristrutturare” uno strumento già sperimentato nel passato: gli LSU (i Lavori socialmente utili). In sostanza si tratterebbe di adottare un provvedimento legislativo mirante:
assegnare una sorta di salario minimo d’inserimento, a partire dai quasi 400.000 precari della Pubblica amministrazione. L’inserimento dovrebbe avvenire attraverso concorsi che considerino in maniera significativa l’esperienza lavorativa acquisita e da svolgere come ingresso nel bacino. S’istituirebbe una sorta di “lista nazionale” da cui le Pubbliche amministrazioni (a cui, nel frattempo verrebbe assolutamente vietato di procedere ad ogni forma di altra contrattualizzazione) potrebbero assumere (a tempo indeterminato) il personale necessario. L’assegno nella “lista nazionale” potrebbe essere ipotizzato intorno ai 20.000 € annuali (12.000 di stipendio ed 8.000 di accantonamento previdenziale). Non si applicherebbe alcuna forma di fiscalità.
Attenuare le norme pensionistiche ai dipendenti pubblici, attivando ad esempio forme di “risoluzioni consensuali”, già previste da quasi tutti i CCNL, ovvero agevolare il part time, magari a partire da una certa età;
procedere all’inserimento lavorativo.
il bacino potrebbe essere mantenuto costantemente a 400.000 persone, procedendo ad indire concorsi man mano che procede l’assorbimento pubblico.
4. Sostenibilità finanziaria
Ipotizzando una retribuzione di 20.000 € annuali (calcolo medio, che potrebbe essere ricalibrato in base al titolo o ai titoli di studio, all’anzianità o ad altri fattori) avremo una spesa teorica per 400.000 precari di circa 8 Mdl.
Tale spesa (qui calcolata in modo prudenziale) peraltro è già oggi molto più alta ed è di difficile lettura dal momento che una parte non irrilevante è, correttamente, inscritta non sempre tra le spese correnti. Anche se nella stragrande maggioranza di questo si tratta.
La spesa però è a vari titoli effettivamente sostenuta e dunque va ricondotta ad una iscrizione più opportuna.
B) Le politiche attive
2. Il Lavoro
E’ evidente che l’occupazione non è solo legata alle condizioni del suo mercato. Se manca la crescita economica, l’innovazione e la competitività delle imprese, diventa difficile parlare di nuova occupazione, specie ora che il “classico” ammortizzatore statale è definitivamente venuto meno.
Ma è vero anche l’inverso: una “qualità” migliore del lavoro (nel senso della sua “tenuta” in termini di conoscenze), una “politica attiva” pienamente disponibile per gli imprenditori oltre che per i lavoratori (quindi un sistema di offerta integralmente utilizzabile e soprattutto rapidamente fruibile), assieme ad altre condizioni possono sostenere processi di ristrutturazione aziendale veloci, efficienti dal punto di vista della sostenibilità economica e soprattutto efficaci in quanto a competitività del prodotto finale, la merce.
La costruzione di un “sistema” consente di affrontare l’altro grande tema, finora sostanzialmente irrisolto: quello legato ai processi di mobilità. In questo caso, infatti, occorre pensare a processi di ricollocazione professionale (che non possono essere interamente assorbiti dall’autoimpiego).
3. I Target
Per passare ad un sistema di “tutele attive” – che sia componente essenziale delle “politiche attive” – è necessario individuare fasce diverse di lavoratori, i cui fabbisogni devono essere commisurati e proporzionati in maniera intelligente, considerando anche i costi che gli strumenti comportano. In epoca di ristrettezza economica, non è possibile garantire tutele uguali a target disuguali: occorre dunque determinare delle priorità.
Innanzitutto va diviso il lavoro giovanile (almeno fino ai trent’anni), da quello adulto (tra e trenta ed i cinquant’anni), da quello maturo (oltre i cinquant’anni) ed infine da quello di vecchiaia (oltre i sessant’anni). Alla prima categoria possono essere applicati parametri di flessibilità molto ampi; ma questi devono essere decrescenti (anzi fortemente ridimensionati nella seconda fascia; meno nella terza).
Si può pensare all’introduzione nel sistema di welfare del principio dell’ “invecchiamento attivo”, con forme di fuoriuscita morbida dal mercato del lavoro, che possa favorire anche un prolungamento dell’età lavorativa. In questo caso, se com’è naturale, il lavoro degli anziani non deve servire ad ammortizzare la disoccupazione dei figli o dei nipoti, si potrebbe anche scambiare “salario” con “tempo libero”. Evidentemente questo rappresenta l’ultimo pezzo, dal momento che il problema dell’invecchiamento attivo andrà affrontato quando il nuovo sistema pensionistico sarà giunto a pieno regime anche dal punto di vista quantitativo.
4. Governance
Le ipotesi sommariamente descritte, richiedono profonde modifiche al modello di governance: sia perché s’intersecano competenze istituzionali diverse (Stato, Regioni e Province), sia perché è opportuno unificare gli strumenti di governo a partire dal livello centrale. Le Agenzie del Ministero del Lavoro (ISFOL ed Italia lavoro) non possono più essere mantenute distinte. L’interconnessione delle politiche non può essere governata correttamente con interventi segmentati e frammentati.
Occorre recuperare terreno sicuramente ed in brevissimo tempo, sul territorio, dove i modelli di organizzazione dei vari Centri per l’impiego sono estremamente diversificati e dove le “buone prassi” sono generalmente concentrate al Nord. Ma dove anche il dialogo tra Regioni (detentori delle risorse, di solito legate al FSE) e Province è faticoso e, spesso, del tutto assente. Anzi in chiave di abolizione di quest’ultimo livello istituzionale occorre pensare bene “dove” collocare le politiche dei Servizi pubblici per l’impiego (SPI) e se non convenga procedere alla centralizzazione di alcune funzioni.
Bisogna anche recuperare terreno sul fronte del monitoraggio nazionale e della diffusione delle buone prassi realizzate nel corso di questi anni. Molte misure di ricollocazione sono andate a buon fine, ma molte, troppe, sono fallite: nessuno ha mai analizzato i fattori di successi e quelli di insuccesso. E soprattutto nelle trattative sulle vertenze sono spesso mancati elementi relativi alla mobilità dei lavoratori: non è detto che questi debbano riguardare una ricapitalizzazione complessiva e radicale delle competenze. Una più attenta ed approfondita conoscenza delle dinamiche aziendali (in logiche, magari, di distretto o di filiera) potrebbe facilitare non poco l’intera gamma dei processi di mobilità e, al medesimo tempo, non disperdere saperi e conoscenze, quanto mai utili all’impresa in termini di produttività del lavoro.
Dal punto di vista istituzionale e di politica attiva, il necessario ripensamento dei Centri per l’impiego, non può, inoltre, non essere raccordato con le politiche industriali (distretti, filiere o altro) in capo al Governo ed alle Regioni; così come il “trattamento” delle crisi industriali, le varie forme di CIG e soprattutto i processi di mobilità, devono essere raccordati ed assistiti da un unico soggetto in grado di sostenere “politiche attive”, ammortizzatori, piani di riconversione aziendale, mobilità professionale ed incentivi di vario genere a partire da quelli all’auto impiego.
In questo senso è maturo il momento per ripensare integralmente alla gamma degli “strumenti” operativi a disposizione e pensare ad un unico soggetto (Agenzia, Società o altro, scorporando anche dall’INPS la parte assistenziale, cioè la gestione degli ammortizzatori) unico, direttamente raccordato con il Ministero del Lavoro, con le Regioni e con le Parti sociali. Se si pensa che in molte Regioni le competenze del lavoro, delle attività produttive e della formazione professionale e dell’istruzione sono distinte o all’annunciata soppressione delle Province, tale funzione sussidiaria nazionale, è ancora più importante ed urgente.
La riorganizzazione degli strumenti operativi del “lavoro” richiede competenze particolari: sul fronte delle politiche del lavoro propriamente dette e di quelle di sviluppo in senso più ampio possibile. In questo senso un’unica Agenzia, può esaltare le competenze già presenti e, allo stesso tempo, assumere un ruolo forte sia di sostegno tecnico al Ministero del lavoro nell’ambito delle vertenze, sia sul fronte tipicamente assistenziale, a cominciare dalla problematica degli ammortizzatori, la cui gestione, con il tempo, potrebbe essere definitivamente trasferita a tale nuovo organismo. Le soluzioni prospettate sono realiste, le proposte attuabili, manca la volontà politica e un Governo capace di agire.
Angelo Sollazzo
Roma 22 Maggio 2013