IL RITORNO DEL MATERIALISMO di Marco Marzano da Mondoperaio n. 6 Giugno 2018
24 luglio 2018
In queste pagine vorrei tentare di analizzare, in modo razionale e soprattutto evitando le trappole disseminate dagli approcci eccessivamente volontaristici, secondo i quali tutti i problemi che affliggono la sinistra possono essere risolti con la buona volontà e con la sincera conversione alla causa della difesa del popolo da parte di dirigenti a lungo troppo distanti dalle periferie e dagli operai, i fattori strutturali che spiegano la crisi profonda dei partiti socialisti e socialdemocratici europei (incluso ovviamente quello italiano, che pure ha un’altra denominazione). E’ proprio qui, del resto, in Europa che il socialismo democratico è nato ed è qui che potrebbe veder presto certificata la sua scomparsa, dopo essersi già eclissato, come ha notato Donald Sassoon in un recente intervista, nei paesi arabi, in Africa e ancor prima negli Stati Uniti (dove non è quasi nato). Nelle conclusioni, cercherò di individuare, per i socialisti, qualche possibile via di uscita da una situazione così difficile.
L’Europa e il cambiamento dei valori.
Nel suo splendido recentissimo volume (Cultural Evolution, Cambridge University Press, 2018), il grande sociologo americano Ronald Inglehart ci offre molti spunti stimolanti per la comprensione di quello che sta avvenendo all’interno degli elettorati europei, soprattutto tra i cosiddetti ceti popolari, tra i gruppi socialmente ed economicamente più vulnerabili delle nostre società.
In estrema sintesi, Inglehart sostiene, ormai da decenni e avvalendosi di una massa impressionante di dati empirici, che l’emergere di valori postmaterialisti quali, tra gli altri, il desiderio di realizzarsi e di partecipare alla vita pubblica, la tolleranza verso la diversità (delle preferenze sessuali, ma non solo), la cura dell’ambiente, la parità di genere, la disponibilità ad interagire in modo egualitario con il prossimo dipendono strettamente dal raggiungimento di determinati standard socio-economici di sicurezza sociale: gli esseri umani non riescono infatti a dedicarsi alla costruzione della “società orizzontale” (Marzano, Urbinati 2017) prima di aver raggiunto un’apprezzabile e solida stabilità economica. Ed infatti i valori postmaterialisti sono stati promossi, con continuità e in misura crescente, da tutte le generazioni di giovani europei, a partire da quella del boom, che non hanno conosciuto direttamente gli stenti e le privazioni della guerra e dell’immediato dopoguerra e che hanno al contrario sperimentato la serenità e l’ottimismo sul futuro degli anni del prepotente sviluppo economico e insieme della nascita dei sistemi di protezione sociale e di welfare.
Ora però il verso del cambiamento culturale sembra essere mutato. Il deciso slittamento versa destra dei popoli europei è causato, seguendo Inglehart, dal sensibile aumento dell’insicurezza collettiva che affligge le nostre società. Una prima fonte di insicurezza è certamente rappresentata dallo straordinario afflusso di immigrati, che sta cambiando il panorama umano tradizionale delle nostre città e soprattutto dei quartieri periferici, sempre più affollati di individui poveri provenienti da luoghi del mondo più o meno lontani e in qualche caso, e questo vale soprattutto nel caso di coloro che arrivano da un paese musulmano, avvertiti come minacciosi e pericolosi. A contrastare questo sentimento vale pochissimo l’argomento, razionale e in sé del tutto corretto tanto spesso avanzato a sinistra, che i vantaggi complessivi delle migrazioni sono superiori ai costi, che degli immigrati abbiamo bisogno, che pagano le nostre pensioni, che non causano un aumento indiscriminato di reati, eccetera, eccetera. Il loro arrivo ha mutato il volto dei luoghi in cui viviamo e questo cambiamento viene da molti vissuto con ansie e preoccupazioni crescenti, produce leggende xenofobe, teorie razziste, propositi di sterminio, epurazione, espulsione variamente articolati.
L’impatto di questo primo fattore è ovviamente amplificato dalla contemporanea presenza di un secondo elemento, questo sì davvero indiscutibile e per così dire “oggettivo”, e cioè dall’aumento esponenziale delle diseguaglianze economiche, che hanno assottigliato il ceto medio, fatto precipitare un’intera generazione di giovani nella morsa della disoccupazione o del precariato, e quindi dell’incertezza economica, nonché spinto molti, con l’aiuto di alcuni sapienti imprenditori politici, a volgere con nostalgia lo sguardo all’indietro: e cioè a sognare un Europa libera dagli “estranei”, un continente formato da stati nazionali pienamente sovrani e senza ogni genere di straniero, né abbiente né pezzente, né ricco banchiere né sporco povero. La timida ripresa economica non ammorbidisce la durezza di questa situazione, dal momento che i suoi proventi non vengono distribuiti in modo equo e non placano dunque l’insoddisfazione diffusa e la paura del futuro.
Dunque, se si retrocede da una situazione di certezze, sostiene Inglehart risorgono i valori materialisti, in primo luogo l’autoritarismo, la xenofobia e il bisogno di capi carismatici. Sono i valori che hanno caratterizzato tutte le società premoderne, quando il problema della lotta per la sopravvivenza assurgeva a primo imperativo per ciascun gruppo etnico e determinava il desiderio di escludere gli altri, di cacciarli lontano, di respingerne l’assedio. In quella direzione stiamo tornando, non per la scarsità di risorse disponibili, ma per la cronica e inarrestabile ingiustizia distributiva che impedisce di socializzarne i progressi dell’economia, i proventi dello sviluppo.
A ben vedere, lo scenario è anche peggiore di quel che si può a prima vista immaginare, dal momento che è possibile che questo “ritorno dei valori materialisti” influenzi in modo profondo la socializzazione politica iniziale di chi vive oggi la propria adolescenza o prima giovinezza, e cioè l’età nella quale si formano i valori politici. In altre parole, molti giovani cresciuti nell’epoca di un nuovo materialismo rischiano di rimanere materialisti (e quindi razzisti, xenofobi, autoritari o servili verso il potere) molto a lungo e in profondità.
I dilemmi del socialismo democratico in un’epoca neomaterialista.
Se lo scenario che ho delineato fosse corretto, è chiaro che i socialisti debbono a questo punto accettare l’idea di seppellire quella strategia riformista e accomodante con il capitalismo che pur ha prodotto, per lunghi decenni, straordinari risultati politici, sociali e di civiltà nell’intera porzione occidentale del continente europeo. Nel contesto attuale, quella strategia non può che attrarre, oltre ad una componente di fedeli elettori di appartenenza che votano a sinistra per un antico riflesso condizionato, un elettorato postmaterialista e benestante, quel che rimane di un ceto medio atrofizzato e non più socialmente e politicamente centrale.
E’ importante ribadire la grandezza dei risultati raggiunti dal riformismo nel recente passato per mettere in chiaro che, da un punto di vista squisitamente socialista, non c’è nessuna opzione preferenziale e pregiudiziale per il riformismo socialdemocratico o al contrario per forme di lotta più radicale. La bontà e la percorribilità di ogni concreta opzione strategica dipendono dalle concrete e particolari circostanze storiche. Allo stesso modo in cui non si possono e non si devono negare gli eccezionali e formidabili risultati del riformismo socialista, non si può e non si deve negare il fatto che la strategia riformista non ha una validità universale, non è buona per ogni tempo e per ogni circostanza. I soli elementi del socialismo destinati a rimanere immutati nel tempo sono i suoi valori di fondo: la libertà per il maggior numero di persone, il desiderio di garantire a tutti la possibilità di condurre una vita dignitosa e libera dal bisogno, il rifiuto della violenza come strumento di soluzione dei conflitti, l’amore per la democrazia, per il libero confronto e per la critica sociale. Questi sono, per così dire, i valori non negoziabili. Il modo in cui inverarli è destinato naturalmente a mutare nel tempo, a secondo delle concrete circostanze storiche. In questo quadro, riformismo e radicalismo sono opzioni necessariamente contingenti e contestuali, mai scelte definitive.
Come è noto, il riformismo si è affacciato nella storia socialista con l’opera di Eduard Bernstein in un momento storico molto particolare, e cioè alla fine della grande depressione economica della seconda metà dell’Ottocento, quella che aveva spinto Marx e molti dei suoi seguaci a pensare che la resa dei conti fosse vicina, che il capitalismo fosse avviato verso una crisi radicale e forse definitiva. A partire dagli ultimi anni del secolo, l’economia mondiale iniziò a riprendersi e ad entrare in una fase di forte espansione. E’ precisamente in quegli anni che Bernstein pubblicò la sua opera fondamentale sui “presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia”, con al centro la necessità di un approccio al cambiamento sociale graduale e non traumatico e la progressiva evaporazione dell’ideale di una società totalmente alternativa a quella capitalistica. Bisognerà però poi attendere almeno gli anni Trenta per vedere la nascita, in sordina e senza clamore, di un socialismo governativo e riformatore in Svezia e poi la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio di una lunga fase di crescita dell’economia capitalistica per assistere al definitivo passaggio della stragrande maggioranza del movimento socialista al riformismo pragmatico, alla difesa degli interessi delle classi lavoratrici in un quadro di compatibilità con il sistema capitalistico. Oggi, ad una distanza storica sufficiente per poter esprimere una valutazione, possiamo scorgere con chiarezza il carattere del tutto eccezionale di quella situazione, la sua dipendenza da una combinazione inedita ed irripetibile di fattori contingenti che qui mi limito ad elencare in modo sommario e non in ordine di rilevanza: il desiderio unanime di evitare il ripetersi del nazismo, la considerazione della minaccia comunista, la fortuna all’interno dell’accademia e di molti circoli intellettuali delle teorie keynesiane, le straordinarie potenzialità economiche generate dalla ricostruzione dell’economia dopo le distruzioni belliche, la forza e la compattezza ritrovata dei sindacati e dei partiti operai. E altri fattori ancora, non ultimo il carattere funzionale dell’affermazione dei sistemi di sicurezza sociale per la creazione di una società dei consumi: con la pensione, la sanità e l’assegno di disoccupazione garantiti, i lavoratori europei hanno iniziato a pensare di poter comprare gli oggetti che le fabbriche avevano cominciato finalmente a produrre. La sicurezza sociale ha contribuito a generare il consumo di massa e così a dare alimento all’economia capitalistica.
Concludendo su questo punto, possiamo ancora dire che il carattere di quell’epoca che pensiamo socialdemocratica per antonomasia, e cioè l’idea di uno Stato attivo e interventista e la convinzione circa l’importanza della regolazione politica e di un controllo severo del capitalismo, sorpassava di molto i confini del socialismo storico: la SPD vi si convertì solo alla fine degli anni Cinquanta, come del resto i socialisti italiani; Keynes e Beveridge non erano socialisti, così come non lo erano i tanti tifosi (non solo democristiani) della programmazione che governarono ovunque in quegli anni; Churchill perse, come è noto, le elezioni del 1945 a vantaggio di Atlee, ma il suo programma non era tanto diverso da quello del rivale e i conservatori inglesi una volta tornati al governo non revocarono di certo, almeno fino a Thatcher, molte delle misure fatte approvare dai socialisti.
Ad ogni buon conto, quando, a partire dai primi anni Settanta, questo eccezionale ed unico insieme di elementi favorevoli al riformismo socialista iniziò, pezzo a pezzo, come sappiamo, a venir meno, il movimento socialista aveva ormai investito nella svolta riformista troppe risorse, di fatto tutto il suo patrimonio storico, culturale e ideale, per essere in grado di reagire in qualche modo alla nuova situazione mantenendo vivo il riferimento agli ideali originari. Troppo profonda era stata la trasformazione, l’identificazione totale nel riformismo, troppo importanti e gratificanti le esperienze di governo del trentennio per poter immaginare, dal punto di vista cognitivo, emotivo e politico, di doversi attrezzare ad attraversare una fase storica destinata ad emarginare progressivamente i socialisti in un modo implacabile, a spingerli fuori dalla storia, allontanandoli dal favore degli elettorati e soprattutto dei ceti popolari che essi avevano così a lungo rappresentato. In altre parole, i socialisti sono stati in qualche modo vittime dei loro stessi grandi successi. Si pensi solo al percorso intrapreso dalla socialdemocrazia tedesca, che, come ricordavo prima, ha atteso sino al 1959, e cioè al congresso di Bad Godesberg, per abbandonare definitivamente il marxismo e abbracciare il pragmatismo riformista, con il risultato di inaugurare però di lì a poco una stagione di formidabili successi politici e legislativi, di trionfi elettorali e sedici anni ininterrotti di governo (dei quali solo i primi tre in coabitazione con i democristiani). Una successione di vittorie di quelle dimensioni abbaglia un’organizzazione, deforma la sua cultura politica, spinge militanti, dirigenti e intellettuali a nutrire un affetto eccessivo per un’epoca oggetto di un’incoercibile e crescente nostalgia.
Nei lunghi decenni che sono seguiti alla fine dei “trenta gloriosi”, cioè dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, il movimento socialista è sopravvissuto cercando di trasformarsi nel principale sostegno alle forze della modernizzazione capitalistica, della globalizzazione, della laicità e del cosmopolitismo. E’ stato questo il tratto comune di tutte le più importanti esperienze di governo socialista degli anni Ottanta e Novanta: del PSOE di Gonzalez, del PSI craxiano, del PS di Mitterand post 1983, del New Labour di Blair, del Neue Mitte di Schroeder. La teoria comune sottesa a queste esperienze di governo a me sembra consistere, per tanti versi, nell’esasperazione di una lettura del mutamento sociale nata già, nel campo socialista, durante il trentennio glorioso. In estrema sintesi, la si può descrivere così: lo sviluppo sociale generato dal capitalismo ha generato e continuerà a generare un aumento notevole della ricchezza e del benessere diffusi che determineranno un’espansione sempre più ampia di ceti medi altamente secolarizzati, laici, istruiti e cosmopoliti, di persone interessate a vivere in un mondo che offra a loro e ai loro figli le migliori opportunità di realizzazione professionale, di mobilità sociale e geografica, un mondo libero dai valori tradizionali delle società patriarcali e caratterizzato al contrario dalla più ampia tolleranza per tutti gli stili di vita e soprattutto per tutte le preferenze sessuali. Alla parte più debole della popolazione, a quel terzo di esclusi di cui parlava Peter Gortz, sempre più ridotto, i socialisti offrivano (rispetto alla destra neoliberista dura e pura) qualche paracadute (sempre più leggero e fragile) in termini di protezione sociale, ma soprattutto la garanzia che prima o poi dello sviluppo economico e sociale in atto avrebbero beneficiato anche i suoi membri, che nessuno sarebbe stato escluso per sempre.
Questa narrazione squisitamente liberale (che ha avuto un’eco forte e distinguibile anche nel recente renzismo), a me sembra un’esasperazione della visione entusiastica, prodotta durante i trenta gloriosi, del futuro delle società capitaliste, della loro capacità di tenere insieme “meriti e bisogni”, combinata con un apprezzamento per partiti ancora nominalmente socialisti, ma di fatto “piglia tutti” e interclassisti. In ogni caso, come testimonia la crisi continentale della sinistra, essa non funziona proprio più, genera una miriade di difficoltà e soprattutto non raccoglie i consensi necessari per consentire ai partiti socialisti di governare i Paesi europei. Non c’è ormai più, dopo la caduta dell’Italia, un solo grande paese europeo guidato dai socialisti, con la parziale eccezione della Germania, dove però l’SPD occupa un ruolo ancillare e secondario nella coalizione di governo. Il governo socialdemocratico svedese (almeno prima della batosta elettorale che si annuncia nelle elezioni legislative del prossimo settembre) è un’eccezione del panorama politico continentale quasi quanto lo era nella seconda metà degli anni Trenta. Ai socialisti che continuano a proporre il vecchio adagio della “terza via” blairiana sono rimasti solo i consensi di una parte del ceto medio riflessivo, dei pensionati e di una porzione minoritaria del lavoro organizzato, degli iscritti al sindacato.
La ragione principale dello svuotamento di consensi, della fuga degli elettori consiste proprio nell’incapacità strutturale dei socialisti di fornire una risposta alla crescita di quel sentimento di insicurezza strutturale che ho brevemente analizzato nella prima parte dell’articolo. Il problema non è solo rappresentato dal fatto che il popolo non vota più a sinistra, ma anche, e soprattutto forse, dal fatto che le sue dimensioni aumentano, che il ceto medio si assottiglia e che i cittadini adulti sensibili alla narrazione ottimistico-progressista (nel senso dei progressi assicurati al primo mondo dall’economia capitalistica globalizzata) diminuiscono drammaticamente (anche in presenza di una ripresa economica). Il confortante racconto della “fine della storia” che tanti impliciti seguaci ha conquistato a sinistra è diventata una novella fuori tempo, una rappresentazione del passato.
Un nuovo corso si impone
E’ chiaro dunque che è diventata necessaria una svolta radicale nella strategia del socialismo continentale. Il “nuovo corso” dovrebbe innanzitutto partire dal riconoscimento delle ragioni del malcontento popolare che sta conducendo al trionfo delle forze populiste e di destra in tutta Europa. A quell’insoddisfazione, a quella rabbia, i socialisti non possono negare legittimità o, peggio, opporre un’insopportabile e schizzinosa “pedagogia buonista” che pretende di spiegare a chi è incazzato che non ne ha né diritto né ragione. No. I socialisti devono ammettere che i mal di pancia del popolo che non li vota più nascono da sofferenze reali, quelle generate da un capitalismo che tutela solo i più forti, che aumenta a dismisura le diseguaglianze e che genera precarietà e insicurezza sociale. L’unica cosa sbagliata e alla quale i socialisti si devono opporre, nel malcontento popolare, riguarda l’identificazione sia delle cause che dei rimedi alle difficoltà del presente. E’ sbagliato, questo dovrebbero affermare i socialisti, individuare nella sola intensificazione dei processi migratori la causa principale dell’impoverimento collettivo, così come è sbagliato pensare che la situazione possa essere migliorata con la restaurazione di stati nazionali pienamente autonomi e sovrani. I socialisti debbono incoraggiare la rabbia popolare, condividere il sentimento di profonda insoddisfazione per lo stato di cose attuale diffuso nelle tante periferie dell’Europa, ma indirizzarlo verso un altro obiettivo, puntare il cannone verso il bersaglio grosso, quello giusto: un sistema capitalistico avido e senza freni che sta trascinando il mondo occidentale verso la catastrofe sociale, la ripresa del nazionalismo, della xenofobia e dell’aggressività tra i popoli. Senza mutare quel sistema, in sé incapace di correggersi, non vi sarà nessun miglioramento della situazione sociale europea e anche la ripresa dello sviluppo economico servirà a poco, dal momento che essa si traduce soprattutto, come ho già ribadito, in ricchezza per quelli che hanno di più. Se avesse ragione Inglehart, e io ne sono convinto, se nel presente e nel prossimo futuro saranno i valori materialisti ad avanzare e i postmaterialisti a retrocedere, la sinistra dovrà inevitabilmente, per sopravvivere, riscoprire la sua vocazione “materialista” e classista. Il movimento socialista, e questo Inglehart invece lo dimentica del tutto probabilmente per il fatto che non è un europeo, è nato sul terreno “materialistico” del conflitto di classe; un terreno messo da parte solo in una fase più matura della sua storia per far spazio ad un approccio collaborativo e negoziale. Insomma, il “ritorno del materialismo” non produce inevitabilmente, come invece sostiene il sociologo americano, l’avanzata della xenofobia e del nazionalismo. Il risorgere del conflitto sociale e di classe è l’altra possibilità. Ciò che lo rende difficile è il fatto che vi siamo disabituati, che l’abbiamo dismesso considerandolo un ferrovecchio ormai inutilizzabile. E che abbiamo consentito che si facesse una strada una cultura consumistica che lo corrode dalle fondamenta, facendolo sparire dall’orizzonte delle scelte praticabili. Ma non è forse avvenuta la stessa cosa, non si è verificato lo stesso processo, con il razzismo e la xenofobia? Chi poteva immaginare solo qualche decennio fa che sarebbero risorti l’odio assoluto verso lo straniero e i sentimenti di superiorità razziale che hanno causato decine di milioni di morti ammazzati nel Novecento? Quei sentimenti sono tornati di moda e allo stesso modo può dunque tornare di moda la lotta di classe. Si guardi a quel che succede al partito laburista britannico, in questo momento di gran lunga il più forte e in salute partito socialista europeo, attestato nei sondaggi a più del 40 per cento.
Se dunque la direzione da intraprendere, per la sopravvivenza, è quella della ripresa di una chiara polemica classista, è chiaro che è però difficile immaginare che essa possa sortire dei risultati immediati, in termini di consenso, elettorale o di altro genere. La difficoltà nasce dal fatto che, dopo la svolta riformista degli anni Cinquanta, è stato progressivamente dismesso e demolito l’armamentario culturale e politico che rendeva possibile un atteggiamento conflittuale verso il capitalismo. Ricostruirlo è un’impresa titanica, che non può riguardare solo il campo in senso stretto politico, cioè quello dei politici di professione, dei dirigenti di partito, dei rappresentati in Parlamento di quello che rimane della sinistra, ma deve invece di necessità coinvolgere delle forze sociali e culturali più ampie: associazioni, organizzazioni della società civile, ma anche singoli intellettuali, centri di ricerca, eccetera. Forse è troppo tardi e il paziente è già deceduto o perlomeno entrato in coma irreversibile. Ma forse no, può darsi che la storia riservi ai socialisti un’altra chance prima di quella che comunque seguirà alla catastrofe che sarebbe generata dal trionfo del nazionalismo xenofobo e neofascistoide che avanza a grandi passi nelle terre d’Europa.
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