IL RIFORMISTA RIVOLUZIONARIO, di Umberto Ranieri, da Mondoperaio 8
19 dicembre 2009
Non credo che riflettere sulla vicenda politica ed intellettuale di Riccardo Lombardi porti ad incorrere nell’errore, cui la sinistra spesso indulge, di guardare al passato per ritrovarvi ricette per il presente. Sono convinto che Lombardi possa essere annoverato nella galleria ideale degli innovatori della cultura della sinistra e del socialismo italiani.
Riccardo Lombardi appartiene ad una generazione intellettuale, quella dell’azionismo, proveniente da percorsi diversi sia da un punto di vista ideale (nell’azionismo si incontrano giellismo e liberalsocialismo, fervori etico religiosi e impostazioni tecnocratiche), sia da un punto di vista territoriale (ci sarà un azionismo torinese, Foa e Dante Silvio Bianco; un azionismo lombardo, milanese, Parri, Valiani, Lombardi; un importante azionismo fiorentino, Codignola e Agnoletti; ma anche un fondamentale azionismo napoletano, Omodeo, De Martino). Il partito d’Azione avrà dentro di sé l’intero spettro delle componenti dell’antifascismo non comunista.
Riccardo Lombardi sarà antifascista convinto sempre, sin da quando, nel 1926, comincerà ad occuparsi di stampa clandestina.
Il suo primo arresto avverrà nel ’30 e subirà percosse le cui conseguenze lo segneranno per l’intera vita. Rappresenterà il partito d’Azione nel Clnai. Nella disputa sulle origini e la natura del fascismo Lombardi non condividerà l’interpretazione crociana del fascismo come invasione degli Iksos in un corpo sano, lo Stato liberale, di cui occorreva, sconfitto il fascismo, ripristinare compiti e funzioni. Lombardi troverà più convincente la tesi del fascismo come disvelamento di mali preesistenti nella società italiana. Mali da estirpare costruendo l’anti-italiano, contro lo stereotipo dell’italiano che nella sua inedia ha consentito il prevalere del fascismo.
Questo approccio intransigente non lo abbandonerà. Nel 1975, in una conferenza a Milano nel trentesimo della Resistenza, ribadirà che “allora si trattava non di ripristinare, bensì di creare, in Italia, una democrazia che non era mai esistita”.
Per Lombardi, il partito d’Azione fallisce perché non si realizza quel cambiamento di classe dirigente alla guida del paese cui sembrava la Resistenza dovesse condurre, perché a prevalere è una soluzione moderata e continuista. Entrerà nel Psi dopo lo scioglimento del Pd’A come un approdo naturale della sua navigazione.
Nel Psi, Lombardi proverà a contrastare la scelta frontista e l’involuzione stalinista e filosovietica di Nenni. Alla disfatta politico-elettorale del 1948 Lombardi reagì sostenendo l’autonomia del Psi dal Pci. Al congresso di Genova la mozione di Riccardo Lombardi sostenuta da Vittorio Foa e da Santi ottenne la maggioranza ed elesse Jacometti alla segreteria. Fu un sussulto di autonomia. Lombardi nel suo intervento a quel congresso si espresse a favore del piano Marshall divenuto ormai, dopo il no di Stalin, oggetto di una contesa senza quartiere tra socialisti e comunisti da una parte e il governo di De Gasperi dall’altra.
Il punto che emerge da una ricostruzione di quella battaglia di Lombardi è che ancora nel ’48, anche dopo la scissione di Palazzo Barberini e la sconfitta del 18 aprile, esisteva la possibilità di una diversa collocazione del Psi nel sistema politico italiano.
A nessuno sfuggiranno le conseguenze che una scelta del Psi improntata al valore dell’autonomia avrebbe potuto comportare.
Gli avvenimenti presero un’altra strada: lo stalinismo si impadronì del Psi. Morandi assunse la guida della organizzazione del partito rinunciando, almeno fino al 53/55, alla ricerca politico-intellettuale che lo aveva distinto negli anni precedenti e diventando ortodosso sostenitore del frontismo e promotore di versioni caricaturali, per un partito come quello socialista, del centralismo democratico. Il neutralismo di Lombardi, nell’Italia che si lacerava sull’adesione al Patto atlantico, veniva spazzato via e denunciato come prova di un tradimento di classe.
Furono quelli gli anni in cui la strumentazione culturale e ideale del Psi diventò del tutto simile a quella del Pci: il sistema capitalista veniva considerato irriformabile e sempre sulla soglia del tracollo, il capitalismo italiano era considerato incapace di assicurare la modernizzazione del paese. Anni in cui Togliatti e Nenni avrebbero detto le stesse cose.
In realtà il paese, anche se al prezzo di enormi sacrifici, andava in un’altra direzione. Per rendere efficacemente questo modo ideologico di guardare la società italiana, Lombardi ricordava la battuta pronunciata da Silvio Leonardi al termine di una riunione dei due partiti svoltasi a Milano: “Qui sorgono fabbriche e case, ma questi – osservava Leonardi riferendosi ai dirigenti dei due partiti – non vogliono vederle”. Lombardi ricordava quelle parole di Leonardi come esempio di un approccio alla realtà del paese che avrebbe impedito alla sinistra di comprendere la portata di scelte come la liberalizzazione degli scambi, la nascita della Ceca e poi l’avvio del processo di integrazione su scala europea.
Dopo le elezioni del ’53, anno in cui la Dc perde la maggioranza assoluta e viene respinta la legge maggioritaria, ma soprattutto dopo il 1956, riprende l’anima autonomistica del Psi. Nel corso del dibattito sullo schema Vanoni si delinea il pensiero economico di Lombardi: la programmazione ne è il pilastro, una programmazione in cui lo Stato, rafforzato nel suo ruolo, si sarebbe assunto il compito di orientare le scelte dell’impresa pubblica e privata verso scopi sociali. Si manifestava già allora il carattere dirigista del riformismo autonomista.
Non solo. Anche negli anni in cui si rompeva il Patto di unità di azione con il Pci, i socialisti tenevano a precisare che le loro idee economiche non avevano nulla a che vedere con il welfare socialdemocratico. Un distinguo condiviso dallo stesso Lombardi che tuttavia sottolineava il distacco da quanto si era realizzato nell’economia sovietica nei decenni trascorsi dalla rivoluzione del 1917.
In realtà, malgrado la rottura del ’56, Lombardi, Nenni e i quadri a loro più vicini in quegli anni non volevano diventare socialdemocratici esattamente come Raniero Panzieri e la sinistra socialista non filo-sovietica che avrebbe contribuito alla nascita di Quaderni Rossi e alimentato il filone operaista negli anni Sessanta. Per Lombardi la programmazione poteva funzionare ma a patto che si rompesse l’equilibrio di potere della società neocapitalistica: le riforme di struttura erano lo strumento per mettere in discussione quell’equilibrio. Nell’autonomismo si riflettevano tutte le contraddizioni di quella fase di passaggio politico-culturale del socialismo italiano. Nenni parlava di una terza via tra comunismo e socialdemocrazia, e forte restava la lontananza dal socialismo democratico europeo impegnato in quegli anni in una intensa impresa revisionista. E tuttavia, malgrado la cultura dell’autonomismo fosse ancora incerta, la ripresa autonomista era riuscita a rimettere in moto il Psi ed a innescare una ricca stagione di ricerca politica e intellettuale che avrebbe coinvolto l’intero mondo politico italiano dopo la conclusione del centrismo. Una stagione scandita da impegnative discussioni in Parlamento sulle prospettive dell’economia nazionale e da importanti convegni delle principali forze politiche dedicati ad una analisi del capitalismo italiano, degli squilibri economici e territoriali del paese che lo sviluppo impetuoso di quegli anni non aveva risolto.
Lombardi non rinunciò mai ad un anti-capitalismo di principio: ebbe, secondo la formula di Ruffolo, una “concezione cazzottistica” del rapporto con il capitalismo; prevalse in lui tuttavia un approccio pragmatico che lo portava a liberarsi delle gabbie dell’ideologia. Gli applausi più scroscianti al 34° congresso socialista, aMilano, gli giunsero quando indicò nel capitalismo occidentale il nemico. Per Lombardi il congresso doveva decidere “se lasciar campo libero al neocapitalismo o inserirsi nel processo di trasformazione per contestare il modello di sviluppo del neocapitalismo”, per cui ”la politica delle riforme di struttura deve trovare necessariamente il suo perno nella programmazione democratica che modifichi i rapporti di classe e i rapporti di potere, che incida realmente sul sistema della accumulazione privata”, mentre “una prospettiva di spicciolo riformismo sembra per noi inconcepibile”. Sono quelli gli anni del ricorso all’ossimoro del “riformismo rivoluzionario”, un vero e proprio progetto di transizione al socialismo attraverso le riforme di struttura e la politica di piano.
Quella delle riforme di struttura fu una delle formule più ambigue ed oscure nella letteratura della sinistra italiana. Per i teorici delle riforme di struttura a decidere dell’efficacia del processo di riforme non era, come sostenevano i riformisti del centro sinistra, la capacità di correzione degli squilibri e delle distorsioni dello sviluppo della economia, ma il carattere rivoluzionario.
L’obiettivo vero doveva consistere nell’intaccare la logica del capitalismo e il suo funzionamento. Nessuno, naturalmente, era in grado di spiegare in cosa concretamente consistessero le riforme rivoluzionarie e dove rintracciare la logica del capitalismo da aggredire. Sarebbe toccato ad un autorevole dirigente del Pci, seppure accusato di essere il capo della destra comunista, Giorgio Amendola, sostenere una visione delle riforme da realizzare che si avvicinasse alla natura vera del riformismo: le riforme come processo, come cambiamento graduale ed effettivo, tale da corrispondere a vincoli di efficacia ed efficienza. Fu di Amendola l’insistenza sul carattere nazionale delle riforme contro la visione di una loro natura antisistemica. Fu il dirigente comunista a sostenere la necessità, per portare avanti il processo riformatore, di unificare un vasto arco di forze sociali da cui non escludere a priori settori capitalistici.
In realtà la discussione a sinistra e nello stesso partito socialista fu ben lontana da quella in atto nella socialdemocrazia tedesca che aveva portato la Spd alla svolta di Bad Godesberg alla fine degli anni cinquanta. Una svolta osteggiata non solo dai comunisti, che la liquidarono con le tradizionali e stantie formule ostili al socialismo democratico, ma anche dal Psi e addirittura da Critica Sociale! Si può sostenere che la riflessione di Lombardi non spezzasse il filo della continuità con l’antiriformismo degli anni precedenti. Lombardi puntava a spingere l’intera sinistra al rinnovamento dei propri principi ideologici ma senza distruggerli.
Impresa ardua che avrebbe favorito il manifestarsi di contraddizioni e incongruenze nella politica socialista. La verità è che negli anni sessanta intorno alla sinistra vi fu un mondo intellettuale saturo di antiriformismo, quello stesso che avrebbe sedotto tanta parte della generazione del ’68 e alimentato i verbosi deliri dei fogli dell’ultrasinistra negli anni settanta.
L’atteggiamento del Pci verso il centro sinistra ebbe alti e bassi nel corso del decennio. Ciononostante le polemiche tra socialisti e comunisti non condussero alla rottura del rapporto unitario nella Cgil né si giunse a crisi delle giunte di sinistra negli enti locali prima e poi nelle regioni. Testimonianza della volontà del partito socialista di restare una formazione politica della sinistra malgrado fossero posizioni che costarono ai socialisti e che in parte contribuirono alla crisi della unificazione alla fine degli anni sessanta. Tutto ciò non ebbe da parte comunista alcun riconoscimento né atteggiamenti più distensivi.
Il bilancio storico della stagione del centro sinistra non è quello negativo che fino ad anni non lontani è stato tracciato dalla pubblicistica di sinistra. Il centro sinistra produsse novità e trasformazioni nella società italiana, consentì l’emergere di una domanda di modernità e di progresso civile. Risulterà del tutto appropriato il giudizio su quegli anni di un autorevole intellettuale di area liberal-socialista scomparso da poco: ” I principali protagonisti di quella esperienza, pur avendo commesso errori, erano mossi non da cupidigia di potere o di arricchimento ma da ideali di grande valore morale e civile”. Lombardi era sicuramente uno di questi. Il circolo vizioso che avviluppò il centro sinistra depotenziandone la carica innovativa fu il risultato di una duplice pressione. Si trovò tra due fuochi: la offensiva dorotea da un lato, l’opposizione del Pci dall’altro. L’appoggio comunista sarebbe stato essenziale per contenere le spinte conservatrici ma il Pci non era disponibile a questo ruolo.
Lo ricordò amaramente Pietro Nenni : “I comunisti, per ragioni soprattutto internazionali, non erano in grado di fare politica…e così come non esistevano le condizioni perché i comunisti ci appoggiassero così mancavano quelle interne e internazionali perché noi potessimo chiedere e negoziare un tale appoggio”. In questa drammatica tenaglia sarà stretto il centro sinistra. Il dilemma che attanagliò il Psi fu efficacemente riassunto dal compianto Paolo Farneti a metà degli anni settanta: “Se resta al governo e si sposta al centro, perde voti a sinistra e si tratta in generale di voti irreversibili; se esce dal governo, ritorna su posizioni di sinistra, blocca l’emorragia e guadagna nuovi suffragi, ma in misura non sufficiente per condizionare il governo da un lato e per far rifluire voti da sinistra dall’altro. Il Psi è costretto così ad un andirivieni tra governativismo e frontismo”.
Lombardi cercherà con la proposta dell’alternativa di sinistra la strada per tirare il Psi fuori da una tale morsa. Esercitò una forte suggestione su Lombardi l’esperienza del mitterrandismo e del programma comune. Il Mitterrand che nelle elezioni presidenziali del 1974, sostenuto da socialisti, comunisti e radicali di sinistra, aveva sfiorato la vittoria. Perché non provare anche in Italia? In realtà mancava in Italia la condizione politica che era stata all’origine del successo di Mitterrand: la dissociazione dei socialisti dal sistema di potere dominante. Il mitterrandismo nacque e si consolidò nell’opposizione al centro destra. I socialisti italiani al contrario si logorarono in un aspro gioco di collaborazione e competizione con la Dc. In ogni caso l’aspetto discutibile della strategia di Lombardi lo mise bene in evidenza Antonio Giolitti che di Lombardi era stato il principale sostenitore: “Quando parla di alternativa, Lombardi immagina una rottura, una fuoriuscita dal capitalismo. Io parlo invece di alternativa in un senso che altrove potrebbe essere il laburismo o una seria socialdemocrazia. Una alternativa riformista, cioè, e perciò dico che può bastare il 51% di maggioranza. Se l’alternativa è intesa invece come passaggio al socialismo, non parliamone neppure. Scriviamo libri per i posteri.
Ma Lombardi è un uomo rispettabilissimo, come è rispettabile l’utopia”.
Il Pci respinse bruscamente la strategia dell’alternativa di sinistra. La considerò una linea avventurista.
Era tuttavia del tutto paradossale l’argomento usato dai comunisti secondo il quale un grande programma di cambiamento economico e sociale avrebbe comportato tali resistenze da rendere necessario, per realizzarlo, un amplissimo schieramento politico comprendente l’intera Dc. Argomento paradossale perché si riteneva possibile che la Dc potesse convergere su un programma di trasformazioni profonde del paese. Il che non era né realistico né politicamente prevedibile. In realtà la formula del compromesso storico avrebbe potuto rivelarsi funzionale se fosse stata intesa come premessa per una democrazia compiuta. Ma non fu così. Per il Pci il compromesso storico era lo sbocco di tutta la storia precedente del partito. La stessa vittoria elettorale del 1976 fu interpretata come qualcosa che veniva da lontano, il risultato di un lungo processo politico. Quella politica fu intesa dallo stesso Berlinguer come la continuazione e lo sviluppo della linea di unità antifascista. In una situazione non togliattiana, osservò Biagio de Giovanni, si seguì una strategia togliattiana e in quella situazione si vide la massima legittimazione e quasi il successo di quella strategia. Merito di Lombardi, in ogni caso, fu di comprendere che la sinistra avrebbe dovuto porsi come forza in grado di contendere il governo del paese alla Dc, lavorando quindi per la costruzione di una alternativa.
Questa fu la sua convinzione. Una intuizione che in fondo resta valida ancora oggi in una realtà completamente modificatasi da tutti i punti di vista rispetto ai tempi di Lombardi. Ancora oggi il sale della democrazia è la possibilità che due schieramenti alternativi si battano per la conquista del governo del paese. Un tempo in competizione con la Dc, oggi con il centro destra.
Il dramma è che oggi come ieri è lo schieramento progressista che stenta a prendere forma e a divenire una credibile alternativa di governo.