IL “REFERENDUM” SULL’ART.18 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI BOCCIATO: LA CORTE COSTITUZIONALE FUORI DALLA DEMOCRAZIA, FUORI DALLA COSTITUZIONE di Francesco Bochicchio

16 febbraio 2017

IL “REFERENDUM” SULL’ART.18 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI BOCCIATO: LA CORTE COSTITUZIONALE FUORI DALLA DEMOCRAZIA, FUORI DALLA COSTITUZIONE di Francesco Bochicchio

Sono finalmente uscite le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale con cui è stato dichiarato inammissibile “il referendum” abrogativo delle norme del “job act” (e della legge Fornero)  nella parti in cui si abolisce  il divieto di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori di licenziamenti ingiustificati con sanzione della reintegra, e nel contempo si aumenta lo spazio di operatività dell’art. 18 dalle aziende con più di quindici dipendenti a quelle con più di cinque.  

La Corte ha respinto l’ammissibilità in quanto il quesito sarebbe propositivo in violazione dell’art. 75 Cost. secondo cui è ammissibile solo il “referendum” abrogativo. La Corte ha (per usare un eufemismo) errato al riguardo, trascurando che il “referendum” intendeva abrogare una norma limitativa dell’applicazione del divieto di licenziamento ingiustificato, il che è ammissibile, in quanto quello che conta non è l’ampliamento della portata ma l’abrogazione o no della norma.

Per superare questo ostacolo insormontabile la Corte ha evidenziato che il quesito ha tentato di raggiungere ciò mediante la manipolazione della norma, ed ha anche ammesso che ciò di per sé non è vietato (come da giurisprudenza costante della stessa Corte, citata dallo scrivente nei precedenti scritti), ma ha specificato che nel caso specifico la manipolazione sarebbe inammissibile in quanto effettuata con la tecnica del ritaglio. Ebbene, il ritaglio è una modalità mentre la manipolazione in tanto ha valore assorbente e di natura propositiva solo in quanto  crea una norma nuova, vale a dire se è eccessiva (anche qui come da precedente giurisprudenza della Corte Costituzionale, citata dallo scrivente nei precedenti scritti). La Corte prende un abbaglio creando un commistioni di piani tra modalità della manipolazione da un lato e, dall’altro, sua estensione: se la manipolazione è eccessiva, dall’estensione della portata della norma mediante abolizione di altra norma, estensione come visto del tutto lecita, si passa surrettiziamente ad altra norma, mentre la modalità, attenendo ai (soli) modi, è evidentemente del tutto insufficiente per creare una nuova norma. Nel caso in esame, non vi è alcun eccesso in quanto il limite di cinque dipendenti valevole per le imprese agricole viene esteso a tute le imprese. Che il limite di cinque fosse dovuto alle particolarità delle imprese agricole come evidenziato dalla Corte non ha alcun valore in quanto con il quesito si intendeva si intendeva eliminare ostacoli alla generalizzazione di tale limite, ritenuto per l’appunto dalla portata generale: la restrizione  del limite veniva ritenuta non più condivisibile e si è sempre sul piano di abrogazione di norma restrittiva di altra norma e non di creazione di norma. La creazione vi sarebbe stata solo in caso di individuazione di limite prima non esistente, quale per esempio due o quattro. Addirittura per la Corte il quesito si sarebbe sottratto a censura se si fosse eliminato il limite numerico “tout court”, così è entrata in confusione, confermando di non avere chiara la distinzione tra norma e portata della norma.

La Corte ha ritenuto altresì la non omogeneità e la non univocità del quesito in quanto da un lato elimina i criteri di restrizione del divieto di ingiustificato licenziamento e soprattutto della sua natura reale con reintegrazione di cui alla l. Fornero e dall’altro abroga l’eliminazione della tutela reale di cui al “job act”. Secondo la Corte il quesito sarebbe non omogeneo e non univoco, in quanto si potrebbe ben volere l’eliminazione dell’una e non dell’altra.

E’ un’affermazione surreale: l’art. 18 vietava i licenziamenti ingiustificati con la sanzione reale della reintegra; la legge Fornero  ha allentato il divieto e poi il “job act” lo ha eliminato; chi vuole abrogare la legge Fornero “a  fortiori” vuole abrogare il “job act”; ma non vale il contrario, potrebbero eccepire i zelanti Giudici; ebbene,  è da replicare che chi vuole abolire il “job act” vuole salvaguardare il divieto di licenziamento ingiustificato con reintegra e con tutela reale; una volta affrontata la problematica evidentemente una tutela piena è conseguente e piana. Vedere una rottura tra le due abrogazioni è una forzatura evidente e che trascura la portata della norma che si vuole salvaguardare eliminando norme limitative della stessa.

E’ ovvio il vizio (del ragionamento, ammesso che si possa così chiamare) della Corte: imputa al “referendum” di avere natura propositiva ma senza avere il coraggio di statuire che la natura propositiva ricorre non solo in caso di introduzione di una nuova norma ma anche in quello di eliminazione di una parte della norma che limita la portata della norma principale: la Corte non ha tale coraggio, in quanto vorrebbe dire passare da una concezione giuridica dell’abrogazione ad una politica, il che è palesemente inammissibile.

Così per superare tale ostacolo, in verità insormontabile, tenta surrettiziamente, con un ragionamento sofistico degno di avvocati ma non della Corte di legittimità costituzionale che deve salvaguardare la Costituzione e non impedire quesiti referendari solo perché scomodi, di aggirarlo  parlando di quesito manipolativo ma senza valutare se la manipolazione sia in effetti tale da creare una nuova norma.

Parla di disomogeneità e non univocità del quesito ma con una valutazione surreale, che prescinde completamente dall’individuazione delle varie norme, che si lascia nel generico per arrivare ad una conclusione precostituita e non di natura giuridica, ma solo politica. Il vero è che è una valutazione politica per impedire la sconfessione popolare dei Governi Renzi e Monti nella loro politica del lavoro improntata al liberismo assoluto: poiché il Governo Renzi è stato già sconfessato sul piano della riforma costituzionale (ed anche elettorale), la Corte vuole altresì impedire un’aggregazione di voti di sinistra antiliberista, di populismo  puro dei 5Stelle e del populismo di destra –Lega Nord- sotto contenuti di vera sinistra antiliberista, come già avvenuto con il citato “referendum” sull’orrida legge Renzi/Boschi. Dario di Vico, su “Il Corriere della Sera”, ha notato acutamente che le grandi battaglie referendarie in materia sindacale e di diritti dei lavoratori sono sempre state sconfitte a partire dalla scala mobile nell‘85, ma adesso la stessa poteva essere vinta grazie al populismo: soluzione ovviamente aborrita da Di Vico, che peraltro ha l’onestà intellettuale di individuare una direzione propositiva del populismo, non più solo distruttiva. Si è voluto impedire di realizzare una nuova grande prospettiva politica di apertura a sinistra e bloccare l’evoluzione democratica. In particolare si è trattato di impedire che vi fosse una nuova prospettiva al posto dell’alternativa tra centro immobile liberista e populismo solo distruttore. La Corte tutela non la Costituzione ma gli equilibri politici, in chiave anche evidentemente anti-democratica ed antisociale, violando i principi fondamentali della stessa Costituzione. Non è la prima volta: basti pensare alla incredibile sentenza, di qualche anno fa, che dispose la distruzione delle registrazioni telefoniche di Napolitano anche se indirette –vale a dire avendo sotto controllo il telefono di Mancino che discorreva con lo stesso Napolitano- e quindi al di fuori della speciale guarentigia di cui all’art. 90 Cost. L’equilibrio politico quale elemento in grado di sovvertire la Costituzione a tutela di un sistema economico-politico rovinoso ed antidemocratico è il vero elemento caratterizzante la nuova impostazione della Corte: il sistema politico è in crisi e non riesce a governare nonostante la carenza di democrazia; mancano classi dirigenti e uomini forti, tutti nient’altro che al servizio supino e privo di raziocinio di un capitale che viaggia gioiosamente (si fa per dire gioiosamente) verso la rovina, ed allora necessita del soccorso della Corte, che da custode della Costituzione si trasforma in  suo cavallo di Troia –senza la genialità di Ulisse-. Da un punto di vista politico, occorre creare una unione tra lotta per il lavoro e lotta per la democrazia costituzionale: da uno giuridico, occorre rimettere in discussione la giurisdizione costituzionale, oramai all’abisso, non per abolirla ma per impedirle di diventare la sconsolante parodia di sé stessa.

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