IL REDDITO DI CITTADINANZA È UNA MISURA FONDAMENTALE DELLO STATO SOCIALE MODERNO di Luca Cefisi

18 marzo 2018

IL REDDITO DI CITTADINANZA È UNA MISURA FONDAMENTALE DELLO STATO SOCIALE MODERNO di Luca Cefisi

Il cosiddetto reddito di cittadinanza è una misura necessaria dello stato sociale moderno, ma i grillini hanno talmente confuso e intossicato il dibattito, a forza di false informazioni, contraddizioni, e vere e proprie menzogne, che temo ci vorranno anni per far calare il polverone e ritornare ad un dibattito pubblico ragionevole sul tema. Chi scrive, da militante politico, si impegna per un “reddito di cittadinanza” da oltre 25 anni. Prima di ricordare rapidamente perché la Casaleggio non ha inventato niente, anche se ha incasinato molto, è però necessario spiegare perché “reddito di cittadinanza” va tra virgolette: infatti, è un’espressione che suona bene, ma è generica e va spiegata; in termini tecnici, infatti, ne esistono almeno due modelli, molto diversi tra loro. Il primo, il cosiddetto Reddito Minimo (Minimum Income, nella letteratura internazionale), è una misura di sostegno ai cittadini in difficoltà economica, e sovente corrisposto in cambio dell’espletamento di determinati doveri. Normalmente, chi percepisce un reddito minimo di assistenza deve rendere conto del perché lo percepisce, e spesso anche di come lo impiega. E’ una misura quindi tipicamente “socialdemocratica”: presuppone servizi sociali attenti, cittadini laboriosi e volenterosi, e anche un certo moralismo, se vogliamo. Non è per niente un’espressione di rifiuto del lavoro, perché si tratta di una misura senz’altro provvisoria, e finalizzata al rapido ritorno al lavoro, oppure al sostenere determinate condizioni di difficoltà, quali quella di un genitore single. Ancora di più, con la crescente tendenza, dei governi socialdemocratici dei primi anni 2000, a coniugare il welfare in termini di workfare, per rispondere alle contestazioni sul presunto assistenzialismo del welfare socialdemocratico così come storicamente realizzato, e, implicitamente, sul suo essere non meritocratico e favorevole ai pigri. I socialisti europei hanno quindi sostenuto in questi il workfare, cioè condizioni obbligatorie per accedere al RM, centrate su attività di formazione, sulla verifica di un’attiva ricerca di lavoro, sul dovere di accettare le offerte di lavoro proposte dai servizi sociali. Se queste forme crescenti di controllo sulle vite delle persone venivano a soddisfare le critiche provenienti dal mondo conservatore, sempre pronto a scandalizzarsi per i (presunti) poveri furbi  sfruttatori dei beni pubblici, a livello ideologico potevano essere ben giustificate anche a sinistra, in nome dell’etica del lavoro e del “chi non lavora non mangia”: ma sotto l’ideologia, quello che segnalano è la crescente crisi di consenso per il welfare ai tempi del neoliberalismo, per la frammentazione della società, che rende spesso difficile legittimare la spesa sociale a favore di soggetti in qualche modo minoritari – giovani  aderenti a sottoculture “alternative”; ragazze madri che rifiutano, o non hanno più, la famiglia d’origine; immigrati; persone con vari livelli di fragilità –  ai quali si chiede quindi almeno un certo livello di rispettosa disciplina. Per la verità, esiste anche una versione conservatrice, anzi di destra liberista, che non sembra interessarsi molto alla buona condotta dei beneficiari: legata a certe vecchie proposte di Milton Friedman, si tratta di corrispondere un reddito di povertà senza particolari condizioni o controlli, per esempio con una semplice Tassa Negativa sul Reddito (il fisco, come può tassare il reddito, può in automatico corrispondere qualcosa a chi non raggiunga un livello minimo). Sono evidenti, nella sua versione liberista, diversi aspetti evidentemente negativi: la corresponsione di un RM senza particolari condizioni se non quella dell’assenza di reddito diventa sostitutiva dei programmi di educazione, formazione, tutela sociale, e persino alla sanità e alla scuola pubblica. In nome del risparmio sui costi burocratici del welfare, e della libertà individuale, si paga qualcosa ai poveri per, in pratica, toglierseli dalle balle (tant’è che in teoria il “reddito di cittadinanza” può benissimo andare assieme alla flat tax e al depauperamento del welfare e dell’istruzione). Attenzione però: se però questa “tassa negativa” fosse corrisposta come forma aggiuntiva di tutela, senza mettere in questione gli altri servizi sociali essenziali, grazie a un prelievo fiscale robusto e progressivo, le cose potrebbero funzionare diversamente: da qui, la proposta di un Reddito di Base (Basic Income), tendenzialmente universale, che avrebbe diverse funzioni positive: quella di liberare tempo di vita per genitori, giovani alla ricerca della propria strada, persino imprenditori e artisti, persone che per i più vari motivi non riescano ad adattarsi al mercato. Chi lavora, godrebbe ovviamente del privilegio di una retribuzione ben maggiore, e quindi non dovrebbe (si spera) essere colto da invidia sociale. Da un lato, questa visione di sinistra prende tacitamente sul serio almeno un argomento dei liberisti: l’occhiuto controllo dello Stato su chi riceva il reddito di cittadinanza può essere insopportabile, oltre che costoso nello stipendiare un esercito di controllori. Ma l’idea principale sottostante a un Reddito di Cittadinanza universale è che non debbano esistere lavoratori poveri, ma soltanto lavoratori che ricevono una significativa parte della ricchezza prodotta, o altrimenti dovrebbe per tutti essere possibile tirarsi fuori da meccanismi di puro sfruttamento. E’ chiaro che questa visione, di solito di una sinistra non socialdemocratica ma eterodossa, potrebbe diventare interessante soprattutto qualora il lavoro diventasse una risorsa scarsa con i cambiamenti tecnologici, o quando la società fosse diventata abbastanza tollerante da accettare il diritto all’ozio, per dirla con Bertrand Russell, e magari con Paul Lafargue. Tutto molto interessante, e da non sottovalutare, ma si capisce bene che stiamo parlando di visioni futuribili, per consenso politico e praticabilità, anche se è cosa degna discuterne e tenere aperto il dibattito su un futuro libero dall’oppressione del lavoro e da quella della povertà (per una libertà “per davvero”, come ha sostenuto il principale sostenitore del reddito universale di base, il filosofo belga, vicino ai Verdi, P. Van Parijs). Tornando alle nostre miserie, si deve dire con chiarezza che non è facilmente spiegabile perché soltanto l’Italia, tra i Paesi europei a welfare avanzato, che pure ha saputo dotarsi di solido Servizio Sanitario Nazionale, e ha decenti scuole e università pubbliche, non abbia saputo organizzare per tempo un reddito di inclusione. Chi scrive ricorda che, a sua memoria, il reddito di cittadinanza, ovviamente inteso come reddito minimo, è stato proposto dai giovani del Psi sin dalla fine degli anni 80, e la prima proposta socialista in questo senso, un disegno di legge di Agostino Marianetti, è dei primi anni 90. La prima previsione di legge operante, indicata come “reddito di inserimento” è del 1998, voluta dalla ministra Turco, ma solo come sperimentazione; dopo, c’è stata la cosiddetta “social card” di Tremonti, un evidente palliativo; poi il lungo dibattito sulla Flexicurity, il modello danese di reddito minimo ma adeguato e dignitoso, e assieme di grande flessibilità nell’ingresso e nell’uscita dal lavoro e dalla formazione continua; infine il Reddito minimo di Inserimento (Rei), varato dal governo Gentiloni. Con il Rei abbiamo finalmente un reddito minimo almeno tendenzialmente accessibile a chiunque rientri in criteri di bisogno (per questo, erroneamente, il Rei viene definito talvolta “universale”: ma, come abbiamo visto, un reddito universale è un’altra cosa). Il Rei non è molto corposo (meno di 200 euro per il singolo, fino a circa 500 per una famiglia) ma è il meglio che si sia visto sinora da noi. Si deve dare atto al governo di aver fatto un’importante passo avanti, e, come per il caso delle unioni civili, senz’altro con l’era di Matteo Renzi si è finalmente rotto un muro che pareva incrollabile. Già, ma perché? Perché una riforma giusta e opportuna, diffusa in forme poco diverse in tutta Europa, non è mai decollata? Probabilmente per ragioni antiche, legate a una vera e propria anomalia italiana, quella già denunciata dal socialdemocratico Luigi D’Aragona nel 1948, quando la commissione sulla riforma della previdenza sociale da lui presieduta denunciò la frammentazione dell’assistenza e della previdenza tra le diverse categorie di dipendenti pubblici e privati, e la sostanziale esclusione da essa di artigiani e professionisti. Non se ne fece niente, e a tutt’oggi il mix italiano di segmentazione per gruppi d’interesse, fortemente vincolata alla trattativa e intermediazione politico-sindacale, di assenza di tutele per commercianti e artigiani, compensata dalla tolleranza per l’evasione fiscale, e professionisti, a cui vanno in pratica assimilati tutti i moderni lavori precari e flessibili. Si condensano qui tanti elementi del “caso italiano”: l’ideologia familista che a lungo considerò il “capofamiglia” come interlocutore unico dei bisogni familiari; un certo consociativismo che favorì la rappresentanza anche dei principali interessi organizzati dall’opposizione, quali operai della grande industria e lavoratori agricoli, ma che si disinteressò di tanti soggetti socialmente deboli. A tutt’oggi, di fronte alla grande trasformazione “liquida” del lavoro, si ascoltano a sinistra e nel sindacato invocazioni al ritorno di questi lavori alla presunta normalità del posto fisso e incardinato nell’azienda o nell’istituzione, mentre flebili sono le voci per una ben più logica riorganizzazioni delle tutele sociali attorno alla flessibilità del lavoro, che pure è un elemento della modernità che non si può abolire per decreto. Anche qui il soltanto recentemente si sono avute con il Jobs Act, e specialmente con il cosiddetto Jobs Act del lavoro autonomo, dei passi verso un sistema di tutela del lavoro e del bisogno più universale e più moderno, ed è significativo che a fronte di questo (Nuova assicurazione per la disoccupazione a 24 mesi per i dipendenti, diritti di maternità e malattia per le partite Iva), la polemica si sia concentrata sull’abolizione dell’articolo 18 del 1970, e di fronte all’obiezione che l’art.18 tutelava solo un settore ben delimitato di lavoratori, si sia rilanciato da alcune parti con l’idea, impraticabile, di estendere l’art.18 a tutte le imprese. Per concludere sul reddito minimo: pochi ricordano che la commissione Onofri, costituita dal primo governo Prodi nel 1996, indicò nella mancanza di un reddito minimo e in genere di garanzie per gli esterni al quadro tradizionale di tutela sindacale e familiare il problema da affrontare; che il Libro bianco sul lavoro di Marco Biagi prevedeva accanto a un’organizzazione del lavoro flessibile anche la necessità di tutele nella direzione della flexicurity, e che in modo sbalorditivo la legge che gli si volle intitolare dopo la sua morte prevedeva la prima parte ma non la seconda. Si possono fare molti altri esempi: di fatto, l’istituzione di un reddito minimo di cittadinanza è stata procrastinata, sottovalutata, fino a che un’agenzia spregiudicata ma non priva di lucidità, la Casaleggio, l’ha individuata come punto d’attacco. Ed è responsabilità di tutte le forze riformiste e democratiche e del sindacato aver lasciato aperto questo varco per anni e anni. Quando i 5stelle sono riusciti a imporre all’agenda nazionale il loro fantomatico “reddito di cittadinanza”, fantomatico perché mal definito e privo di agganci a un progetto complessivo di riforme, si sarebbe potuto e dovuto chiudere loro i varchi. Non lo si è fatto con efficacia: e anzi, per reazione, si sono visti riemergere, nella polemica politica, argomenti obsoleti, del genere “no al reddito di cittadinanza, si al lavoro per tutti”, come se la piena occupazione fosse dietro l’angolo, o argomenti, appunto, reazionari, quali che il reddito di cittadinanza piacerebbe ai pigri che non hanno voglia di lavorare, o che se venisse versato in misura dignitosa i poveri non avrebbero più ragione di accettare salari da poveri e “nessuno lavorerebbe più” (quello di impedire il dumping salariale e il “lavoro povero” è ovviamente uno dei fini di un reddito di cittadinanza). Del tutto insopportabili appaiono poi le obiezioni di chi sostiene che, poiché non si possono offrire opportunità di lavoro che non ci sono, non si può nemmeno garantire un reddito minimo che potrebbe protrarsi troppo a lungo nella vita di un giovane inoccupato (come dire che alla povertà non c’è soluzione, e che si arrangino). A tutt’oggi, pare di capire che Grillo predichi nelle sue uscite telematiche la “fine del lavoro salariato” e un reddito di cittadinanza universale: temi serissimi, che il comico genovese banalizza (per esempio, la fine del lavoro in fabbrica e del suo trasferimento ai robot non coinciderà con la fine del lavoro di cura, assistenza alle persone e pulizie); al tempo stesso, Di Maio sta gradualmente riducendo e potando l’ispirazione di Grillo, e abbiamo capito che in pratica i 5stelle nelle loro versione governativa si sono resi conto di non poter andare oltre un reddito minimo sottoposto a condizioni, sanzioni, e limitazioni precise. Certe dichiarazioni di Di Maio hanno suscitato ilarità, o piuttosto amaro sarcasmo: in particolare quella in cui il “capo politico” della Casaleggio ha notato che per farlo davvero, il reddito di cittadinanza, ovviamente nella versione scandinava occorre una riforma radicale dei centri per l’impiego: Di Maio cade dall’albero come una pera, e sembra non sapere, e forse non lo sa davvero, che è da molto tempo noto il problema della mancanza di risorse e personale dei centri per l’impiego e la crisi della formazione, e anche per questo, guarda un po’, la riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre 2016 su suo pressante invito prevedeva il ritorno alla competenza del governo centrale, essendo chiaro che l’attuale stato di frantumazione regionale rende impossibile mettere a norma la gestione della formazione e insomma una Flexicurity all’italiana. Il rischio peggiore è che, di fronte a queste difficoltà, si finisca davvero per creare una saldatura (di segno davvero reazionario) tra Lega E 5stelle, cioè tra flat tax e un reddito minimo pourchessia, realizzando così la distopia neoliberista. E’ il caso di cercare di impedirlo, spiegando ad alta voce agli italiani che il reddito di cittadinanza non è un’invenzione estemporanea, ma uno strumento di politica sociale che deve fare i conti con la sostenibilità finanziaria, con l’equità fiscale, e con un progetto complessivo di società più giusta.

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