IL PROFESSOR MONTI, RICCARDO LOMBARDI, LE RIFORME DI STRUTTURA da Il Riformista del 29 gennaio 2012
27 febbraio 2012
Sono l’unico a questo tavolo, e forse uno dei pochi in questa sala, a non avere conosciuto Riccardo Lombardi, non certo perché fossi troppo giovane nel 1984, quando Lombardi moriva, ma perché avevo scarsissima frequentazione, forse ancora minore di quella che ho oggi, con il mondo politico.
Francamente non avrei mai immaginato di essere un po’ all’origine di un incontro come questo, per via di una brevissima frase, che Nerio Nesi ha avuto l’amabilità di citare, posta alla fine di un lunghissimo articolo. Mi ponevo due quesiti. Essendo ormai da diversi anni il termine “riforme strutturali” diventato canonico e quasi banale, e non solo in Italia, perché structural reform è la parola guida di tutte le politiche economiche nel mondo, mi interrogavo sull’origine dell’espressione, almeno nel contesto italiano, e mi pareva di ricordare che fosse stato proprio Riccardo Lombardi ad averla non so se inventata, ma certamente valorizzata. Non sapevo che fu addirittura al congresso della CGIL del 1949 che venne usata per la prima volta.
L’altra curiosità che mi muoveva era quella di provare ad immaginare che posizione avrebbero oggi, sui temi correnti delle riforme strutturali, quelli che si erano battuti da antesignani per le riforme strutturali o di struttura trenta o quaranta anni fa.
Negli anni ’50 e nei primi anni ’60 si è molto parlato in Italia di riforme di struttura, che sono state proposte con forza e in alcuni casi attuate: lo scopo era modificare dall’interno il capitalismo. Io credo che da allora siano state realizzate soprattutto due riforme di struttura, non necessariamente sull’onda di quel pensiero e di quell’azione politica. Le due riforme di struttura che hanno valorizzato il mercato ma, contemporaneamente, disciplinato in qualche misura il capitalismo sono state l’Unione Europea e le autorità indipendenti che le sono in parte legate. È vero che quando Riccardo Lombardi nei primi anni ’60 propugnava le riforme strutturali la Comunità economica europea esisteva già; però certamente non aveva ancora quell’armatura e quell’articolazione che le sarebbe poi venuta con il mercato unico e con la moneta unica, che hanno (soprattutto il mercato unico) fortemente inquadrato le modalità di azione delle imprese e del sistema capitalistico.
Che ruolo ha avuto la sinistra nella genesi di queste due riforme strutturali che hanno contato davvero? La risposta è che non ha avuto un grandissimo ruolo. Anzi, per certi aspetti la sinistra si è opposta: sicuramente per quanto riguarda il Trattato di Roma, in parte per quanto riguarda gli atti ulteriori di integrazione europea e il Trattato di Maastricht. Il che, secondo me, è una delle spiegazioni psicologiche del perché oggi con tanto “neoconvinto” (ma “neo”, a dire il vero, da parecchi anni ormai) fervore la sinistra faccia da battistrada nell’”europeità” dell’Italia; forse è anche perché c’è questa consapevolezza di non avere visto giusto dall’inizio.
Per quanto riguarda le autorità indipendenti, qui mi riferisco soprattutto alle due autorità chiave per disciplinare il capitalismo: l’autorità antitrust e l’autorità di regolazione sui mercati finanziari e quindi, in Italia, l’autorità garante della concorrenza del mercato, la Consob. Qui è meno facile stabilire se la sinistra, o le sinistre, le abbiano viste e promosse come riforme strutturali importanti oppure no. Una cosa però si può dire per l’antitrust. E’ vero che ci sono state personalità della sinistra che si sono impegnate in questa direzione: è noto in particolare il contributo di Guido Rossi, accanto a quello governativo dell’allora ministro Adolfo Battaglia. Però la sinistra negli anni ’60 e ’70, ha contribuito con il mondo imprenditoriale a non far nascere l’antitrust in Italia. Ci ricordiamo quale era la dinamica dell’interdizione. La sinistra, ma per la verità la cultura marxista e la cultura cattolica nel potente combinato disposto che le caratterizzava, si opponevano all’introduzione di norme antitrust in Italia a meno che queste riguardassero solo le imprese private, non certo le imprese pubbliche: e questo dava non so se un alibi o un valido motivo al mondo imprenditoriale privato per dire allora no, o tutti o nessuno. Così si arrivò al 1990. Siccome poi le cose hanno sempre i loro risvolti positivi, il fatto che l’Italia sia stato tra gli ultimi Paesi europei a darsi una legge antitrust, ha anche fatto si che la nostra fosse una delle più moderne e una delle migliori. Ma comunque c’è stato per lungo tempo questo surplace che ha ritardato l’ammodernamento del sistema capitalistico italiano. Quindi è un po’ paradossale, vedendo le cose con distacco, e non so se la mia lettura sia corretta, che coloro che più sentivano l’esigenza delle riforme di struttura non abbiano dato una spinta pragmatica costruttiva per averle davvero; e che quindi queste siano in una certa misura arrivate,ma per altra strada.
La strada europea alle riforme strutturali certamente non è stata perfetta: credo che siamo tutti d’accordo e lo era anche Luigi Einaudi, che il mercato risolve solo, se va bene, i problemi allocativi, non quelli distributivi, e che quindi accanto al mercato occorrono la regolazione, per farlo funzionare bene, e il sistema fiscale per prendersi cura degli aspetti distributivi. Credo che la grande riforma strutturale venuta dall’Europa abbia fatto molto sul primo piano: l’antitrust, le regole della concorrenza eccetera, molto poco e molto male sul secondo piano, quello del sistema fiscale. Avendo deciso all’origine che tutta la materia fiscale vada regolata all’unanimità con vantaggi e svantaggi, la conseguenza è stata praticamente la paralisi nella costruzione di un sistema fiscale europeo.
C’è un punto con riferimento alle ultime frasi della lettera di Claudio Signorile che vorrei riprendere, cioè se ci siano dei settori che proprio per loro natura debbano a titolo di proprietà appartenere allo Stato. C’è chi ha certezze, io non le ho. E come esempio, cito proprio il caso dell’acqua, che divide l’Europa in modo esemplare. Due Paesi che in genere sono alleati nel non andare troppo avventurosamente in avanti verso il liberismo economico, la Germania e la Francia, sull’acqua hanno due posizioni antitetiche: in Francia l’acqua è un affare privato, sono francesi le due più grandi società di gestione dei sistemi di acqua nelle città del mondo, e la Francia spinge quindi per la liberalizzazione dell’acqua. La Germania si oppone moltissimo, soprattutto i comuni tedeschi.
Io credo che in generale il sistema europeo, che prevede assoluta neutralità tra proprietà pubblica e proprietà privata, e uguale la sottomissione delle imprese pubbliche e private alle regole della concorrenza, tutto sommato abbia dato buone prove. Prima di piegarsi alla constatazione del Presidente Roosevelt che contro le concentrazioni di ricchezza e di potere economico create nelle holding nel campo dei servizi pubblici una regolamentazione ha poche possibilità di successo, è bene prima avere provato veramente con una regolamentazione seria e incisiva dotata di poteri; e forse l’Italia ha ancora un tratto di strada da fare da questo punto di vista.
Le riforme di struttura di oggi credo siano nel senso delle liberalizzazioni, non certo per creare il mercato selvaggio ma, armati di un principio di proporzionalità, per rivedere la selva dei vincoli; e per verificare che cosa serva davvero per tutelare il consumatore e l’interesse generale. L’ operazione condotta all’inizio degli anni ’80, su iniziativa del Ministro Andreatta, in riferimento al sistema creditizio e finanziario, con un rapporto su cui anche io lavorai, fu, anche sotto il profilo intellettuale, un po’ la prima indicazione di liberalizzazione del sistema finanziario italiano. Io credo che la cultura della programmazione di cui Giorgio Ruffolo ha parlato e di cui è stato grande operatore nel sistema italiano, sia quasi perfettamente applicabile alle liberalizzazioni, che vanno programmate con un piano, con sequenze, con tempi. Qualcuno ha detto che parlare di programmazione delle liberalizzazioni è un ossimoro; ma io credo che il modo migliore per attuarle sia proprio quello di metterle in coerenza con un piano. Una programmazione delle liberalizzazioni avrebbe anche il vantaggio, rispetto a liberalizzazioni estemporanee, che pure vengono fatte, di dare il senso a tutti di che cosa prima o poi toccherà ai vari interessi e alle varie corporazioni. Questa mi sembra anche la via migliore per valorizzare il potere pubblico rispetto alle corporazioni, perché una programmazione fatta dal potere pubblico può avere più coerenza nel tempo e maggiore valore di indirizzo rispetto a tanti tavoli ai quali, in modo molto asimmetrico secondo il loro potere di interdizione in una data configurazione politica e sociale, le varie corporazioni siano chiamate a cogestire le liberalizzazioni.
Il mio ultimo spunto di riflessione è quello sulle controriforme di struttura: non credo che questo termine sia stato stato recentemente usato sullo stesso Corriere della Sera solo per gusto della boutade. Penso che in questa fase occorra veramente guardarsi dalle controriforme. Naturalmente, se certe riforme di struttura avevano in passato preso la forma di nazionalizzazioni, come nel caso dell’energia elettrica, non credo che oggi, essendo nel frattempo intervenute privatizzazioni, la controriforma di struttura consista nella ri-nalizzazione; ma nella politicizzazione si, e mi sembra che ci siano segni evidenti e plurimi di una tendenza verso una crescente confusione nei rapporti tra politica e affari. Il modo in cui, senza che nessuno batta ciglio, i giornali quotidianamente parlano di amicizia tra questo o quell’imprenditore o banchiere, questo o quel partito o personalità politica, come se questo facesse parte dello stato del mondo, è allarmante. Sembra quasi che nascano poi nel sistema bancario, le figure di accompagnatori, suggeriti per rendere “Italian compatible” gli interventi di investitori non italiani; mentre se fatti attraverso altre azioni, con altre modalità o con altri accompagnatori, ci sarebbe da eccepire di più. Io ricordo che alla fine degli anni ’70 si parlava dello Stato come di banchiere occulto, data la grandissima attività di intermediazione finanziaria che svolgeva a sostegno di imprese un po’ in difficoltà; oggi, forse per certi aspetti, bisognerebbe parlare di banche quasi come governo occulto, perché hanno una forma di potere di indirizzo che certamente nelle intenzioni, magari nelle conseguenze, è gestita nell’interesse generale, ma non passa attraverso le modalità istituzionali di manifestazione dell’interesse generale, che sono, credo, il Parlamento ed il Governo. Quindi è ben possibile che in specifiche operazioni non ci siano violazioni formali delle norme sul mercato unico, ma ci sono sicuramente discutibili divaricazioni rispetto a quella che dovrebbe essere la logica operativa di un’economia di mercato.
Bene, è incredibile a quante riflessioni, seppure disordinate, il riandare a Riccardo Lombardi possa dare luogo. Grazie.
(da un intervento di Mario Monti)