IL PROBLEMA DEL DEBITO PUBBLICO di Francesco Bochicchio
04 dicembre 2018
Il debito pubblico al 140% del PIL è un qualcosa di intollerabile
per qualsiasi economia: anche un’impresa privata non può avere un debito
superiore al fatturato.
Gli interessi erodono gli utili ed intaccano il patrimonio.
Il Giappone e l’America hanno un livello di indebitamento superiore ma lo
sviluppo economico della seconda e l’intervento del sistema bancario del primo
rendono la situazione tollerabile.
Nell’81, con la separazione tra Tesoro e Banca d’Italia, è
venuto meno l’obbligo di Banca d’Italia e per essa del sistema bancario di
sottoscrivere i titoli del debito pubblico: ciò al fine di liberare il sistema bancario da oneri impropri
e per spingere lo Stato a ridurre il proprio debito pubblico privato della
ciambella di salvataggio (nello stesso periodo, lo “staff” di Reagan esprimeva
lo stesso concetto in modo molto efficace e rude “bisogna affamare la bestia”):
le cose non sono andate così e il rapporto, allora al 60% ,è ora arrivato ai livelli iperbolici di adesso.
Il debito pubblico è ora essenzialmente determinato dagli interessi
mentre è diminuita fortemente la componente sociale.
La “bestia” non è stata affamata ma sono stati affamati i
soggetti deboli.
Inoltre, lo Stato ha perso il controllo del debito pubblico,
della spesa pubblica e della politica economica, visto che le aste del debito
sono in mano alle grandi banche d’affari internazionali.
Le banche italiane sono state sì liberate dell’obbligo, ma
nel contempo hanno perso autonomia rispetto alle grandi banche internazionali
ed hanno visto compromesso lo spazio dell’attività ordinaria in crediti, in
modo che la solidità è diventata appannaggio solo delle grandi banche che possano
permettersi finanza speculativa. Il divorzio ha leso il debito pubblico e la
politica economica, il che era un obiettivo dichiarato, ma anche il settore
bancario e finanziario, il che alla fine rivela un’eterogenesi parziale e
negativa dei fini. Per completezza, le stesse banche, quando possono sostengono
il debito pubblico ma solo se il Governo è prono al valore della finanza
internazionale, non quando si ribella come adesso.
Che il debito pubblico sia una questione in cui l’aspetto
decisivo è rappresentato da profili non di tecnica economica ma di rapporti di
forza economici supportati dalla politica è così evidente.
Ma non per questo si può trascurare come dietro i rapporti
di forza vi sia un nodo squisitamente economico.
Ed infatti, il problema dei conti pubblici in estremo
disavanzo rivela la presenza di un disordine economico interno che va risolto.
I controlli di efficienza dei mezzi e di eliminazione degli
sperperi sono necessari.
La spesa sociale, pensionistica e sanitaria e dei servizi
pubblici essenziali deve avere dei meccanismi di razionalizzazione essenziali
che sono mancati nel passato.
In seconda battuta, occorre affrontare il problema di un
profondo cambiamento di sistema, la cui soluzione presuppone la ripresa di
autonomia della politica economica e del sistema bancario, con l’emarginazione
delle grandi banche d’affari internazionali.
Infine, occorre scontare una parte consistente del debito
pubblico dovuta al comportamento illecito delle grandi banche d’affari
internazionali: si tratta di parte consistente, 30/40%, che va abbattuta a
carico di queste.
Quest’ultima proposta appare senz’altro, almeno “prima facie”,
impossibile da realizzare.
Ma di fronte ad una vera e forte protesta popolare che
rivendichi il proprio diritto all’autodeterminazione la penalizzazione delle
grandi banche d’affari internazionali per i loro illeciti non si rivela così
velleitaria.
Pertanto, è fondamentale che tale ultima proposta sia la
fase terminale di un progetto nel quale ci siano anche le prime due proposte.
La penalizzazione delle grandi banche d’affari internazionali
per i loro illeciti diventa così la risultante di un processo in cui la spesa pubblica
viene razionalizzata e lo Stato riprende il controllo sia della propria politica
economica e del debito pubblico sia il controllo delle proprie banche interne.
Con il nuovo approccio, non si trascura il nodo i rapporti
di forza economici ed il ruolo della politica, ma lo si presenta quale aspetto
terminale di un nuovo approccio economico che ponga al centro l’efficienza,
liberandola dal dominio letale del grande capitale.
Mentre, nel capitale finanziario, i rapporti di forza piegano
l’economia al servizio del grande capitale, con distruzione di valore sia in
campo pubblico sia in campo privato, ivi compreso quello bancario, solo con un vero riformismo socialista
-che non abdichi alla lotta di classe come invece fece la socialdemocrazia nel
secondo dopoguerra con il bel risultato di presentarsi poi disarmata quando
scomparve la minaccia del socialismo reale-, i rapporti di forza sono a garanzia
di una vera efficienza economica che produca, in modo razionale e sociale,
valore, e non lo distrugga.
Sul come inserire in tale approccio la rielaborazione della
teoria marxiana del valore, non si può, per il momento, che parafrasare “Kypling”,
“That’s another story”.