IL PD SI SFARINA di Paolo Bagnoli
17 novembre 2011
Quanto sta avvenendo in questi giorni nel partito democratico ci sembra costituire la riprova di ciò che andiamo da tempo sostenendo; vale a dire della sua difficoltà a essere “partito” e, quindi, a comportarsi, al di là delle scelte di merito dovute alla contingenza del momento, come tale. Il Pd è un “partito” che si va strutturando oramai “a canne d’organo” senza che vi sia nessuno capace di armonizzarne il suono. E’ il risultato di un’operazione che contraddice il farsi stesso di un partito: il darsi, prima di tutto, un’identità ideologica e culturale vera, e non lo stare in piedi solo in funzione nell’avversario. Noi lo pensiamo da sempre, ma la nudità del re è stata, con sincerità e onestà intellettuale, recentemente urlata dal vicesegretario Enrico Letta il quale, intervenendo all’incontro della corrente veltroniana, ha sostenuto, contraddicendo il segretario di cui è vice, la linea di un governo di larghe intese in quanto la caduta di Silvio Berlusconi rischia da produrre un effetto simile anche nel Pd “se non resta unito e se non interpreta il cambiamento.” Cosa significhi “interpretare il cambiamento” resta un mistero – almeno per noi – mentre comprendiamo meglio la necessità del “restare uniti”. Questo appello, come ci insegna la storia politica passata, si fa quando uniti non si è più e le ragioni della divaricazione prevalgono oramai su quelle della convergenza. Il Pd, infatti, sta vivendo un momento drammatico, sgranato com’è da tre iniziative centrifughe: 1) quella dei rottamatori che fanno riferimento all’eurodeputata Debora Serracchiani e al consigliere regionale lombardo Pippo Civati i quali chiedono di lanciare “idee e proposte” insieme a “cambiamento e partecipazione”; 2) quella del presidente della Provincia di Roma e responsabile giustizia Andrea Orlando che vuole rappresentare un’area laburista; 3) quella del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, padre di tutte le rottamazioni che, addirittura, ha promesso un “big bang” per la politica italiana. Unici tratti comuni di queste tre iniziative centrifughe è la militanza nel medesimo contenitore e il dato generazionale, off limits agli ultra quarantenni, come se il rinnovamento di una classe dirigente fosse un fatto anagrafico e basta. Se anche i partiti e le loro tendenze interne fossero al vaglio delle tanto, e giustamente, deprecate agenzie di rating probabilmente non basterebbero le tre zeta! In fondo, se si eccettua l’area Zingaretti-Orlando che affianca Bersani, il quale sembra aver accettato la sfida promettendo un numero impressionante di giovani, per il resto è solo un “vecchio deja vu” che avanza nel vuoto di politica della seconda repubblica, fatto salvo Veltroni che va all’attacco del segretario nel momento di maggiore debolezza di questi anche in relazione alla vicenda Penati. Il nuovismo, il giovanilismo, l’ardire del giovane che dispregia chi è nato prima, in politica infatti l’abbiamo già visto; è futurismo intellettuale condito da roboanti proclamazioni che non sono “politica”, ma solo dichiarazioni utili a nobilitare la conquista dell’obiettivo di potere, costi quel che costi, senz’altra preoccupazione se non quella di affermarsi. Tale situazione, per un partito nato con grandi ambizioni, rimaste per altro sulla carta, e incapace di muovere un’opposizione vera alla destra al governo, avviene nel momento in cui veramente nel campo berlusconiano si sono messi in moto movimenti e iniziative che possono finalmente portare alla caduta del governo, per motivi endogeni al campo destra-moderati. Caduta tanto più probabile viste le condizioni in cui versa la Lega e il fatto che, se non abbiamo compreso male, i cosiddetti “responsabili” non disdegnano l’idea di divenire “disponibili”. Insomma, proprio ora che avrebbe modo di entrare di rincorsa nella crisi – come succede al Palio di Siena ove una contrada entra di rincorsa – il Pd si sfarina su giochi di potere interno, sfrenate ambizioni personali e, soprattutto, sul vuoto reale di linea e iniziativa politica.
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