IL PARADOSSO DI UNA LEGA NAZIONALE DELLE LEGHE, di Rino Formica, da Critica Sociale, n.5/2009

16 settembre 2009

IL PARADOSSO DI UNA LEGA NAZIONALE DELLE LEGHE, di Rino Formica, da Critica Sociale, n.5/2009

“Penso che oggi il punto centrale sia come piegare la tendenza alla territorializzazione della politica alla ricerca di una nuova visione unitaria e nazionale dei partiti, corrosi dal leaderismo e dalla degenerazione feudale dei capi locali. Dopo il federalismo fiscale percorrere la strada dell'enfatizzazione dello “spezzatino federale” sarebbe un suicidio. A questo punto tutto richiama in causa gli altri partiti e non solo la Lega. Ci sarà la forza di chiudere il ciclo con un'Assemblea Costituente?”. In un recente articolo, a commento dei recenti risultati europei, Rino Formica ha sostenuto che il paradosso che ci attende è quello per cui la Lega di Bossi, dopo aver costretto i partiti nazionali a frantumarsi territorialmente costringendoli a ridursi ad aggregati di realtà “feudali”, sarà essa stessa il soggetto promotore di una ricomposizione unitaria, su nuove basi. Sarà insomma la “Lega delle Leghe”.
È esatto?
La Liga Veneta nasce nel 1979 con le elezioni europee, La Lega Lombarda di Bossi nel 1984 per le amministrative del 1985.
Nel Veneto si anticipa la crisi della Dc e si organizza il consenso intorno ad una rivendicazione etnica.
In Lombardia Bossi si muove verso un superamento del limite etnico e cerca una via politica per dare corpo nell'area settentrionale ad una comunità di interessi dichiaratamente antiunitaria e secessionista.
È nella fase della grande crisi istituzionale della Repubblica (anni novanta) che la Lega subisce una profonda mutazione evolutiva: è Lega di lotta perché esaspera la spinta antipartitocratica e perchè avversa il “partito romano”, è Lega di governo perché punta a piegare lo Stato centralista ad una maggiore sensibilità a favore del Nord.
È con la fine degli anni novanta che la Lega di lotta si trasforma in arma da usare per far vincere la Lega di governo.
Non più secessione ma devolution (trasferimento di ampi poteri dello Stato alle Regioni).
Bossi approfitta, inoltre, della crisi del sistema politico e della disgregazione delle politiche nazionali dei partiti centralisti e si organizza sul territorio costruendo vasti blocchi di interessi utilizzando la secolare rete mutualistica del primo movimento operaio, il solidarismo del cattolicesimo sociale ed il vasto settore delle imprese minori costruite dalla nuova generazione di imprenditori, figli della crisi del capitalismo assistito delle grandi famiglie.
Questa imponente massa d'urto sostiene un nuovo e giovanile personale politico locale molto attento alla buona amministrazione dei municipi.
Dove è il punto debole di questo agire politico?
L'approccio era giusto. Colpire il sistema soffocatore del monopolio dei partiti politici nella regolamentazione della vita civile e sociale, era una esigenza non più eludibile.
Ma questa lotta avrebbe dovuto provocare un movimento all'interno dei partiti politici per dare vita a nuove e diverse aggregazioni politiche capaci di organizzare la democrazia dell'alternativa su le ceneri della democrazia consociativa.
Se l'approccio era giusto, non era ragionevole supporre che il leghismo del Nord potesse diventare politica unitaria nazionale.
Il radicamento sul territorio e la costruzione di una comunità d'interessi circoscritta, funziona se è fattibile una autarchia politica, economica e sociale.
Questo limite è percepito dalla Lega che approfitta della incapacità di rinnovarsi del sistema politico fondato sui miracolati dei vecchi partiti (Pd) e sui riciclati degli antichi partiti di governo (Pdl).
Mi sembra di scorgere, oggi, nella Lega una accelerazione nella ricerca di una via nazionale delle Leghe locali.
Se vorrà percorrere questa strada dovrà misurarsi con un nuovo e antico ostacolo: l'autonomismo legato al territorio non può essere assunto come espressione di una politica di lungo periodo. Anche l'autonomismo si dovrà misurare con due difficoltà: la selezione delle forze politiche e sociali pronte a reggere le scelte di democrazia e di sviluppo civile sul territorio e la verifica della compatibilità di tutte le scelte locali tra di loro.
Questo è il banco di prova per mettere su una Lega nazionale delle Leghe.
Una citazione da un editoriale di Nenni sull'Avanti! del 1945 (pubblicato in questo numero della Critica)– che hai trasmesso a Bettino Craxi per il discorso di Piazza della Loggia a Brescia il 7 ottobre 1990 – diceva testualmente: “E' inevitabile che si ritorni ad un insegnamento di Carlo Cattaneo che è nella necessità del nostro ordinamento statale: l'autonomia può correggere gli eccessi che si contengono nella nostra affrettata Unità (d'Italia, ndr). La nostra Unità comanda la libertà locale, che è invece energia e non generatrice di inerzia”. L'onda lunga che il Psi attendeva dalla campagna per la Grande Riforma era il voto del Nord finito invece alla Lega? Quali ostacoli soggettivi e/o politici sono intervenuti?
Nenni scrisse l'articolo sull'Avanti! il 25 agosto del 1945 mentre soffiava il vento del Nord.
La Carta Costituzionale (46/47) prese corpo in una fase politica nazionale e internazionale in contro tendenza con le speranze e con le illusioni del 1945.
Nenni riprendeva il tema dell'avversione repubblicana al processo di formazione del vecchio stato storico monarchico e centralista. La frase: “la nostra unità comanda la libertà locale, che è invece energia e non generatrice di inerzia” è un messaggio per dare vita alla nazione. Purtroppo le cose non andarono così. La stessa autonomia nazionale fu intesa come germinazione regionale dei difetti dello Stato accentratore.
Il Psi nel '90-'91 non seppe dare peso alle questioni istituzionali per cambiare il volto dell'Italia.
Nenni nel '45 pose la questione ed ottenne la Repubblica e la nuova Costituzione.
Non vinse l'intera partita che doveva essere giocata da una nuova generazione socialista.
Questa negli anni 70/80 tentò di porre il problema dell'intreccio tra questione istituzionale e nuova società del cambiamento, ma non ebbe la forza per imporla ai due grandi partiti (Dc e Pci) e rimase invischiata su la carta moschicida delle governabilità.
Ma questa è la storia che non è stata ancora scritta e, forse, ci vorranno molti decenni per farla scrivere.
Già nel 1978 la rivista Mondo Operaio pubblicava il “testamento” di Proudhon, “Del Principio federativo”, (ripreso in larga parte nel numero precedente della Critica Sociale) con un saggio di Luciano Pellicani di comparazione tra le due sinistre, quella discendente dal pensatore socialista francese e quella comunista. Questo accade prima del celebre articolo di Craxi contro il leninismo.
In che misura il “federalismo” è stato effettivamente un patrimonio di cultura politica del riformismo socialista? La sua marginalità da cosa è dipesa: da una specifica ispirazione risorgimentale, dal “frontismo” del dopoguerra, da un certo classismo duro a morire anche nel Psi, per le circostanze derivate dalla Guerra fredda?

Quando si affronta il tema della maturazione e dell'evoluzione del pensiero, della cultura, della dottrina socialista, si ignora una difficoltà decisiva che bloccò il revisionismo socialista per 30 anni (1915/1945).
L'elaborazione si bloccò con la fine della prima guerra mondiale.
La nascita del fascismo impose un solo tema: come uscire dal totalitarismo.
La scissione comunista legò il socialismo al palo dei fronti popolari e dei patti d'unità d'azione.
I vent'anni di fascismo furono anni di assenza di pensiero. È con il 1945 che comincia una riflessione accelerata nel campo socialista sempre stretto tra invadenza comunista e necessità di assicurare al Paese un governo democratico e socialmente aperto.
Il federalismo fu abbandonato con la Carta Costituzionale. È il fallimento dell'esperimento regionalistico sia di quello a statuto ordinario che di quello a statuto speciale che riapre la questione federale sotto le spoglie di questione settentrionale.
Dopo le Europee la Lega sembra essere più determinata nella realizzazione del Federalismo fiscale, era che si passa alla fase dei decreti attuativi. Cosa si scompone e cosa ricompone sul piano della finanza pubblica? Quali criteri-guida suggeriresti in un ipotetico dialogo col ministro Tremonti?
Il federalismo fiscale è una partita aperta.
I decreti delegati definiranno ciò che è annunciato nella legge e solo dopo potremo leggere le risposte che il governo darà alle tre sfide:
Definizione dei criteri per determinare i “costi standard”;
Modalità per calibrare il ruolo delle diverse fonti di finanziamento degli enti territoriali;
Qualificare il peso dei tributi locali che non potranno sovrapporsi a quelli statali.
Il criterio guida da suggerire dipende dalla scelta politica che Tremonti e la Lega vorranno privilegiare.
Se la linea è la modernizzazione unitaria del Paese partendo dalla sperimentazione del federalismo fiscale, il campo da gioco è limitato da due muretti: da una parte la lotta sul territorio all'evasione fiscale, dall'altra parte l'unificazione nazionale della efficienza della spesa pubblica e della lotta agli sprechi.
Se, invece, si cercherà la via della competizione tra territorio da giocare tra aree chiuse ed antagoniste, il futuro sarà segnato da un rigurgito di secessionismo. Non vi sarà la Lega nazionale della Lega, ma una dura lotta tra Leghe nazionali in conflitto tra di loro.
Dopo il federalismo fiscale, Bossi ha già anticipato la questione del “federalismo politico”. Siamo cioè sul terreno della ridefinizione della cittadinanza, della rappresentanza politica. Dal canto loro, viceversa, tutti i partiti italiani (sia della prima che della cosiddetta seconda repubblica) hanno avuto una vocazione ed una struttura gerarchica di tipo nazionale-unitario. Come si potrà uscire dal modello “feudale” in cui vedi precipitato il sistema politico?
Dopo il federalismo fiscale percorrere la strada della enfatizzazione dello spezzatino federale sarebbe un suicidio.
Federalismo scolastico, federalismo giudiziario, federalismo sociale, federalismo tra politiche estere o della sicurezza regionale, non portano alla ricerca di una rinnovata politica unitaria come invocava Nenni nel '45 richiamandosi a Cattaneo.
A questo punto tutto richiama in causa gli altri partiti e non solo la Lega.
Questi partiti hanno la forza di abbandonare la strada del superamento della crisi di sistema attraverso la scorciatoia delle leggi elettorali truffa e di sollevare, senza ipocrisia, la questione della revisione costituzionale e di imporre l'Assemblea Costituente?
A me pare che questa voglia sia assente ed è per questa ragione che temo che la politica continuerà a gemere negli acquitrini dei gossip e che le decisioni di vita delle generazioni future saranno assunte nelle tende del deserto.
Nella sua ultima intervista alla Critica Sociale, Baget Bozzo intravedeva uno scenario in cui il ritorno del socialismo riformista, del socialismo liberale, è ora nuovamente possibile dopo la crisi del capitalismo finanziario e a quarant'anni dal crollo del Muro di Berlino. Una strada si apre. E' così?
In merito al ritorno del socialismo concordo con Baget Bozzo sul favorevole clima che la crisi del capitalismo finanziario sta creando, ma non vedo ancora emergere una scuola di pensiero e una formazione di duellanti all'altezza di ciò che abbiamo conosciuto nei disprezzati anni del tardo ‘900.
A questo argomento occorre avvicinarsi con studio e senza ira.
Potrà essere utile l'impegno delle autentiche Fondazioni socialiste.

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