IL NO ALLA COSTITUZIONE EUROPEA E' UN'OPPORTUNITA' PER I SOCIALISTI - di Francesco Robiglio, 17 giugno 2005
04 luglio 2005
Il NO di francesi e olandesi alla nuova costituzione europea obbliga ad un ripensamento sul funzionamento delle istituzioni comunitarie e sui suoi effetti sui cittadini dei Paesi aderenti. Francesi e olandesi – e con essi probabilmente una grande parte di popolazione degli altri Paesi fondatori e protagonisti della costruzione dell’UE – hanno dato un’indicazione di insofferenza e opposizione ad un’Europa governata da una burocrazia i cui meccanismi di intervento e redistribuzione delle risorse sono poco trasparenti, poco controllabili e di dubbia efficacia ed equità.
E’ un no a politiche economiche che hanno portato l’Europa, tra le principali aree geo-politiche del mondo, ad avere i più bassi tassi di crescita economica, la più prolifica attività regolamentativa della vita economica e materiale dei cittadini e la più diffusa perdita di fiducia sulle proprie possibilità e i propri destini; un no ad una politica di enorme redistribuzione delle risorse a favore di poche élites sociali decisa da élites burocratiche che operano senza controllo democratico e che rappresentano un freno allo diffusione del benessere (la PAC è probabilmente l’esempio più eclatante in questo senso). Troppi individui godono di protezioni anti-storiche e sempre più costose per la collettività e sempre più individui si sentono esclusi da tali sistemi di protezione e senza fiducia sulle possibilità di un proprio riscatto. E’, infine, un no ad un trattato costituzionale di 440 pagine che poteva essere scritto in 15 e ratificato in un’unica grande giornata europea.
Nel no francese e olandese vi è poi una richiesta di ricostituzione di un tessuto connettivo e civile in cui potersi identificare e anche sentirsi protetti, dopo l’indebolimento dello Stato-Nazione e, con esso, della capacità di dare risposte da parte dello Stato di welfare.
I no alla costituzione europea, quindi, pongono istanze legittime delle quali la sinistra riformista si è fatta storicamente carico nei propri programmi e nella propria azione di governo attraverso il paradigma socialdemocratico, fornendo - per quei tempi - risposte “progressive”, che guardavano avanti, ponevano le basi per nuove condizioni di vita, dimostrando capacità di trarre e diffondere benefici dal presente.
Sarebbe oggi un errore e un segno di ripiegamento e di indebolimento della nostra capacità di farci interpreti del futuro se non riconoscessimo queste istanze come nostre, come il terreno elettivo della nostra azione politica, e facessimo prevalere una lettura in base alla quale il SI sarebbe una scelta “giusta” e progressista e il NO una nuova Vandea. E giusta per chi, poi? Per i cittadini elettori e finanziatori di questa Europa o per gli eurocrati creatori di questo inadeguato trattato costituzionale?
Dobbiamo avere il coraggio di dire che questa Europa non ci piace, non rispecchia i nostri valori di equità sociale, di libertà, di allargamento delle opportunità di crescita per tutti, di sviluppo economico e sociale. Dobbiamo poter dire che le politiche redistributive di Bruxelles creano protezioni inique e svantaggi ed esclusioni sociali che non possiamo accettare e che tutto ciò oggi avviene senza che i cittadini possano effettivamente incidere su tali scelte e, quindi, con un fondamentale deficit di democrazia.
Dobbiamo anche dire che non appartiene al nostro modo di interpretare le responsabilità di governo quello di delegare a strutture tecniche fuori dal controllo democratico le decisioni di riforma necessarie, così come molti Paesi hanno fatto, in primis l’Italia.
E’ fin curioso che la sinistra europea, in una sua grande parte, abbia lasciato il campo al riconoscimento di tali istanze alle forze più conservatrici o anche reazionarie, rinunciando per il momento all’elaborazione di un programma politico, economico e sociale più avanzato e meglio rispondente ai tempi. Come ha osservato Giddens in un recente articolo (pubblicato su questo sito), occorre uno scossone e maggiore innovazione nella proposta politica della sinistra europea: più Inghilterra e meno Francia; bisogna ritornare ai valori del socialismo europeo e rivedere il paradigma socialdemocratico che per 50 anni ne ha rappresentato la concretizzazione politica. I socialisti europei dovrebbero farsi carico di un programma di forte liberalizzazione dei mercati, di abbattimento delle fortezze protettive del vecchio ed esclusive del nuovo e di eliminazione degli ostacoli alla crescita; un programma che, attraverso la revisione delle regole di utilizzo dei fondi assegnati dai governi europei alla UE, consenta ai popoli europei di accettare le sfide che ci provengono dalle altre aree economiche a seguito della mondializzazione dell’economia (siamo ad esempio convinti che sia necessario e opportuno assegnare alla PAC quasi la metà del bilancio comunitario, negando risorse ad altri interventi, ad esempio per facilitare la diffusione dell’innovazione tecnologica e la riconversione produttiva?). Potremmo anche scoprire che, probabilmente, l’UE potrebbe operare con maggiori benefici per i cittadini europei, con un minore assorbimento di risorse dai contribuenti.
Questa costituzione europea non è insufficiente perché introduce troppo mercato, ma perché non fornisce sufficienti garanzie ai popoli europei di poter riprendere un sentiero di crescita e diffusione del benessere. I no francese e olandese, quindi, forniscono alla sinistra europea una formidabile occasione storica per farsi promotrice di una radicale revisione non solo della costituzione europea, ma anche dei meccanismi di funzionamento dell’Unione Europea. Una risposta in questi termini dimostrerebbe che abbiamo, più di altri, capacità di interpretare i bisogni della gente. E’ quello che i socialisti hanno saputo storicamente fare: nell’’800 con i movimenti cooperativi, solidaristici e mutualistici; nel ‘900 con il paradigma socialdemocratico.