IL MARTIRIO DI GIULIO REGENI di Alberto Benzoni
07 dicembre 2018
Noi occidentali non siamo particolarmente sconvolti dai
massacri che segnano le vicende del mondo arabo: anche perché si tratta di
un'esperienza che coinvolge equamente i protagonisti più svariati. Mentre
invece ci colpiscono le offese, mortali e no, subite dai nostri confratelli. Un
atteggiamento di cui si può discutere all'infinito; ma di cui occorre prendere
atto anche perchè coinvolge, insieme, governi e pubbliche opinioni.
Ora, tutto questo rappresenta un deterrente per i vari regimi arabi: così da
spingerli a valutare accuratamente le nostre probabili reazioni così da
astenersi dal procedere oppure, dopo il fattaccio (che può anche essere un
arresto ingiustificato), da offrire riparazioni o spiegazioni accettabili.
Cosa hanno fatto, invece, i dirigenti egiziani e i loro servizi di sicurezza?
Prima, hanno sorvegliato costantemente il povero Giulio - un innocente, un
entusiasta, uno sprovveduto fino a credere alla possibilità di un mondo
migliore, insomma il figlio che ognuno di noi avrebbe voluto avere - sino a
poter capire chiaramente che il suo comportamento non era assolutamente quello
di una spia. Poi però, nel loro orizzonte paranoico o per dare un esempio
valido per tutti i ficcanaso del futuro, lo hanno definito tale. Potevano
fermarsi a questo punto, allontandolo dal paese, magari dopo consultazioni con
il governo italiano. E invece no. E invece lo hanno massacrato per giorni e
giorni fino a spezzargli l'osso del collo e a buttarlo, anziché farlo sparire,
come uno straccio ai bordi dell'autostrada. E dopo, una serie di dichiarazioni
che erano, per noi, una serie di sputi in faccia. Prima la storia delle
frequentazioni gay; poi quella dei ladri; poi, presa per i fondelli suprema,
l'attribuzione della sua uccisione a "forze che intendevano porre a
rischio i rapporti (magari plurisecolari N.d.A) tra i due paesi" (che,in
assenza di qualsiasi specificazione potevano essere rappresentate dal suo tutor
o magari dalla sua famiglia...). "Servizi deviati, tragico errore";
era la spiegazione più ovvia ma mai presa in considerazione.
La scelta di un comportamento così volutamente insultante ha una sola
spiegazione: un profondo disprezzo per il nostro paese e per la sua classe
dirigente.
I dirigenti del Cairo conoscevano i loro polli. Sapevano che per anni e anni,
dall'abbattimento dell'aereo Itavia, alla vicenda del Cermis, alle
prevaricazioni subite da americani, francesi, tedeschi a ogni livello e di
qualsiasi tipo, noi avevamo subito tutto senza reagire; e che la nostra
pubblica opinione, specie quella "de sinistra", a furia di indignarsi
a freddo e a comando, aveva perso la capacità di farlo spontaneamente (dopo
tutto il nostro Regeni era un cane sciolto, non apparteneva a nessuna categoria
protetta e, per di più, era andato in Egitto in base ad un obbiettivo
concordato con l'università di Cambridge; quanto bastava a catalogarlo come
"agente, magari inconsapevole dell'imperialismo" così dal
disinteressarsi di lui...).
Le loro previsioni si sono rivelate esatte. Oltre ogni aspettativa. Fino al
punto di vedere, ignominia suprema, i nostri politici e i nostri parlamentari
bere avidamente la storiella del "complotto contro le relazioni"; al
punto di farla propria.
Alla fine di questa vergogna la magistratura italiana che indica come assassini
e torturatori i vertici della polizia e dei servizi egiziani. E la replica di
costoro che a partire dalla richiesta di permesso di soggiorno rivendica la
decisione di considerare Regeni una spia e di averlo trattato come meritava.
Fango, solo fango, in conclusione. Ma averlo potuto vedere, alla fine di una
tragedia invendicata é già una soddisfazione.