IL LENTO SVANIRE DEI REFERENDUM TRA CARTA E CORTE di Rino Formica, da Le Nuove Ragioni del Socialismo del 29 Aprile 2009

02 giugno 2009

IL LENTO SVANIRE DEI REFERENDUM TRA CARTA E CORTE di Rino Formica, da Le Nuove Ragioni del Socialismo del 29 Aprile 2009

L’INESISTENTE IDILLIO COSTITUENTE.
La resistenza aprì la strada alla Nuova Italia antifascista, democratica e repubblicana. La Costituente, figlia naturale della Resistenza, legittimò le forze politiche del Nuovo Risorgimento e ad esse assegnò il compito di guidare il processo riformistico della trasformazione e della modernizzazione dell’Italia. Si trattava di una rivoluzione “continua a farsi”, da attuarsi, con lineare gradualità e con metodo democratico, nello spirito unitario della resistenza e nella discontinuità con il vecchio Stato storico liberal democratico. Questa fu la base politica definitiva ed immodificabile (art.139) della Carta Costituzionale. Ogni tentativo di cambiamento di questo solenne assunto produrrebbe una frattura insanabile del patto costituzionale fondativo della Repubblica. L’indirizzo ideologico della Carta che costituisce la piattaforma fondativa della Repubblica, è ricavabile dalla connessione tra l’art.3 (uguaglianza dei cittadini sul piano dei diritti politici, economici e sociali) e l’art. 49 ( ruolo dei partiti politici nella costruzione del modello costituzionale). Il punto chiave di questo intreccio è nel riconoscimento di una doppia sovranità popolare: una si esprime mediante la rappresentanza parlamentare (democrazia delegata) e l’altra viene esercitata tutti i giorni attraverso l’azione politica dei grandi partiti di massa (democrazia diretta). Questa doppia sovranità è funzionale al superamento dei vecchi limiti del parlamentarismo di tipo tradizionale. A questo punto dobbiamo fare una considerazione: se la scelta Repubblicana è un dato costituzionalmente immodificabile (art.139) la rivoluzionaria novità della doppia sovranità popolare pone problemi politici più complessi. Infatti, è agevole prevedere un bilanciamento dei poteri e degli istituti di garanzia negli assetti costituzionali fondati su lo schema della democrazia della rappresentanza. E’ più difficile, invece, prevedere una equilibrata e garantita evoluzione democratica di un sistema sottoposto ad una costante azione modificativa di nuovi soggetti (i partiti), portatori di sovranità popolare. Chi racconta la bella favola di un idillio costituente alimentato da cortesi intese e da virtuosi compromessi, ignora le difficoltà che i costituenti incontrarono nel tentativo di tenere insieme il sentimento unitario antifascista, lo schema ideologico di nuova società “a farsi” e la definizione di un ordinamento istituzionale non configgente con la necessità di tenere insieme tutte le forze politiche fondatrici della Repubblica. Gli ostacoli maggiori vi furono quando tra i cattolici ed il blocco social-comunista emersero le divisioni nell’intendere la “società organica”, e allorchè nel 1947 si rovesciò sul teatro nazionale il mutamento nei rapporti internazionali tra gli alleati vincitori della seconda guerra mondiale. Non dimentichiamo che i testi elaborati nelle sottocommissioni e nelle commissioni dei 75 pervennero all’esame del plenum dell’Assemblea nel pieno della rottura di Governo tra democristiani da una parte e socialisti e comunisti dall’altra. Fu così che alcune norme si caricarono di significato ambiguo, altre furono mutilate e altre ancora furono scritte per complicare la vita dei governi e per obbligare i partiti a stare insieme in parlamento (proporzionalismo di fatto, quorum elevati e art.138). Oggi viviamo in una paradossale situazione. La richiesta di una fase costituente è unanime, ma come si entra nel vivo della discussione scatta un meccanismo difensivo che ruota intorno al principio di un impedimento morale a tentare una generale rivisitazione della Carta. Calamandrei nella discussione generale sul testo della Costituzione vide in essa i limiti ed i segni della contingenza politica e con l’autorità del giurista e con la sensibilità dell’intransigente repubblicano e antifascista, ebbe la forza di dire che nasceva una Costituzione “poco preveggente”. E’ vero che i costituenti usarono sapienza giuridica e trasmisero nella norma il meglio di un comune sentire e di una intensa passione ideale. Ma erano figli del tempo ed erano immersi nel vivo di un fuoco politico mai placato. Tre sono oggi i temi politici caldi che incidono e rendono instabile l’equilibrio costituzionale: la crisi dello Stato nazionale; la crisi del partito politico e della democrazia organizzata; il lento svanire della forma di democrazia diretta. Dei due primi motivi di turbamento parleremo in altre sede, mentre per il terzo disagio possiamo riferirci alla progressiva decadenza dell’istituto referendario. Sull’opportunità di introdurre un momento di democrazia diretta sia nella fase della definitiva approvazione della legge, sia in una fase post-sperimentazione della legge per la sua abrogazione, vi fu larga maggioranza nella sottocommissione e nella Commissione dei 75. Questo è il testo che pervenne il 16 ottobre 1947 in Assemblea generale (la data è importante perché si era in avanzata consumazione del legame unitario tra i grandi partiti di massa). “L’entrata in vigore d’una legge non dichiarata urgente a maggioranza assoluta, e non approvata da ciascuna Camera a maggioranza di due terzi, è sospesa quando, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione, cinquantamila elettori o tre Consigli regionali domandano che sia sottoposta a referendum popolare. Il referendum ha luogo se nei due mesi dalla pubblicazione della legge l’iniziativa ottiene l’adesione, complessivamente, di cinquecentomila elettori o di sette Consigli regionali. “Si procede altresì a referendum quando cinquecentomila elettori o sette Consigli regionali domandano che sia abrogata una legge vigente da almeno due anni. “In nessun caso è ammesso referendum per le leggi tributarie, di approvazione dei bilanci e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali”. In sostanza si proponevano due tipi di referendum: l’uno, contemplato nel primo comma, è il referendum come elemento di formazione della legge; l’altro invece è il referendum abrogativo di una legge già operante. Era una rivoluzione che in una fase di unità nazionale rendeva più saldo il dominio dei partiti nella formazione della legge. Ma nell’ottobre del 1947 eravamo già dentro la rottura dell’unità nazionale e nessuno era in grado di prevedere in quale direzione si sarebbe diretta la volontà popolare nel mettere in discussione una maggioranza di governo. Dopo una lunga e preoccupata discussione l’Assemblea alla quasi unanimità abolì il rivoluzionario principio dell’intervento popolare nella formazione delle leggi. Ma la sinistra socialista e comunista andò oltre questa preoccupazione e chiese la soppressione di tutto l’articolo perché confidava in un ritorno all’unità nazionale in parlamento anche in presenza della rottura unitaria nel Paese. Socialisti e comunisti (107) votarono per la soppressione, democratici cristiani, socialdemocratici e liberali votarono contro (209). Seguirono altre votazioni per la riformulazione della parte residuale (referendum abrogativo) dell’art. 72 (art.75 vigente). Questo tormentato articolo subì una modifica inspiegabile in sede di coordinamento dei testi. L’Assemblea votò, come risulta dagli atti parlamentari, la inclusione delle leggi elettorali tra gli atti legislativi non abrogabili con referendum. Il testo definitivo della Carta ha invece ignorato questo voto e ha fatto scomparire le parole: leggi elettorali dal secondo comma dell’art. 75. Il referendum non piaceva ai partiti perché veniva scavalcata la mediazione dei partiti nel rapporto tra Stato e popolo. L’istituto referendario non trovò grandi accoglienze nella repubblica dei partiti, ma fu addirittura stravolto dalla Carta Costituzionale. Con la sentenza del 2 febbraio 1978 la Corte “come attore istituzionale” intervenne per definire i criteri in base ai quali si può accogliere o respingere un quesito. I limiti sono tre: quelli logici, legati alla formulazione del quesito; quelli fissati dall’art.75 della Costituzione e quelli riconducibili a norme costituzionali diverse dall’art.75. La motivazione sul punto così recita: “esistono in effetti valori di ordine costituzionali, riferibili alle strutture o ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum al di là della lettura dell’art.75, secondo comma della Costituzione”. La Corte con questa sentenza allargò i suoi poteri regolativi e costrinse l’on. Rodotà ad una dura polemica. Il giurista così si espresse: “La Corte Costituzionale nella vicenda del Referendum, ha assunto il ruolo di legislatore non previsto dalla Costituzione”. Da quel giorno l’ammissibilità di un referendum è affidata al caso e al mutevole umore dei giudici costituzionali. Ma i partiti, anche dopo la crisi della Repubblica nel 1997, sul progetto di revisione costituzionale introdussero norme vaghe ed aleatorie che avrebbero reso quasi impossibile l’esercizio di un residuale diritto di democrazia diretta. Viviamo giorni di celebrazioni e di apparente armonia emergenziale. Tutti sanno che la Costituzione scritta è stata stravolta dalla Costituzione materiale, ma nessuno è in grado di poter aprire un serio confronto politico su ciò che va difeso e preservato e su ciò che va modificato perché superato o precario. Guardiamo al referendum in corso di celebrazione. E’ manifestamente incostituzionale; aggraverebbe la crisi democratica perché aprirebbe la strada all’avventurismo dei capi carismatici; bloccherebbe definitivamente la formazione di una classe dirigente politicamente forte e culturalmente attrezzata. Eppure non si capisce ancora chi lo vuole veramente e chi fa finta di volerlo. In noi sorge un dubbio. La Costituzione si è fermata perché non ci sono più le forze che furono chiamate a costruire la democrazia repubblicana e a garantirne i valori. Sono un po’ patetici i cori dei lottatori stanchi contro la partitocrazia. Forse è questo il momento di riflettere su una circostanza semplice ed inconfutabile: sono scomparsi i grandi partiti ideologici pilastri della Carta Costituzionale, e non sappiamo su quale forze operative poggia la Repubblica. Se questo è il problema non possiamo fare a meno che partire da un solo valido punto: ricostruire la vita politica ricostruendo i partiti del domani. E’ un’opera ciclopica da affidare alle nuove generazioni alle quali possiamo dare un piccolo consiglio di esperienza. La cultura del fare è importante per governare l’oggi, ma per governare il domani occorre la cultura del pensare.

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