IL GOVERNO DELL’ITALIA RIPARTE DAL CENTRO di Paolo Franchi dal Corriere della Sera del 5 ottobre 2013
09 ottobre 2013
Si tratterà pure di “caso psicanalitico”, come sostiene, intervistato dal Mattino, Ciriaco De Mita. Ma sono sempre di più, sui giornali come nei talk show televisivi, quelli che ci intrattengono su un imminente ritorno in grande stile della Democrazia cristiana. Che troverebbe nei volti, nelle biografie, nel linguaggio e nello stile dei principali protagonisti della giornata (forse storica, sicuramente campale) del 2 ottobre, a cominciare da Enrico Letta e Angelino Alfano, la più clamorosa delle conferme. Si tratta, in generale, di chiacchiere più o meno colte, ma destinate a lasciare il tempo che trovano. Ma, a loro modo, segnalano una questione reale, e ingombrante. Proviamo a enunciarla seguendo un percorso a ritroso. Partendo, cioè, dalla fine.
Non è detto che nella tarda mattinata del 2 ottobre, a Palazzo Madama, si sia concluso il tempo di
Silvio Berlusconi leader politico. Molti lo hanno dato per politicamente finito almeno quattro volte (nel 1994, nel 1996, nel 2006 e alla vigilia delle ultime elezioni) e, come è noto, si sono dovuti ricredere, prendendo malinconicamente atto che il Cavaliere dispone di sette vite come i gatti: se fosse cosi, decadenza o non decadenza, gliene resterebbero altre tre. Di sicuro, però, è finito e non si riaprirà, anche e forse soprattutto perchè un Paese allo stremo non se lo può più permettere, un ciclo ventennale (quello del bipolarismo selvatico della cosiddetta Seconda Repubblica) che su Berlusconi e stato, nel bene e nel male, imperniato. Ma gli interrogativi cominciano proprio qui.
Può darsi che il domani ci riservi quel bipolarismo virtuoso, quella democrazia dell'alternanza finalmente matura, che nel trascorso ventennio sono stati occasione pressoché solo di nobili auspici e di commenti pensosi: e dunque una destra e una sinistra finalmente di stampo europeo, capaci di contendersi consensi al centro, senza perdere troppi voti nel loro elettorato tradizionale, e di alternarsi al governo o, al contrario, di dare vita a grandi coalizioni nello spirito di chi laicamente considera tutte e due queste possibilità politicamente fisiologiche. Sarebbe, probabilmente, la soluzione migliore. Ma è anche la soluzione più difficile. Perché di questa destra
(e, se vogliamo, pure di questa sinistra) in Italia ci sono scarse tracce. Con l'eccezione di due ventenni di cui e molto difficile andare fieri, quello fascista e quello della Seconda Repubblica, l’Italia è sempre stata governata dal centro di volta in volta possibile. Da un centro capace di tagliare le ali alla destra e alla sinistra e nello stesso tempo di cooptarne parti più o meno consistenti. A questo si riferisce, immagino, chi oggi (impropriamente) parla, per dolersene o per compiacersene, di un ritorno della Dc. All'idea che, in Italia, per motivi in larga misura ascrivibili ai caratteri di fondo della nostra storia, il centro sia quasi per necessita il motore, e non immobile, della politica intesa come arte, o scienza, delle soluzioni concretamente, storicamente possibili. Un motore che non può essere né asportato né cambiato in corsa (come proponeva di fare per il capitalismo, con le riforme di struttura, Riccardo Lombardi) senza che vengano meno le basi stesse di una stabilità politica che tutti considerano come un valore in se.
A guardar bene, non ragionavano cosi solo i democristiani, ma persino i comunisti (Enrico Berlinguer con la sua strategia del compromesso storico, certo, ma prima ancora Palmiro Togliatti, che enunciò questa tesi anche per il Pci, e addirittura in forma di principio, in un aureo libretto, “La fondazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924”, meritevole, nell’imminenza del cinquantenario della morte del Migliore, di attenta rilettura). E forse anche il Bettino Craxi dei suoi tempi migliori non la pensava troppo diversamente: che cos'era mai, altrimenti, quella «centralità socialista» che vagheggiava e si riprometteva di guadagnare, a costo di andare troppo per le spicce? Perdere il centro significava perdere la stabilità e la governabilità.
Di diverso, anzi, di opposto avviso, e stata invece la gran parte non solo dei politici a vario titolo «nuovisti», ma pure larga parte della pubblicistica che vent'anni fa accompagnò con simpatia il combinato disposto tra iniziativa giudiziaria e strategia referendaria che prese il nome di «rivoluzione italiana». Altro che mettersi in cerca, dopo la consunzione, o peggio, di quelli tradizionali, di nuovi centri di gravità: per venire a capo dei nostri guai, corruzione compresa, non c'era che liberarsi, facendo appello alle virtù del sistema maggioritario, da questa ossessione. Difficile dire quanti tra quelli, numerosi, che all'epoca sposarono questa tesi siano ancora della stessa opinione, e quanti invece siano arrivati a conclusioni opposte. Ma, se non vogliamo diventare centristi per stato di necessità, o anticentristi per fedeltà a un antico atto di fede, piuttosto che stare a chiedersi pensosi quali e quanti tratti neodemocristiani siano rintracciabili in Letta o in Alfano, sarebbe bene discuterne. E magari anche fare qualche autocritica per talune nostre indebite euforie del passato.