IL FRULLATORE DELLA POLITICA di Franco Astengo
06 aprile 2017
Le contrastate vicende della politica italiana, emerse nel corso della più recente attualità, suscitano un’esigenza di riflessione che, mi pare, è sempre più difficile proporre e portare avanti.
Anzi, appare ormai quasi impossibile riuscire a distinguere il merito delle varie questioni che, via, via, via, sono sollevate all'attenzione dell'opinione pubblica.
Le diverse valutazioni, giudizi, scelte, sono assunte sempre più in base a motivazioni di carattere strumentale, al di fuori da un contesto d'analisi e imposte dall'uso delle notizie, così come questo è determinato da chi tira le fila della grande comunicazione di massa.
Titoli, commenti, organizzazione nella gerarchia delle notizie non sono mai stati fattori “neutri”, ma sempre sono stati calibrati a seconda delle diverse convenienze: questa verità storica non è mai stata verità sacrosanta, come accade oggi giorno.
Questioni di grandissimo rilievo, sul piano teorico – politico che impegnano la concezione dell'etica, la collocazione ideologica, il substrato culturale di ciascheduno di noi sono, così, misurate nell'ottica che ho appena cercato di indicare: della pura strumentalizzazione e utilizzate, nella maggior parte dei casi, quale supporto per il conseguimento di obiettivi immediati, di cortissimo respiro.
Si aprono dibattiti, solo in apparenza rivolti a dirimere questioni di fondo, ma, in realtà, artatamente orientati a realizzare risultati propagandistici, buoni soltanto per autoconservare ruoli da protagonisti per una genia ristretta di accaniti frequentatori degli studi televisivi, maestri della dichiarazione e della battuta, che in varie vesti (anche intercambiabili tra loro: uomini di governo, dirigenti di partito, giornalisti, professori a contratto, attori di cabaret) si autocollocano nell’“empireo” che presiede alle sorti della nostra società.
Temi di grande delicatezza come quelli della politica estera in una situazione globale che presenta rischi di guerra, della politica economica, dei temi istituzionali dalla legge elettorale fino – addirittura – alla riforma della Costituzione Repubblicana se pensiamo a come è stato affrontato dal partito di maggioranza relativa il referendum dello scorso del 4 Dicembre.
Tutti punti generalmente affrontati nella dimensione puramente propagandistica di cui si è detto, intorno ai quali si sono realizzate operazioni politico culturali, dispensando patenti di credibilità, affidabilità, coerenza, ecc, ecc: senza che chi fungeva da “dispensatore” fosse provvisto di un qualsiasi titolo effettivo, ma investito soltanto da questa “aura” massmediatica.
Il rapporto con la realtà sociale, in questi casi, è stato del tutto secondario (o assunto, ancora una volta, in via del tutto strumentale, come è stato nel caso dei grandi movimenti che hanno scosso la vita quotidiana in alcune parti del Paese).
Insomma: la relazione tra cultura, politica, uso della comunicazione di massa, appare ormai trasformata in un gigantesco frullatore, dove tutto è ridotto in una dimensione del tutto irriconoscibile rispetto alle posizioni di partenza, omologato e indistinguibile.
Un vero e proprio “sonno della ragione” collettivo, nel corso del quale appaiono sparite le idee “forti” della battaglia e della rappresentanza politica, ormai, di fatto, comprese, esaustivamente, nella logica della personalizzazione avulsa da qualsiasi possibilità di espressione, per una possibile proposta politica collettiva.
I fenomeni appena descritti sembrano proprio ormai dilaganti e rappresentano l'assunzione, senza principi, di una modernità intesa soltanto come punto di esaltazione della competitività individualistica, della sopraffazione sull'altro, dell'egoismo corporativo.
Non vale più combattere la battaglia delle idee; non emerge più il ruolo della soggettività politica capace di intendere e storicizzare i fenomeni sociali.
Se vogliamo usare, come dobbiamo usare, l'antica terminologia possiamo ben dire che, in questo modo, quella che un tempo avremmo definito tranquillamente “ destra” ha allargato enormemente la propria sfera d'influenza comprendendo l’insieme dei soggetti artatamente definiti come componenti della “tripolarizzazione” del sistema politico italiano ma in realtà componenti di un vero e proprio “cartel party”.
Ho espresso una visione eccessivamente pessimistica?
Forse.
La vicenda italiana, infatti, si inquadra all’interno di una davvero drammatica situazione generale, nella fase di inversione di tendenza circa la “faciloneria” con la quale è stata affrontata la fase descritta erroneamente come “globalizzazione”.
In realtà stiamo assistendo pressoché inerti (salvo alcune piccole punte di insorgenza purtroppo spesso contrassegnate da una logica NIMBY) alla tragica conclusione di un’intera fase storica che sta precipitando nell’idea di un governo automatico della tecnica dal quale potrebbero generare guerre di una distruttività mai vista e regimi dei quali neppure la fantasia di Orwell avrebbe potuto sospettare la possibilità d’esistenza.
Eppure le “verità sociali” (la sintesi più efficace mai sentita, quella usata da Pietro Gori in “Addio Lugano Bella”) rimangono eterne e incontrovertibili e da esse scaturiscono tutte le contraddizioni della modernità che ci rifiutiamo di affrontare nascondendoci dietro al fallimento dell’inveramento statuale delle rivoluzioni avvenute (più tragico quelle cinese addirittura di quello sovietico) e del relativo crollo del riformismo keynesiano del “new deal” e del “welfare state”.
Ripartiamo allora dalla constatazione ovvia del trovarci in una situazione storica più arretrata addirittura di quella analizzata nella “Critica al Programma di Gotha” e a quella determinatasi con la rottura della Prima Internazionale.
Consapevolezza dell’arretramento storico, considerazione dell’insuperabilità delle contraddizioni e dell’impossibilità di un riordino per via “tecnica”, visione del futuro per una nuova democrazia dell’uguaglianza: tre punti per ripartire.
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