IL “DOPO ZINGARETTI” di Alberto Benzoni
10 marzo 2019
Ovvero, il campo socialista, la sinistra e l’Europa
A poco più di due mesi dalle prossime europee il quadro della sinistra (parlo
di sinistra e di non di socialismo perché, almeno qui da noi, al socialismo non
si richiama nessuno, almeno all’esterno) è assolutamente sconfortante.
Certo, abbiamo avuto la vittoria di Zingaretti. Soprassalto identitario nei
confronti dell’Opa chiaramente ostile di Macron. E, come tale, apprezzabile. Ma
in prospettiva. Perché il nuovo segretario, fedele al suo temperamento e alla
voluta limitatezza dei suoi orizzonti, si è precipitato immediatamente verso il
santuario di santa Tav, ha fatto risuscitare Pisapia e ha aperto le braccia a
Calenda come collaboratore prezioso di un comune disegno. Per il resto impegni
vaghi in senso sociale ma senza interrogarsi minimamente sulla loro
compatibilità con il quadro europeo; e soprattutto senza dare la minima
indicazione sul come questo quadro possa essere mutato e con quali alleanze
politiche e sociali. Ne verrà fuori una campagna elettorale senza alcun respiro
internazionale e tutta incentrata sulle vicende italiane. Suo bersaglio sarà,
almeno questa volta, Salvini; cosa buona e giusta, ma segnata da una piccola
dimenticanza. Si attacca, giustamente, il leader della Lega come avvelenatore
di pozzi ma non se ne contesta, in realtà, la politica. E non lo si fa sia
perché, nella sostanza, che è poi la politica di integrazione, non c’è poi una
grande differenza tra questo governo e i precedenti; sia, e soprattutto,
perché, Francia di Macron compresa, la politica europea in materia di
immigrazione e di ordine pubblico è perfettamente in linea con quella dello
stesso Salvini. (Per inciso, tutti attendono ansiosamente la cacciata del
barbaro Orban da parte del Ppe dimenticandosi che la materia del contendere non
le visioni parabannoniane del Nostro ma, udite udite, la sua mancanza di
rispetto nei confronti di Juncker e di Soros…).
Ci si dirà che, comunque, la dichiarazione di indipendenza del Pd nei confronti
dei suoi salvatori esterni è di per sé un fatto positivo. Non foss’altro perché
suscettibile di portare, nel corso del tempo, a trovare in se stessi le ragioni
della propria esistenza. E questo è senz’altro vero. Ma è anche vero che,
nell’assenza di un competitore forte a autonomo alla propria sinistra, il Pd
sarà portato alla continuità: leggi all’adesione definitiva ad un ordo
liberismo ben temperato.
Il fatto è, purtroppo, che questo competitore non si è manifestato. E proprio
quando sarebbe stato più necessario. E non si è manifestato per le tare
ereditarie e potenzialmente distruttive delle sue due componenti.
La prima era e rimane incapace di separare i suoi destini, politici e
soprattutto personali, da quelli della casa madre. E’ bastata la comparsa di
Zingaretti all’orizzonte e ci è toccato assistere alle solite scene, tra il
patetico e il risibile, dei soliti noti: gli equilibrismi mal riusciti del suo
ideologo di fiducia, tale Smeriglio, capace di dire niente e il contrario di
niente nello spazio di un’intervista; le aperture di Fratojanni; la commozione
di Veltroni e, ciliegina sulla torta, il “mi sento quasi a casa” del sublime
Prodi (su quel “quasi” e sulle sue motivazioni ci sarebbero da scrivere
volumi).
Attese forse destinate a restare vane. Non è detto che il fantasma dell’Ulivo
riprenda forma. E che, in un’elezione in cui vigono le preferenze, il Pd sia in
grado di soddisfare le voglie dei suoi nuovi clienti. Ma per l’intanto si può
trascorrere tranquillamente il tempo magari finendo comunque sui giornali.
Drammatica, invece, l’assenza politica della sinistra radicale. Dico politica
e, più volgarmente elettorale perché su altri fronti questa appare più vitale
che mai: libri, riviste e rivistine, formazione di nuovi partiti (accompagnata
peraltro da scissioni uguali e contrarie), dibattiti e analisi di alto livello.
Sull’Italia e sull’Europa e sul che fare per cambiare l’una e l’altra. Ma
presenza esterna zero via zero: al punto di dubitare della stessa possibilità
di costruire una lista che, alle prossime europee, riesca almeno a superare la
sbarra del 4%.
Non è colpa di nessuno. O, se volete, è colpa di tutti. E’ l’autoreferenzialità
è il “fai da te” generalizzato di chi coltiva vecchie identità o vuole
ricostruirne di radicalmente nuove consumando tutte le sue energie
nell’operazione. Al punto di dimenticarsi, in Italia come altrove, che tutto si
muove: e, purtroppo, nel senso di un maggiore disordine e di una più grande
ingiustizia.
Questa, a partire dalla dimensione elettorale, dovrebbe essere l’era dei
“fronti”, con la vocazione alla massima apertura, delle battaglie possibili per
cambiare l’Europa e l’Italia.
Ma sarà per la prossima volta.